sabato 31 gennaio 2009
Chi, come il sottoscritto, ha superato da qualche tempo la fascia d'età contraddistinta dagli "enta", non ha soverchie difficoltà nell'ammettere che la ricerca di un nuovo posto di lavoro (nella malaugurata ipotesi della relativa perdita) oggi come oggi presenta insormontabili difficoltà. Ne ho parlato recentemente con i miei colleghi di ufficio (in maggioranza donne e mamme) che avvertono i morsi della crisi e della paura di restare senza lavoro, seppur considerando lo spessore aziendale, non certo di poco conto, nel quale sono (siamo) inseriti. Ma il discorso vale per tutti (purtroppo), sia piccole che grandi imprese. L'attuale recessione fa aleggiare su tutti noi lo spettro del licenziamento o della cassa integrazione o della riduzione di stipendio. A maggior ragione il discorso si fa ancor più spinoso e difficile se chi deve trovarsi un nuovo lavoro ha più di quarant'anni e paradossalmente (invece di essere considerato pieno di esperienza) scartato dal mondo del lavoro. O comunque non più tenuto nella debita considerazione. Ed ora provate ad immaginare la vostra reazione se, scorrendo le offerte di lavoro, ne leggeste una così: "Azienda pubblica ricerca urgentemente impiegato amministrativo. Appartenente religione cattolica, no ebrei, no musulmani". Oppure: "Si ricerca addetto segreteria. Fisico integro, al massimo piccola menomazione". O infine, più semplicemente: "Ragionieri cercansi, solo uomini, astenersi donne". Ne sareste (immagino) giustamente indignati e, con ogni probabilità, offerte così non verrebbero neppure pubblicate, perchè contrarie alla legge. E, più ancora, a quella sensibilità comune che mal sopporta discriminazioni tanto evidenti. La stessa attenzione (e una simile ribellione interiore) ancora non scatta, invece, di fronte alle tante discriminazioni per età che è possibile riscontrare nelle offerte di lavoro sui giornali, nelle bacheche di agenzie per il lavoro e persino sui siti di enti pubblici. C'è da dire che la prima norma sulla parità di trattamento nel lavoro, fra uomini e donne, risale al 1977 (con la legge 903) e che quindi ha avuto più di 30 anni per sedimentarsi, quantomeno, nei comportamenti formali degli operatori del mercato del lavoro. La direttiva europea che riguarda, inoltre, la non discriminazione per età (a parte religione, convinzioni personali, orientamento sessuale, handicap e quant'altro) risale invece al 2000, e solo dal 2003 è stata recepita da una legge italiana (la 216). Sei anni, comunque, dovrebbero essere un tempo perlomeno sufficiente affinchè chi si occupa in maniera professionale di far incontrare domanda e offerta di lavoro la applichi in maniera integrale. E soprattutto convinta. Invece i casi di violazione sono molteplici: sia in maniera diretta ed esplicita (come quando in un'inserzione si parla di "età massima 40 anni"), che indiretta e subdola (come quando si scrive che "il candidato ideale deve avere un'età compresa tra 25 e 35 anni" escludendo di fatto uno che ha 38 anni, ad esempio). Insomma, a volte, un quarantenne lo si ritiene già in partenza troppo vecchio per una certa mansione (come è capitato recentemente a un mio amico, classe 1960, alla ricerca di un posto da fattorino per il recapito della corrispondenza). A parte ciò, in sintesi, quello che meraviglia e disarma è il pregiudizio culturale e ideologico che colpisce i quarantenni appena sorpassata la fatidica soglia anagrafica. Nella vita di relazione vengono considerati poco più che ragazzotti; nell'immaginario collettivo delle imprese, invece, sembrano avviati sul viale del tramonto. Senza più energie. Senza nulla di nuovo da dire (o da fare) per un'azienda. Così l'età, purtroppo, sta assumendo i connotati di un vero e proprio stigma sociale doppiamente pericoloso: sia perchè favorisce l'espulsione precoce dalle imprese di chi si trova a metà della vita lavorativa, sia perchè penalizza ulteriormente gli stessi over 40 rendendogli oltremodo difficoltoso il rientro nel circuito produttivo. Già solo sul piano psicologico l'effetto di certe inserzioni è di per sè devastante. L'idea di non essere più utili lavorativamente parlando, ma solo e semplicemente degli obsoleti e superati ex lavoratori, spinge dritto dritto alla depressione. Il pensiero di non poter più provvedere alla propria famiglia (o finanche a se stessi), perchè "nessuno vuole un 45enne" nel cinico mercato del lavoro, fa scattare nella mente del disoccupato un cortocircuito mentale dai risvolti a volte tragici, da cronaca nera. Per evitare ciò (o tentare almeno di farlo) basterebbe a volte un pò di umanità e di buon senso da parte dei tagliatori di teste aziendali, di quelli, in buona sostanza, che hanno il lugubre potere di poter decidere con una semplice firma il licenziamento di un lavoratore. A volte riconosco di essere un ingenuo, soprattutto quando scrivo queste cose. Ma il cuore mi suggerisce così. L'umana indole che coltivo dentro di me (unitamente alla splendida educazione che ho ricevuto da mia madre) mi portano inevitabilmente nel paese di Alice delle meraviglie. Ma a volte è meglio sognare, piuttosto che lasciare aperti gli occhi su questa orrenda realtà dei giorni nostri.
lunedì 26 gennaio 2009
il momento giusto per andare via
Chissà quando verrà quel giorno in cui i miei occhi leggeranno su un qualsiasi sito on line (italiano o straniero, poco importa): "Lascio tutte le presidenze delle società che ho fondato. E lascio anche la guida del Paese. E pure il Milan!". Lo so, la mia è una pura e pia illusione. C'è addirittura chi dice che il cavaliere governerà ancora per 10 anni. E al solo pensiero mi vengono (in ordine alfabetico e di apparizione) i brividi, la pelle d'oca e la sudarella. E divento anche verde. Altro che l'itterizia del presidente! Ma detto tra noi: cosa ci vuole a capire, a un certo punto della vita, quale sia il momento giusto per ritirarsi, per staccare la spina, per alzare i tacchi ed andarsene? Settanta e più anni non sono gia di per sè sufficienti per incrinare il proprio ego, la propria cultura del ghe pense mi, l'odiosa supponenza dell'essere indispensabili al prossimo e alla Patria tutta? Purtroppo, quando si parla del Pifferaio di Arcore, tutte queste domande non troveranno mai la giusta e sensata risposta. Meno male che in Italia abbiamo almeno chi dà il buon esempio, come l'Ingegnere Carlo De Benedetti, che in una conferenza stampa a Milano ha detto: "Lascio tutte le presidenze delle società che ho fondato. Si tratta di una decisione serena, presa per assicurare la continuità, perché a fine anno compio 75 anni". De Benedetti ha quindi aggiunto di essere stato «danneggiato dalla politica», ricordando tre vicende che lo hanno coinvolto: la condanna per il crack del Banco Ambrosiano, «che mi ha tanto amareggiato», la vicenda Sme che «come noto mi è stata tolta per ragioni politiche» e «la Mondadori». (e guarda caso dietro due di questi tre avvenimenti c'è lo zampino del Pifferaio...). De Benedetti ha fatto sapere che manterrà la carica di presidente onorario del Gruppo l'Espresso, «con la responsabilità editoriale e la delega per la nomina dei direttori. Ho convocato questa conferenza stampa perché, pur se talvolta nelle critiche, i giornalisti mi hanno seguito nella mia lunga vita imprenditoriale e ho ritenuto che in funzione di questa attenzione fosse da parte mia una carineria dare a voi questo annuncio», ha osservato l'imprenditore. La decisione di De Benedetti giunge a meno di un mese dalla scomparsa di Carlo Caracciolo. Nel corso della conferenza stampa il Presidente del Gruppo Cir ha percorso le tappe della sua carriera e ha parlato a lungo dell’esperienza di Olivetti, definita «di successo, contrariamente a quanto si è scritto» e sull’editoria, «una delle due cose di cui sono più fiero, assieme alla coerenza del mio pensiero politico». Quanto agli assetti delle società delle quali fino ad oggi è stato il presidente, l'Ingegnere ha smentito le voci di addio alla Borsa per l'Espresso. «Non vedo la necessità in merito alla possibile uscita del titolo dal listino di Piazza Affari. Però su queste cose tecniche non posso essere sicuro». Auguro all'Ingegnere una serena e dorata vita da pensionato.
sabato 24 gennaio 2009
lo stupratore di "buona famiglia"
Questa storia dello stupratore di 22 anni, che la notte di San Silvestro ha violentato in un bagno della nuova Fiera di Roma una ragazza coetanea e che è stato posto (dopo l'arresto e la relativa confessione) in regime di "domiciliari", mi ha alquanto sconvolto. Non vorrei entrare nel merito giuridico della decisione a sorpresa del Gip di Roma Marina Finiti (che ha accolto la richiesta altrettanto sorprendente del Pm Vincenzo Barba) ma sarei curioso di leggere integralmente la motivazione posta alla base di tale scandalosa decisione. Dalle cronache riportate sui maggiori organi d'informazione sembra che l'indulgente atteggiamento del Gip sia stato sollecitato dalla confessione del violentatore e dal suo status sociale. Essere un figlio di papà, appartenere alla media borghesia romana o comunque essere considerato di "buona famiglia", automaticamente induce qualsiasi giovane (o anche qualcuno più attempato), con la predisposizione allo stupro, a far sì che il compimento dell'odioso reato venga in pratica "bonificato" in nome della "buona fede" del reo confesso. Al contrario, un rumeno o un marocchino o un albanese, proprio perchè impossibilitati a far parte della creme de la creme della società italiana, debbono essere pesantemente condannati, magari buttando anche la chiave della loro cella. La polemica in atto tra il ministro dell'Interno Roberto Maroni e il sindaco di Roma Gianni Alemanno (fino all'anno scorso in sintonia sulla questione sicurezza nella Capitale a fini elettorali) è sintomatica dello stato di degrado morale (e non soltanto materiale) della politica all'ombra del Cupolone. Basta una scintilla per innescare proditoriamente (e colpevolmente) l'incendio distruttore di qualsivoglia confronto o tentativo di dialogo e di risoluzione dei mali endemici dei nostri tempi, della paura dello straniero, della ricerca dell'ottenimento del sesso con la violenza fisica e psicologica, cristallizzando il vecchio immondo concetto della superiorità maschile sulla donna, relegata a pura merce di soddisfacimento del prorio ego. Per concludere, in buona sostanza, è sufficiente davvero dichiararsi pentiti dello stupro commesso, magari adducendo anche la scusa di essere stati sotto l'effetto di qualche pastiglia di troppo annaffiata da qualche bicchiere in più, per ritenersi idonei e meritevoli della carcerazione domiciliare da scontarsi comodamente stravaccati in poltrona a seguire magari la tv che ne racconta le proprie gesta?
giovedì 22 gennaio 2009
la morale (se ce n'è una) del caso Villari
La telenovela del presidente della Commissione di Vigilanza sulla RAI, Riccardo Villari, sembra giunta oramai al suo epilogo. Chi l'ha seguita (compreso il sottoscritto) ha percepito un non so che di grottesco e di antipolitico sia nei comportamenti che negli sviluppi della intricata e kafkiana storia che vado a riepilogare.La presidenza della Commissione di Vigilanza sulla RAI spetta, come prassi, all’opposizione parlamentare. PD e IdV avevano proposto il nome di Leoluca Orlando, i consiglieri del PdL non ci pensavano neppure lontanamente a votare per l’ex sindaco di Palermo. Votazioni, all’interno della Commissione, andate avanti a vuoto per sedute e sedute, senza che fosse mai raggiunta la maggioranza per l’elezione del presidente. Finché, un bel giorno, i voti del PdL, a sorpresa, finirono tutti (insieme a pochi dell’opposizione) sul nome di Riccardo Villari, stimato epatologo napoletano e commissario in forza al PD. Un’elezione che lasciò tutti di stucco e che innescò subito una serie di reazioni, soprattutto nel partito di Villari, tutte tese alle sue dimissioni dalla carica. Reazioni dapprima blande, poi via via, di fronte ai rifiuti di Villari, sempre più pressanti e violente. Fino ad arrivare all’espulsione dello stesso Villari (sospettato da alcuni perfino di essere stato "comprato") dal Partito Democratico. Nel tempo, a chiedere le dimissioni di Villari da quella carica occupata, ci si sono messi un po’ tutti. Veltroni in primis, poi il presidente della Camera Fini, poi il presidente del Senato Schifani, poi il premier Berlusconi, oltre ovviamente a innumerevoli altri portavoce e portaborse. Insomma un coro uniforme di voci che rivolevano a tutti i costi quella poltroncina. E lui, Villari, lì a resistere, in quel bunker di San Macuto a Roma, ad assistere alle defezioni dei suoi consiglieri che via via, invitati ovviamente dai partiti, si squagliavano, fino a quando sono rimasti in tre. Villari, un radicale e un rappresentante dell’Mpa. Impossibile andare avanti, impossibile far funzionare la Commissione. Tutto impossibile. E Villari, come l’ultimo dei giapponesi che continua a combattere nella giungla anche dopo la fine della guerra, a ripetere che mai e poi mai avrebbe dato le dimissioni da una carica alla quale era stato legittimamente eletto. Un recente sondaggio rivela che molti italiani vedono in Villari un uomo deciso, tutto d'un pezzo, ostinato nel ribellarsi alle arroganti regole della politica. Uno che che aveva deciso, in questa occasione, di non essere ostaggio dei capibastone, di non essere un burattino in mano ai vari capetti (oggi ti eleggiamo, domani ti diamo un calcio nel sedere e ti schiodiamo dalla poltroncina). Un uomo che forse, aveva deciso di uscire dalla condizione perenne del peone, quella figura di deputato che deve solo obbedire agli ordini di partito, sentendosi, per un po’ di giorni almeno, una sorta di Spartacus dei nostri giorni pronto a battersi e a rivoltarsi contro il circo massimo della politica. Ora, per l’ultimo giapponese, per lo Spartacus napoletano, il tempo sta per scadere: perché i presidenti di Camera e Senato, instancabili in questo lavorìo, hanno inviato le lettere di revoca a tutti i componenti della Commissione compresi i tre resistenti. La Commissione si intende dunque sciolta. E Fini e Schifani provvederanno a rinnovarla con la nomina dei nuovi membri, da cui scaturirà il nuovo presidente. Villari, che ha annunciato altre battaglie, sembra vicino alla sconfitta, l’avventura sta forse per finire. Così come sono vicini alla sconfitta tutti quelli che tifavano per lui come campione dell’antipolitica. Poveri illusi. Se la politica decide di fregarti non c’è Villari che tenga. Non c’è speranza. Anche perché, sul fatto di fregarti, quasi sempre riescono a mettersi d’accordo perfino la Destra e la Sinistra. Berlusconi e Veltroni anche in questa occasione potranno essere soddisfatti...
il federalismo dell'inganno (fiscale)
La goccia cinese leghista sulla friabile roccia berlusconiana ha determinato il prevedibile risultato. L'iter per la legge sul federalismo fiscale, così pervicacemente voluta da Bossi, sta iniziando a fare i primi passi. È il cavallo di battaglia della Lega, che sul federalismo ha puntato tutto, persino la sua permanenza al governo. Il testo redatto da Roberto Calderoli è arrivato in aula a Palazzo Madama. Ma un rischio pesante si nasconde dietro la proposta sul federalismo fiscale targata Calderoli: gli italiani non saranno più tutti uguali di fronte allo Stato. Analizzando punto per punto il testo e comparando i dati sulle entrate e le spese delle singole regioni con quelli di altri Stati federali si intuisce che qualcosa non va. Si rischia la balcanizzazione dell'IRPEF. L’imposta che garantisce la progressività (ognuno paga in base alla sua capacità contributiva) e l’eguaglianza, cioè l’equità orizzontale (un ricco del nord è uguale a un ricco del sud) verrebbe completamente stravolta. La proposta del governo, infatti, fa riferimento alla territorialità del prelievo che non ha nulla a che vedere con la capacità contributiva, crea numerosi casi di disparità di trattamento ingiustificati e colpisce gravemente il principio di progressività. Tale principio può essere assicurato soltanto dallo Stato centrale. Insomma, l’Irpef deve rimanere il cardine attorno a cui si tiene insieme la «casa Italia». La scelta di Calderoli, al contrario, con l’introduzione della riserva d’aliquota (ovvero l'addizionale locale) e della possibilità di introdurre deduzioni, detrazioni, variazioni di aliquote e quant’altro, crea le premesse per un processo che porterà alla frammentazione del più importante prelievo tributario del Paese. Come dire: dietro l’asserita responsabilizzazione dei poteri locali si nasconde un forte spirito secessionista nella proposta, che così finisce per risultare a rischio incostituzionalità.
martedì 20 gennaio 2009
le riflessioni (sulle riflessioni) di Rossaura
Questa volta sono io che avrei voluto scrivere un commento-post come quello che di seguito state per leggere. Questa volta ROSSAURA ha veramente dato il meglio di sè, sia come commentatrice blogger, sia come donna di sinistra. Un plauso con standing ovation dal sottoscritto. Finalmente anche i tuoi post, di solito così moderati e speranzosi, si trasformano in graffianti e inoppugnabili critiche. Inevitabilmente la sinistra, che sarà anche molto ideologica e succube della dottrina di partito, alla fine è quel connubio di persone che sanno essere tremendamente critiche al loro interno. La crisi della sinistra è simile alla crisi economica: tutte e due sono crisi di sistema e tutte e due dipendono dal mutamento dell'approccio sia politico che economico. Per quanto riguarda il PD, si può dire che i suoi dati non siano mai pervenuti. Ormai da troppo tempo è incapace di cambiare, di mettere in atto quelle nuove idee di etica e di rinnovo che erano state il seme del nuovo partito. Una possibilità? Sì, la scissione: Margherita con Veltroni e DS con D'Alema. A che pro? Nessuno, perchè tutto ciò non è aria nuova e pulita ma è solo riciclaggio. Così pure per Rifondazione. Scissione: due gatti da una parte e due dall'altra. Pensare ad un evento tipo quello americano, con un entusiasmo ed un'approvazione quasi totale del popolo, per noi è inconcepibile. L'Italia concepirebbe Berlusconi come presidente in uno stato presidenziale, delegando a lui le decisioni relative alla propria libertà, al diritto di scelta, alla democrazia. Di quale complesso soffre l'elettore italiano? Inferiorità intellettuale, incapacità di decidere e mancanza di senso critico? Senza dubbio. L'elettore di sinistra, quello che malgrado tutto e tutti vota ancora a sinistra pur storcendo il naso, non delegherebbe nessuno al suo posto. Bella differenza. Eppure sono sempre meno gli elettori di sinistra. Perchè? Viene meno la necessità di autonomia? Possibile che un operaio, uno studente, un impiegato si senta rappresentato da Berlusconi o dalla Lega? Possibile che si sia sviluppato l'odio verso i sindacati? Sono anche loro così odiosi quanto i nostri esponenti politici? Sentirsi garantiti dagli imprenditori è davvero una pazzia! Da quando in qua fanno gli interessi di chi lavora? Che sia colpa dell'ignoranza? Oppure davvero, per questa Italia, il nuovo viene rappresentato da un uomo di successo (per i suoi soldi) che fa politica senza essere politico, e che essendo pieno di soldi può sembrare più onesto degli altri, visto che non deve essere assoggettato a nessuno? Tremonti da Fazio ha detto cose che a noi umani (noi umani di sinistra) ci hanno fatto pensare. Vuoi vedere che questi stanno capendo? Macchè, è troppo da cerebrolesi continuare il teatrino, quindi la faccia ufficiale è una maschera con sorriso. Nelle zone critiche qualche verità esce fuori, tanto chi ascolta già lo sa, si scandalizzerebbe solo del contrario. E comunque, se ci fosse qualcuno ad evidenziare l'incauta affermazione, chi l'ascolterebbe è il solito disfattista. Di sinistra. Non è la sinistra che si deve svegliare, siamo noi di sinistra che dobbiamo trovare una nuova rifondazione abbandonando tutte le idee e le strade fino ad ora percorse. Ma anche queste sono solo parole. Non sogno Bettino, perchè non era un leader carismatico, era solo un personaggio di potere. Rimpiango Berlinguer per la sua rettitudine morale. Simpatizzo con Soru perchè mi sembra della stessa pasta. Butterei molti altri noti (e non) alle ortiche. Ma si sa, sono la solita disfattista di sinistra...Ciao da una Ross perplessa...
lunedì 19 gennaio 2009
riflessioni (non necessariamente condivisibili)
Ogni tanto, dopo aver tanto letto e tanto ascoltato, sono raggiunto inopinatamente da alcune riflessioni, in ordine sparso e non necessariamente condivisibili da chi mi legge. Ad esempio, alla vigilia dell'insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca pensavo tra me e me che nel nostro Paese non arriverà mai (purtroppo) un Obama italiano. L'unico che potrebbe assomigliare all'ex senatore dell'Illinois è Carlo Conti, ma solo per l'abbronzatura (come direbbe il nostro presidente del Consiglio). A parte gli scherzi, vale la pena di guardarsi intorno. La crisi sta cambiando la mappa della politica. E sta cambiando anche la percezione politica dell'elettorato italiano, secondo l'ennesimo e ultimo sondaggio. Un 15 per cento degli italiani sarebbe disposto a votare una nuova sinistra, purchè si batta per una maggiore giustizia sociale, per il recupero della dignità quotidiana dei lavoratori, per l'ambiente e per i valori laici. Questi milioni di italiani, oggi, non hanno rappresentanza politica. Cioè, in teoria, ne avrebbero perfino troppa tra bande di Rifondazione, partitini ex comunisti, rimasugli verdi e altri non meglio identificati sovversivi da salotto televisivo, tutti impegnati in una sorta di regolamento di conti intorno alla torta decrescente dei finanziamenti pubblici ai partiti. Ma se uno affronta un esperimento semplice semplice, ad esempio prendere un treno di pendolari al Nord e fermarsi a parlare durante le lunghe soste, capisce subito che la piccola enclave postcomunista non ha alcuna speranza di riprendere i consensi perduti. Queste persone (operai, insegnanti, studenti, intellettuali) oggi non votano più nella stragrande maggioranza dei casi; alcuni votano (insoddisfatti) il Partito Democratico, altri danno la loro preferenza a Di Pietro, altri ancora credono alla Lega. E' gente smarronata in attesa che qualcuno rimetta al centro della politica italiana gli interessi dei lavoratori, al posto del gossip da Palazzo romano o delle diatribe narcisistiche in cui si esaurisce la ridicola battaglia per la leadership di sinistra. Il vuoto in politica dura poco. E durerà pochissimo anche questo. Il mondo è cambiato. Craxi non c'è più (a volte lo rimpiango, credo succeda la stessa cosa anche a Beppe Grillo...). Berlusconi c'è sempre (purtroppo!). La crisi economica aggiorna (mutando) le prospettive, le idee, le mappe ideologiche. L'hanno capito i più svegli della destra. Perfino Tremonti. Che attacca oggi il libero mercato più di quanto non lo incensasse l'altro ieri. E i trombettieri della guerra permanente (che fino all'altro giorno sfottevano i pacifisti) dove sono finiti? Forse si muovono in fretta. Troppo in fretta. E intanto a sinistra dormono. Ma forse qualcuno, prima o poi, li sveglierà in malo modo. Almeno spero.
domenica 18 gennaio 2009
il fiore (appassito) all'occhiello del made in Italy
E' sempre la solita storia. Appena si intuisce la possibilità di qualche via di fuga (è proprio il caso di dirlo quando si parla di piastrelle) per pararsi il posteriore e salvaguardare i propri guadagni, l'imprenditore non ci mette poi tanto a perseguirla. E' il caso (abbastanza eclatante) della Iris Ceramica S.p.A. che in questi giorni è nell'occhio del ciclone, non soltanto mediatico, per la decisione del patron di chiudere in fretta e furia baracca e burattini e andarsene magari sotto il sole di qualche paradiso terrestre (ma principalmente fiscale). Le maestranze dell'azienda dal 5 gennaio sono in sciopero e picchettano le sedi di Fiorano Modenese e di Sassuolo, oltre a quelle reggiane della Graniti Fiandre, quotata in borsa, e di Ariostea, anche se queste ultime non sono interessate dalla chiusura annunciata. L'agitazione è stata proclamata da Cgil, Cisl e Uil, riunite a Modena per decidere le forme di lotta da mettere in campo contro la decisione del patron Romano Minozzi di liquidare l'impresa di produzione di ceramica che rappresenta uno tra i primi cinque colossi mondiali del comparto ceramico, con 500 milioni di ricavi nel 2007. I dipendenti a rischio sono 780 e i sindacati hanno bocciato la richiesta dell'azienda che voleva assegnare cinquanta lavoratori al disbrigo delle pratiche necessarie alla chiusura. I dipendenti che stanno manifestando davanti a tutti gli stabilimenti non faranno uscire le merci, con l'intento di bloccare la produzione. La morale di tutto ciò, al solito, è che il solco tracciato da Berlusconi con l'affare Alitalia (prendersi il succo dell'azienda, lasciare lo scarto e i debiti agli italiani) comincia ad essere puntualmente seguìto da imprenditori che non stanno tanto a guardare per il sottile, come ad esempio il sor Minozzi. Già in passato aveva tentato di vendere il suo fiore (appassito) del made in Italy ad una potenza francese, la Saint-Gobain (http://it.saint-gobain-glass.com/b2c/default.asp?nav1=presen&nav2=sgg_world), senza riuscirvi per l'ostinata resistenza dei sindacati (diamo a Cesare quel che è di Cesare). Adesso ci riprova, magari con i consigli per la svendita ad opera del Pifferaio di Arcore, cattedratico in materia. Ultima nota a margine della vicenda: vi vorrei segnalare questo articolo dell'economista Enrico Cisnetto scritto per il settimanale il Mondo (http://www.enricocisnetto.it/articolo.aspx?ID=8139&sez=Primo%20piano) che spiega molto bene qualche retroscena circa l'inopinata spampanatura del fiore all'occhiello (che fu?) del made in Italy. O del made in Modena.
sabato 17 gennaio 2009
sostiene la Venexiana
Non c'è niente da fare. Non riesco a non pubblicare un commento (che per me è un vero e proprio post) relegandolo nel gabbiotto dei commenti. Quando poi l'autrice del commento in questione è Rossaura (da me ribattezzata la Venexiana), allora non ci sono più dubbi: è un post. Pubblicamente invito ancora una volta la gentile lettrice (nonchè blogger) a collaborare con me, a scrivere più continuativamente articoli, riflessioni e pensieri in libertà: l'accesso è pronto, basta dirmi di sì. Nell'attesa eccovi il suo pensiero sul mio precedente pezzo dedicato a Michele Santoro. Non intendo nemmeno io entrare nel merito delle polemiche. Riconosco a Santoro la capacità di non guardare in faccia a nessuno, seppur non trovo nelle sue trasmissioni quel totale desiderio di far informazione. Perchè dico questo? Lo dico osservando l'appiattimento dell'informazione (tutta), alla quale si sottrae Annozero. Ma uscire dal piattume non vuol dire essere fedeli alla propria professione di giornalista, fino all'estrema conseguenza. Uscire dal nulla dimostra solo una certa predisposizione, non il coraggio della denuncia. Ovviamente altri giornalisti, e sopratutto quelli italiani, la vedono diversamente: basta pensare all'atteggiamento didattico e assoluto dell'Annunziata. Sarà lei che fa alta televisione? Che sa come improntare una inchiesta giornalistica? Far sentire tutte le voci? E che vuol dire se le voci che dovevano parlare erano quelle di bambini al massacro. Ipocrisia è non voler considerare i numeri. Ipocrisia è non voler confrontare la disparità di forze che ci sono in campo. Cinismo giornalistico è fare a gara per essere obiettivi e dimenticarsi che intanto la gente muore, magari senza sapere perchè. Perchè per equidistanza si devono dire i quasi 400 bambini morti e aggiungere che sono morti perchè Hamas li usa come scudi umani. Scudi contro Israele che li ammazza come mosche noiose. Perchè i figli di Israele valgono di più dei figli della Palestina? Perchè Hamas sparge terrore e invece Israele ha il diritto di difendersi? Perchè difendersi per i palestinesi è considerato dal mondo un atto di terrorismo? Queste domande retoriche hanno risposte retoriche, mai sincere fino in fondo. Mai viene toccato il nucleo, mai si giunge alle responsabilità, mai una sanzione forte per una nazione forte, mai un aiuto alla povera gente, se qualcuno grida al terrorismo. Ecco perchè quella trasmissione, pur se mostrava video che comunque erano già in circolazione su YouTube (ma che la Rai non mostra perchè troppo dure), immediatamente si mostra in contraltare la manifestazione sediziosa di Milano e, scandalo degli scandali, la preghiera sul sagrato del Duomo. Le donnette già troppo anziane da aver dimenticato la pietà umana (e troppo spaventate per ascoltare le urla del mondo) parlano della manifestazione. Ecco le due versioni: Gaza contrapposta a Milano e la guerra dei bambini? Quel bambino con quei grandi occhi spaventati e il suo urlo di paura che ha aperto la trasmissione si può assimilare alla signoretta impellicciata che tuona contro gli arabi? Scusa caro amico, ringrazierei anch'io Santoro se la sua fosse stata una seria denuncia, non soltanto una flebile voce al di fuori del coro. Sarà che di tutte le critiche non ne ho sentito nessuna che sottolineasse in rosso con forza: "insufficiente, sei andato fuori tema". Tristemente Ross
l'urticante Michele Santoro
Tra tutti i giudizi, più o meno obiettivi, espressi nel tempo sulla figura professionale e umana di Michele Santoro da vari addetti ai lavori (giornalisti, critici televisivi e gli immancabili politici), non ce n'è uno che sia stato banale o appiattito o indolore. Chi preferisce tacciare di faziosità il giornalista salernitano (Berlusconi in primis), chi lo vede come un prevaricatore delle idee altrui, chi lo considera un intelligente conduttore. Comunque lo si guardi e comunque lo si giudichi, Santoro non è (e non sarà mai) un giornalista banale, qualunquista o peggio ancora genuflesso. E già questo è un modo importante e veritiero per tracciare il ritratto critico e professionale del giornalista conduttore di Annozero. Non voglio entrare nel merito della polemica scaturita dopo la puntata dell'altra sera (http://www.rai.tv/mppopupvideo/0,,RaiDue-Annozero-Puntate%5E0%5E175287,0.html) quando la tensione tra Santoro e Lucia Annunziata ha portato quest'ultima ad abbandonare lo studio televisivo non prima di aver censurato apertamente il modo di presentare la situazione a Gaza da parte del giornalista padrone di casa. Non ci voglio entrare perchè è come se volessi proditoriamente gettare benzina sulle fiamme già abbondantemente accese (dalle polemiche in atto). E non ne sento proprio il bisogno. Voglio però segnalare ai miei lettori due interventi che riguardano la trasmissione televisiva: uno a cura della bravissima critica tv (una sorta, a mio avviso, di Aldo Grasso in gonnella) dell'Unità, che si chiama Maria Novella Oppo e l'altro dell'Associazione Italiana Psichiatri i quali, tramite il loro blog, esprimono un alquanto inaspettato ringraziamento a Santoro (http://www.aipsimed.org/?q=node/3146) per il modo con cui ha trattato l'aspetto bambini nellla tragedia di Gaza e di Israele. Per completezza vi ripropongo il pezzo della Oppo. Ogni giorno siamo qui a lamentarci della banalità della tv, delle sue due dimensioni che fanno diventare piatto anche il Monte Bianco. E figurarsi quello che è già piatto di suo, come gli encefalogrammi di alcuni che non possiamo nominare per via delle querele che non lo consentono. Perciò, anche se non sempre si può condividere quello che Santoro dice e fa, un merito non possiamo assolutamente negarglielo: qualsiasi tema tratti, non spinge mai lo spettatore all’assuefazione, alla pennichella mediatica. Santoro è, anzi, sempre più urticante, sgradevole perfino, mai però privo della capacità di coinvolgere. E mentre già rischiamo di abituarci all’orrore quotidiano di Gaza e dei bambini straziati, lui ci sveglia e ci fa sobbalzare, ci riporta al trauma e al rifiuto etico. E questa, per un autore televisivo, nell’epoca dei reality e dei programmi che usano solo i soldi o le tette per stimolare lo spettatore, è una qualità cui non possiamo permetterci di rinunciare.
un Tremonti degno del Bagaglino
Non ho soverchie difficoltà nell'ammettere che il cosiddetto "superministro dell'Economia", l'on. Giulio Tremonti, non gode della mia simpatia. Fin qui poco male, ci mancherebbe. Quello però che in questo periodo sto notando è che anche molti italiani, che non sono Berlusconi-dipendenti, hanno delle serie difficoltà nel far rientrare nelle proprie grazie l'ex consigliere personale di ex ministri del calibro di Franco Reviglio e di Rino Formica. Il ministro con la erre moscia, secondo me, avrebbe gradito di più il palcoscenico del Salone Margherita di Roma piuttosto che la passerella del Transatlantico di Montecitorio. E questo lo penso anche perchè noto (con disgusto) che in qualsivoglia situazione (preferibilmente a favore di telecamera) Tremonti non lesina la sua battutina sulla situazione economica attuale, ricorrendo anche al clichè del Bagaglino. Senza peraltro riuscire a far ridere. E c'è un solo aggettivo per definire il Tremonti attuale: patetico. Sentirlo parlare è imbarazzante e penoso. Da un ministro dell'Economia ci si attende concretezza, analisi puntuali della situazione economica e dei provvedimenti per contrastare la recessione. Ma nelle parole di Tremonti tutto questo è assente: il ministro affronta una situazione che appare sempre più drammatica da consumato politico. Cioè con battutine che non fanno più ridere neppure gli affezionati del Bagaglino. La Banca d'Italia ha mandato a dire che nel 2008 il Pil è diminuito dello 0,5 per cento e il settore industriale sta crollando. Di più: ha previsto che quest'anno il prodotto lordo diminuirà di un altro 2 per cento, mentre la ripresa dovrebbe arrivare piccola piccola (0,5%) solo nel 2010. Cifre attendibili, ha commentato Tremonti, ma si tratta «solo di previsioni». E la cosa non tranquillizza affatto, visto che da più di un anno a livello globale (oltre che italiano) di previsione non ne è stata azzeccata una e gli organismi internazionali hanno dovuto rincorrersi nel correggere al ribasso le cifre. Peggio di tutti ha fatto Tremonti, che dal 2002, di previsione non ne ha azzeccata nessuna, perché si sa, bisogna seminare «ottimismo». In ogni caso, ha aggiunto il ministro, il Pil nel 2009 tornerà allo stesso livello di quello del 2006 ma non è certo un ritorno al Medioevo, visto il livello del Pil italiano. Il ministro sbaglia: la crisi economica sta ricreando una situazione sociale da Medioevo. Sia sul fronte del lavoro che della distribuzione dei redditi. Tornare quest'anno come fossimo nel 2006 significa bruciare un milione di posti di lavoro. E meno lavoro significa più ricattabilità, salari più bassi, consumi a picco. Una condizione che potrebbe favorire (vista anche la crisi globale) una discesa del Pil ancora più ampia e alla quale Tremonti, e l'intero governo, sembrano assolutamente impreparati. Una crisi che, ovviamente, non colpisce solamente il lavoro, ma penalizza le imprese colpite dal crollo della domanda e dal progressivo strangolamento da parte del sistema bancario. «Si può polemizzare su tutto ma non sulla povertà», ha pateticamente sostenuto Tremonti, con riferimento alle social card. E poi ha chiesto «rispetto per i concittadini che si trovano in una situazione di disagio». Ovviamente nessuno polemizza sulla povertà, mentre per quanto riguarda il «rispetto», è il governo che dovrebbe chiedere scusa per non essere stato in grado di gestire l'elemosina che aveva promesso di elargire a circa 1,3 milioni di poverissimi, ma della quale finora hanno beneficiato solo 470 mila italiani (il 73% appena di chi ne aveva fatto richiesta). L'economia va a rotoli, tutti gli altri Paesi si stanno dando una mossa per cercare di arrestare la frana che sta colpendo perfino l'export cinese. E il crollo del prezzo del petrolio non aiuta: sta mettendo in crisi Paesi come la Russia che avevano contribuito negli anni scorsi a trainare la domanda mondiale. Sarebbe un buon momento per cercare di ragionare su un diverso modello di sviluppo. Ma non illudetevi di coinvolgere in questo ragionamento il mancato capocomico (patetico) Tremonti.
giovedì 15 gennaio 2009
i ricordi (televisivi) di Rossaura
Ospito con vivo piacere un commento che la mia lettrice preferita, Rossaura, ha inviato alla mia casella di posta elettronica in relazione al post di qualche giorno fa, dedicato al compleanno della TV(http://tpi-back.blogspot.com/2009/01/buon-compleanno-cara-tv.html). Ho preferito pubblicare lo scritto di Rossaura sotto forma di contributo editoriale, piuttosto che limitarlo a espressione di commento. Mi piace molto il modo di scrivere della lettrice veneta (che ha un bel blog da leggere sicuramente, http://laltrametadelcielo.wordpress.com/) e i suoi ricordi sulla TV valgono il tempo da dedicare per la relativa lettura. Ecco il suo commento-post che integralmente riporto (senza correzioni). Questo post mi ha fatto venire in mente la mia prima tv. Era una Philco americana anno 1955 abbonamento intorno al n.30 mila, non eravamo una famiglia abbiente, anzi, ma mio padre aveva un caro amico che vendeva elettrodomestici, e glieli forniva a prezzi contenuti e a mio padre l'idea di vedere il calcio e il ciclismo aveva fatto brillare gli occhi. E così ebbi la televisione in bianco e nero, un solo canale, solo a fasce orarie e come sappiamo bene dopo carosello tutti a nanna.Ricordo una cosa strana, essendo poche televisioni in giro, la nostra casa era diventata la succursale di un bar, alcune sere o per "lascia o raddoppia" o per pugilato o calcio, ci si riempiva la casa di gente, ma siccome non ci stavano tutti nel nostro ingresso o nella sala si era pensato di lasciare aperta la porta di casa e un pò di pubblico si sistemava sul vano scale in modo da permettere il maggior numero di utenti. Non era solo un modo per viaggiare era anche un modo per socializzare e per discutere all'infinito dell'"oggetto misterioso" oppure di qualche personaggi di "lascia o raddoppia", del modo di vestire delle vallette di Mike e chissà di che altro visto che io invece dovevo andare a letto.Mi accontentavo anch'io di Rin tin tin, ma ancora prima di Penna di Falco e delle avventure di Campione un cavallo tipo Furia cavallo del west ma molto più antico. Come mi piacevano i cavalli!Insomma sono cresciuta con la tv e guardavo stupita il maestro Manzi con "Non è mai troppo tardi" che insegnava a scrivere alla vecchia Italia, mentre io andavo a scuola e non riuscivo a capire come mai ci fossero persone che firmassero invece che col nome con una X.Da tutto questo si capisce che ho una certa età :-)Cmq sinceramente non me la prendo mai con la televisione, bene o male non me ne sono mai innamorata, l'ho sempre usata come fonte di informazione più che come svago. Tante volte ho pensato che se non ci fosse stata la televisione il passaggio dal dialetto all'italiano in questo paese sarebbe stato molto ma molto più difficile.Oggi guardo pochissima tv, ma so bene perchè, sono diventata troppo esigente e l'informazione che passa è troppo di cattiva qualità e molto spesso di parte, pertanto preferisco la rete o ancora meglio qualche volta preferisco leggere un libro. Anch'io ho una mamma che passa la giornata davanti alla tv, fin qui sarebbe niente, succede alle persone anziane, ma non sopporto che raccolga le sue informazioni guardandosi l'infame di Fede sulla 4, così alla fine quando ci vediamo finiamo per discutere, sui problemi politici e di governo. Quando sento qualche strafalcione, la guardo scandalizzata e le dico "ma chi te l'ha raccontata... Fede?" e qui nasce la querelle :-)Ma guarda se una persona deve finire i suoi giorni pendendo dalle labbra di un individuo così meschino.... Tralasciando i danni che la televisione sempre di più sta facendo e mi riferisco anche al fatto che per colpa della televisione commerciale l'Italia è diventata il paese che è...Comunque mi unisco ai tuoi auguri, anche se non mi va di augurare lunga vita a quella commerciale.Ciao Ross
domenica 11 gennaio 2009
Liberazione da chi? (o da cosa?)
La recente destituzione del direttore di Liberazione, l'ipertricotico Piero Sansonetti, ha innescato un perverso meccanismo interno a Rifondazione che cerco di seguire (seppur con difficoltà) più per curiosità personale che non per dovere giornalistico. La prima cosa che ho notato è che l'ex segretario non esce (per ora) allo scoperto. Fausto Bertinotti la sua benedizione (insieme a qualche indicazione di marcia) ai vendoliani che si apprestano alla scissione la dà per ora solo in privato. Ma la dà. E se non parla pubblicamente (né intende farlo prima della direzione del partito che si riunirà lunedì con all'ordine del giorno il licenziamento di Piero Sansonetti), fa filtrare comunque il suo pensiero. Ed è un frontale all'attuale maggioranza di Rifondazione. Con «la destituzione di Sansonetti» dalla direzione di Liberazione «si è consumato un atto di rottura radicale che trasforma Rifondazione comunista in un partito irriconoscibile rispetto a quello costruito insieme in questi anni». E «l'autonomia di un giornale è costitutiva di un partito democratico». Insomma, come diceva l'altro ieri ai suoi, già prima di ricevere il segretario del partito Paolo Ferrero nel suo studio a Montecitorio, con la vicenda del quotidiano del partito si sarebbe rotto il «vincolo» che teneva insieme la «comunità». Parole che avrebbero spiazzato l'attuale leader di Rifondazione, perché più dure di quelle che si sarebbe sentito rivolgere direttamente. Le posizioni restano immutate. Il segretario sostiene che semmai è Sansonetti (che domani sarà sostituito con Dino Greco affiancato da un direttore responsabile che non sarebbe stato ancora individuato) a «sfigurare l'identità del partito» facendo il giornale «in quel modo». Nessuna possibilità, comunque, di ricucire con i vendoliani. Alla costruzione di una lista unitaria della sinistra per le elezioni europee Ferrero aveva già detto chiaramente di no qualche sera fa, dopo l'appello in extremis di Franco Giordano. E del resto già in mattinata, sempre nel suo studio da ex presidente della Camera, Bertinotti aveva incontrato proprio Giordano e l'ex responsabile organizzazione del partito, Ciccio Ferrara. E poi l'eurodeputato Roberto Musacchio. All'ex segretario, che giovedì su Repubblica annunciava l'imminente scissione lasciando appunto come unica possibilità di ripensamento la nascita della lista per le europee, Bertinotti ribadisce l'appoggio. Ma chiede anche di non tagliare i ponti con i bertinottiani che si scinderanno dalla scissione (dunque l'ex presidente della Camera fa sapere di ritenere anche questa posizione legittima), presentando un loro documento. E tra questi Milziade Caprili, legatissimo a Bertinotti ma che invece con l'attuale minoranza di Rifondazione ha il dente avvelenato, da quando fu escluso dalle liste arcobaleno per le politiche. Si tenterà strada facendo di recuperare almeno una parte di chi non intende uscire da Rifondazione per sostenere da dentro il partito l'allargamento della sinistra. Insomma, il percorso è delineato e dovrebbe essere confermato con un documento da presentare prima del seminario dei vendoliani che si terrà il 24 e il 25 gennaio a Chianciano. Nascerà, per ora, un movimento che andrà alle europee con una «lista unitaria» (con la Sinistra democratica di Claudia Fava e eventualmente parte dei Verdi) per dare vita solo dopo le elezioni di giugno al nuovo «soggetto politico». Il segretario di Rifondazione a questo punto prende atto che sarà scissione: «Temo che andrà così, anche se non capisco a cosa servirebbe. Bisognerebbe smettere di denigrare Rifondazione e rilanciarlo insieme. Io ripropongo la gestione unitaria», ribadisce Ferrero uscendo dallo studio di Bertinotti. Ma, appunto, non sono previsti ripensamenti. Il primo atto della scissione andrà in scena lunedì, dopo la sfiducia a Sansonetti. Poi si vedrà...
sabato 10 gennaio 2009
tre esempi (intelligenti) di giornalismo
Per chi, come il sottoscritto, guarda più alla sostanza delle cose che alla forma, dedicare il post odierno a tre bravi e intelligenti giornalisti è (credo) la naturale espressione di riconoscimento delle altrui qualità, da evidenziare sempre e comunque. I tre giornalisti in questione sono, nell'ordine casuale di lettura, Marco Travaglio, Franco Bechis e Curzio Maltese. Il primo non credo abbia bisogno di ulteriori presentazioni, visto e considerato che da anni è la spina nel fianco dell'armata berlusconiana, la quale in tutti i modi (leciti e non) cerca di zittire o quantomeno isolare, senza peraltro riuscirci. Per chi si fosse perso l'ultimo intervento in video di Travaglio nel suo Passaparola, dedicato a Bettino Craxi, lo invito a dedicare 30 minuti del proprio tempo per seguire con attenzione quanto affermato dal giornalista torinese (http://it.youtube.com/watch?v=dmx6v2282sk). Il secondo giornalista da me esemplificato positivamente in questo post è attualmente direttore di Italia Oggi dopo aver diretto per qualche tempo il quotidiano romano Il Tempo. Debbo confessare che Bechis lo sto seguendo con una certa regolarità da quando ha lasciato nel proprio armadio lo scheletro berlusconiano di cui era stato, in passato, assiduo adulatore. Ora, invece, ha anche un blog niente male da cui vi segnalo un ottimo post (http://fbechis.blogspot.com/2009/01/c-la-crisi-e-bankitalia-si-magna.html) che ha più l'aria di un giornalismo d'inchiesta e d'assalto che non uno spazio intimo stile diario. L'ultima segnalazione odierna che vi propongo è relativo ad un giornalista che è uno dei miei preferiti, da sempre. Curzio Maltese ha una prosa raffinata, caustica, intelligente e simpatica. Si legge con scorrevolezza e con piacere, e mi sembra giusto ed opportuno farvi apprezzare quest'ultimo articolo da lui scritto per il Venerdì di Repubblica dal titolo "Il 2009: l'annus horribilis del Cavaliere?". Buona lettura. Dall'epoca delle signorie, in Italia, chi esibisce potere trova consenso. E' il pedaggio storico di un Paese che ospita la principale scuola di conformismo della storia, il papato. Questa meccanica spiega molto della storia nazionale, anche recente. Il problema del PD oggi non è la questione morale, ma l'impotenza politica. Veltroni incarna una leadership popolare, ma debole. Nella crisi, dovrebbe imporre una linea, dall'alto del plebiscito delle primarie, e invece si costringe a mediare con chiunque. Non riesce a ottenere le dimissioni di un Bassolino o di una Jervolino, l'allontanamento di un Latorre, la rimozione dell'abusivo Villari, deve trattare all'interno e all'esterno, con D'Alema e con Di Pietro, con Berlusconi e gli antiberlusconiani, con la Binetti e con i radicali. Uno strazio. Eppure, non esistono alternative credibili, a cominciare dall'unica seria. D'Alema è percepito come uomo forte da chi non lo vota, l'elettorato della destra. Nella base del centrosinistra è considerato debole, e non a torto. Nel '95 aveva l'occasione di togliere all'avversario il suo principale strumento di potere, le televisioni. Qulasiasi professionista della politica non avrebbe esitato. L'avesse fatto, oggi sarebbe al Quirinale. Invece s'è inventato la Bicamerale, ottenendo per sè un annetto di Palazzo Chigi e per gli italiani altri vent'anni di berlusconismo. Al contrario, Berlusconi oggi irradia un'immagine regale. Decide tutto, comanda tutti. Vuole essere incoronato presidente dal popolo. Ha schiantato la magistratura, che gli italiani sostenevano quando sembrava onnipotente e non per adesione alla questione morale. Il premier appare oggi invincibile. Ma è solo un'immagine che serve a mascherare enormi debolezze. Il suo governo è assai mediocre e i cittadini iniziano a capirlo. La sua credibilità internazionale è zero. Finita l'era Bush, Berlusconi è considerato dai grandi leader mondiali una specie di informatore di Putin, un interlocutore fastidioso e imbarazzante. "Un sinistro pagliaccio" nella sintesi del FINANCIAL TIMES. Se l'opposizione vera è allo sbando, quella interna alla destra cresce, Fini si smarca, Bossi impone veti. E' l'ultimo l'elemento più pericoloso. Se domani Berlusconi sparisse, la Lega raddoppierebbe i voti. Il Cavaliere sarebbe ancora in grado di superare tutte queste difficoltà, se non si trovasse a gestire una crisi economica epocale, per cui non trova rimedi e neppure parole. Mi sbaglierò, ma per lui il 2009 sarà un anno orribile.
giovedì 8 gennaio 2009
il grande gioco del gas
Altro che guerra del gas. La situazione attuale, scaturita dalla querelle tra Putin e l'Ucraina a proposito della fornitura di gas, sta facendo passare in secondo piano il ruolo del nostro Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), da sempre fedele alleato del colosso russo. Gazprom vuole diventare il più formidabile venditore di gas naturale nell'Europa ricca. Vuole, inoltre, comandare l'Opec del gas, che non a caso è stato fondato a Mosca in dicembre, e avrà sede a Doha in Qatar. ENI è l'alleato europeo di Gazprom e con molta probabilità il migliore alleato del mondo. ENI è in un momento di passaggio, solo che il passaggio si protrae a lungo. Mancano le soluzioni e nessuno dei due personaggi dotati di qualche cultura industriale (Prodi o Berlusconi) è stato in grado di suggerirgli qualcosa di praticabile. Così l'ENI continua a essere una multinazionale dell'energia, con base in un Paese troppo piccolo, e senza il necessario apporto del governo nazionale. l'ENI è troppo piccolo per entrare seriamente nel gioco maggiore, e troppo grande per non spaventare gli interlocutori dei Paesi marginali. Se Gazprom non ci fosse, sarebbe opportuno (per l'ENI) inventarlo. Gazprom ha ereditato la politica energetica verso l'Europa, arricchita dall'URSS di un tempo. Eni è sempre stato lo strumento preferito (industrialmente parlando) di Enrico Mattei e del presidente Giovanni Gronchi che combinarono i primi accordi petroliferi con Mosca mezzo secolo fa. E di ENI era il Nuovo Pignone che ruppe l'embargo reaganiano per vendere valvole e altri strumenti al gas siberiano. La continuità politica e ideale tra Russia e Gazprom e viceversa è un dato di fatto. Il giovane presidente della Russia, il giurista Dmitry Medvedev, era un anno fa il vicepresidente di Gazprom. Ed è comprensibile che la Russia abbia mantenuto buoni rapporti e fiducia nell'alleato europeo di ogni stagione. Già mezzo secolo fa vi era però un altro attore politico sullo scacchiere energetico italiano ed europeo: il governo americano. Anch'esso aveva a fianco qualcosa di simile all'odierna Gazprom: una struttura molto più conosciuta e articolata, nota nel mondo con il nome delle sette sorelle, affibbiato proprio da Mattei alle multinazionali del petrolio, prepotenti e vendicative. E anche il governo americano aveva un rapporto ambiguo con le sue sette sorelle, al punto che non sempre era comprensibile chi guidasse chi nelle circonvoluzioni della politica mondiale e nelle guerre locali che si susseguivano, per poi diventare molto frequenti in Medioriente. Per gli Stati Uniti, una scelta politica di fondo è stata sempre quella di contenere la Russia. Una scelta ereditata. In tempi molto più antichi, quando gli USA non c'erano ancora e il petrolio c'era, ma non si sapeva che farsene, già i regnanti d'Europa, con l'aiuto delle repubbliche marinare, cercavano di tenere quei barbari dei russi lontano dal caldo Mediterraneo. Oggi, la partita è quella dei gasdotti. Si può tracciarne di quelli che aggirano la Russia, spesso con percorsi improbabili e con partner o alleati da paura. E altri che portano il gas russo in Europa, lungo vie che tagliano fuori l'Ucraina, inaffidabile agli occhi di Gazprom. Oppure si può lasciar stare e spedire il gas in Cina e in Giappone, paesi disposti ad accollarsi anche la fabbricazione dei gasdotti. Anche Cina e Giappone sono alleati degli Usa, quindi anche in quella partita non mancherebbero i contrasti. E poi, dall'altra parte, c'è l'ENI che ha dovuto far buon viso alla progettazione di un certo numero di rigassificatori, da rifornire con navi gasiere. Una soluzione ostica che gli toglieva di fatto il controllo pressoché completo sull'offerta di gas in Italia. Le navi potevano arrivare da ogni Paese produttore e viaggiare per conto di ogni compagnia elettrica nazionale, per rifornire centrali e città. Nel frattempo, però, ha sviluppato gasdotti attraverso il Mediterraneo, dall'Algeria e dalla Libia. Così il gas arriva in Italia dalla Russia, dal nord-Europa, dalla Libia e dall'Algeria.. In un futuro prossimo un secondo gasdotto dall'Algeria, con sbarco in Sardegna (mentre il primo passa per la Sicilia) e un ultimo dalla Turchia. E questa movimentazione piace molto a Gazprom. Algeria e soprattutto Libia sono altri produttori di gas con i quali le strategie dell' Opec dei gasieri verrebbero rese più facili e naturali. Invece i gasdotti progettati con percorsi dalla Russia all'Europa non riescono a prendere corpo, anche per i veti incrociati della politica maggiore. Il crollo del prezzo del petrolio, cui il prezzo del gas è legato strettamente, ha fatto il resto. E' molto difficile programmare un oggetto costoso come un gasdotto, senza conoscere il prezzo di vendita del gas a manufatto completato e quale banca lo finanzierà e quale Paese se ne farà garante. Il grande gioco del gas essendo risultato impossibile, rimane allora il piccolo gioco che il russo Gazprom può fare con il suo alleato italiano, l'ENI appunto. Non è moltissimo ma è qualcosa. Gazprom è costretto a fidarsi. Altri alleati non ne ha. Non può permettersi di perdere anche quello, facendo scherzi con le forniture di gas.
mercoledì 7 gennaio 2009
la telenovela nordista
Questa volta, a mio modesto avviso, al cavaliere salteranno i nervi. Il solito taglia e cuci, istituzionalmente consolidato, in questa specifica occasione (affaire Alitalia) non potrà avere il solito effetto sperato e sperimentato in altre occasioni. Troppe tensioni e troppi mugugni nel Nord Italia, tra gli irriducibili leghisti avviluppati come l'edera all'hub di Malpensa, per sperare in una seppur ipotetica quiete dopo la tempesta. Oramai il dado è tratto (sembra). Venerdì si dovrebbe formalizzare e concludere l'accordo con Air France, altro che partnership con i tedeschi di Lufthansa! E secondo me non credo che il Nord ringrazierà Silvio. In questi casi la scelta di vendere il 25% ad Air France non fa che acuire le tensioni interne alla maggioranza di governo. Certo, c'è da dire che in queste circostanze l'importante è farsi vedere, non certo risolvere i problemi. E Alitalia, più che una compagnia aerea, sembra ormai un amplificatore di visibilità. Basta mettersi sotto le sue insegne e aprire bocca. Gli ultimi a farsi avanti sono stati gli amministratori lombardo-milanesi, che fin qui si erano limitati a benedire ogni parola di Berlusconi, confidando che da una soluzione «privata», gestita da imprenditori quasi tutti «nordisti», non potesse che venir fuori un futuro radioso per lo scalo di Malpensa. Ora che l'ingresso (e la relativa presa di controllo) da parte di Air France è ormai cosa fatta, alzano la voce «scoprendo» di aver fatto male i conti. La lista degli imbarazzati è lunga. Va da Roberto Formigoni, che ancora l'altro ieri dava per «non chiusa» la partita invocando un intervento a gamba tesa di Berlusconi sulla sua stessa «cordata italiana», al sindaco del capoluogo, Letizia Moratti. La quale, nell'ansia pasionaria per lo scalo varesino, è arrivata a scomunicare il principio-cardine della restaurazione degli ultimi due decenni: «le scelte strategiche per il Paese non possono essere lasciate nelle mani degli imprenditori». Alla fine i più imbarazzati di tutti sono i leghisti, che hanno riunito il proprio ufficio politico con tutta la delegazione di governo in testa. A fine riunione sono arrivati anche la Moratti e Formigoni. Sulla stessa lunghezza d'onda c'è l'opposizione (diciamo così) del PD. Il presidente della provincia di Milano, Filippo Penati, si è apertamente appellato alla Lega. A Roma, intanto, il sindaco Alemanno e il governatore Marrazzo sostengono con parole simili gli interessi locali. Il cuore del contendere è la scelta del «partner straniero», piegata però al punto di vista «territoriale». Ai lumbard piace Lufthansa perché sperano di trovarvi più attenzione per il negletto aeroporto di Malpensa. A Roma va bene Air France, interessata a mantenere Fiumicino come porta per il Nordafrica e il Medioriente. Nessuno si interroga invece sul «piano industriale» presentato da CAI, fondato su una bizzarra strategia di network che prevede ben sei basi principali. La giornata dell'altro ieri sembrava destinata ad accogliere un colpo di scena dell'ultimo momento, con Lufthansa attesa a presentare un'offerta superiore a quella francese. Air France, nel frattempo, aveva provveduto ad alzare il prezzo: da 250 a 310 milioni per il 25% della CAI. Non è accaduto niente. Il previsto incontro tra Roberto Colaninno e il numero uno tedesco, Mayrhuber, è stato smentito da Lufthansa. La quale ha però precisato che «i contatti proseguono». A tener banco è rimasto perciò il «fronte del Nord». A conclusione del vertice leghista-meneghino è stata diramata una nota secondo cui la Lega «ritiene che il partner ideale per CAI debba essere Lufthansa, unica compagnia in grado di garantire occupazione, servizi di livello internazionale e i 2 hub di Milano Malpensa e Roma Fiumicino». In caso di decisioni industriali diverse «il governo non potrà che liberalizzare i diritti di traffico aereo con effetto immediato, garantendo così l'effettiva concorrenza su tutte le tratte, ivi compresa quella Milano-Roma». Su questo punto l'Enav aveva già ricordato che «tutti i collegamenti intracomunitari sono liberalizzati per i vettori comunitari». Ed anche per quanto riguarda i collegamenti extra Ue, l'Ente ha fin qui «autorizzato tutti i collegamenti richiesti, anche al di fuori degli accordi bilaterali vigenti». Insomma, se Malpensa ha un traffico sottodimensionato rispetto alle potenzialità è perché il mercato globale non ritiene prioritario utilizzarla. Facile anche capire il motivo: in quella fascia di territorio c'è un aeroporto ogni 40-50 chilometri (Torino, Malpensa, Linate, Bergamo, Brescia, Parma), ognuno impegnato ad espandere la propria attività. Mentre il traffico complessivo, causa i primi contraccolpi della crisi, tende a calare. Di questo sono certamente consapevoli anche gli amministratori e i dirigenti politici del Nord (se non altro perché sono loro a usare fondi pubblici per incentivare la presenza nei vari scali delle compagnie low cost). E infatti il vero cuore del comunicato leghista sta in un altro obiettivo: «in ogni caso il governo dovrà inoltre garantire ai lavoratori coinvolti il medesimo trattamento e gli stessi ammortizzatori sociali già previsti per i dipendenti Alitalia». Insomma, ammortizzatori sociali «lunghi» anche per loro. Sarà questo, più modestamente, il clou dell'incontro che Umberto Bossi ha preteso per oggi con Berlusconi. Poi, giovedì, andranno tutti insieme (compreso il PD) al Malpensa-day. Per tranquillizzare in qualche modo un territorio che sta pagando prezzi altissimi alla crisi. Per lo sviluppo, fino a questo momento, c'è solo lo spettro di cemento dell'Expo 2015. Ma questa è un'altra telenovela. Tutta da vedere.
domenica 4 gennaio 2009
le eredità immaginarie
Mi sono sempre chiesto cosa avrei mai potuto provare se un giorno una lettera di un notaio mi avesse annunciato che ero stato nominato unico erede di un lontano zio, magari emigrato (guarda caso) in America e che lasciava proprio a me una bella casetta con annesso polveroso garage. Sicuramente avrei creduto più ad uno scherzo di qualche amico buontempone che non alla realtà dei fatti. Ma se davvero il destino avesse deciso per me una situazione testè prospettata, beh, non avrei dubbi. Sarei saltato per aria dalla felicità proprio come un tappo di una bottiglia di spumante, debitamente agitata. Ma siamo (ahimè) solo nel campo delle mere ipotesi e dei languidi sogni: purtroppo (per me, non so per voi) nulla di tutto ciò è mai avvenuto finora nella mia esistenza. Di parenti, seppur alla lontana, che mi abbiano lasciato qualcosa neppure l'ombra. Figuriamoci di casette e garage. Ma comunque, a parte le mie eredità immaginarie, provate a pensare di perdere un caro vecchio zio, un signore un po’ eccentrico di cui avevate notizie ogni tanto, un medico militare non povero ma tutt’altro che ricco, e di andare a dare un’occhiata alla casa (una cascina, più che una villa) dopo che lui è dipartito. Girate per le stanze, trovate tutto un po’ trasandato e scombinato, proprio come vi aspettavate. Qualche sospiro, ricordi d’infanzia. Nulla di eccezionale. Per ultimo aprite un garage che, visto da fuori, sembra più un fienile o una capanno degli attrezzi. All’improvviso vi trovate di fronte a una Bugatti del 1937, una Aston Martin e una Jaguar: tutte macchine che dimostrano la loro veneranda età, non roba da girare la chiave e partire, ma insomma in ottimo stato viste le circostanze. Anche se non vi intendete di auto d’epoca, capite subito che dopo un buon restauro da quelle auto potrete ricavare un bel gruzzolo. Ma le sorprese non sono finite, perché dopo aver consultato degli esperti, venite a sapere che la Bugatti è di un modello che è stato costruito in soli 17 esemplari, e viene stimata 3 milioni di euro. Forse anche 3 e mezzo. Come minimo vi prende un mezzo coccolone! Ecco, questo è esattamente quello che è successo ai parenti del dottor Harold Carr, un ex chirurgo della British Army residente in quel di Newcastle (Inghilterra del nord). La morte è avvenuta qualche mese fa, e anche la scoperta del suo tesoretto in garage risale ad allora, mentre la vendita della Bugatti è fissata tra poco più di un mese a Parigi, nella casa d’aste Bonhams. L’auto è una 57S Atalante e ha pure una storia, magari non proprio eclatante (non è che fosse la macchina di Winston Churchill o dell’attrice Vivien Leigh) ma è comunque una storia degna di nota. Il suo primo proprietario risulta un conte Howe che fu pure il primo presidente del British Racing Drivers’ Club. Il nobiluomo guidò la prestigiosa Bugatti per otto anni, poi la mise in vendita come niente fosse per passare a un nuovo giocattolo. Ci furono un paio di cambi di proprietà plebei, poi la macchina tornò in mano a un aristocratico, un Lord Ridley da cui il dottor Carr, allora giovane e non privo di mezzi, la acquistò nel 1955. Anche Harold Carr non guidò la Bugatti troppo a lungo: solo cinque anni, poi, per cause non appurate (la macchina non ce la faceva più? oppure il suo proprietario voleva preservarla in quanto cimelio?) la parcheggiò in garage una volta per tutte. Negli anni successivi altre due belle auto si sono affiancate alla Bugatti nel ricovero, e anche di quelle nessuno sapeva niente. Fino alla scoperta prodigiosa. Per essere più precisi: della Bugatti 57S Atalante sistemata in quel di Newcastle non sapeva niente la gente comune, e non sapevano niente nemmeno i parenti del dottor Carr. Ma fra gli esperti del settore c’era chi sapeva e teneva gli occhi puntati sul possibile affare, pur cercando di parlarne in giro il meno possibile per non fornire informazioni utili alla concorrenza. La macchina si presenta non certo in ottimo stato: i vetri sono quasi del tutto opachi, la carrozzeria ha perso smalto ma la livrea blu si ammira ancora e i pneumatici mostrano delle buone scanalature, ma certo non saranno a norma nel 2009. C’è ruggine dappertutto e qualunque meccanico alzasse il cofano e desse un’occhiata al motore vivrebbe un breve ma intenso momento di sconforto. Però questa signora di 72 anni non è poi così male, le serve solo un buon lifting a cura di mani esperte. Le Bugatti 57S Atalante pur se costruite in appena 17 esemplari non sono andate perdute, nella maggior parte dei casi. Non erano roba che si buttasse via. Quattro sono conservate nel Musée Nationale de l’Automobile di Mulhouse, in Francia, e diverse altre sono in mano a collezionisti privati. La Atalante di Newcastle potrebbe risultare quella a più basso chilometraggio: appena 42 mila. Ma di certo non basta questo a farla considerare nuova. Quel che conta, alla fine, sono i tre milioni e mezzo di euro di valore. O no?
sabato 3 gennaio 2009
buon compleanno, cara TV
Oggi, 3 gennaio 2009, ricorre il 55° compleanno della televisione. Inutile dire che anche il sottoscritto è cresciuto con pappette e tv, con pizza al pomodoro e rin tin tin. In parole povere la televisione si è introdotta nella mia vita ben prima del mio decimo compleanno. I ricordi che affiorano nella mia memoria partono con il bianco e nero dello sceneggiato televisivo Belfagor (mamma mia che paura!), proseguono, sempre in bianco e nero, con le gambe velate di nero e con la mitica minigonna di Mina di Studio Uno, per arrivare alle altrettanto mitiche gambe delle gemelle Alice ed Ellen Kessler di Giardino d'Inverno e della stessa Studio Uno. Ricordo le mie domeniche passate davanti alla tv invidiando il maestro Gorni Kramer e l'allora giovane Paolo Villaggio ingozzarsi con le splendide paste alla crema durante la trasmissione pomeridiana "Quelli della Domenica". Mi fermo qui con i ricordi personali per non tediare oltremodo il lettore e passo a fare gli auguri a mamma TV per i suoi 55 anni ben portati, nonostante le centinaia di migliaia di ore di trasmissioni che ha sul groppone. Analizzando il fenomeno televisivo de quo, mi viene immediatamente da dire che quando in quella domenica 3 gennaio 1954 la TV apparve per la prima volta nelle case di quei pochi italiani che già ne avevano una, la sensazione di qualcosa di stupefacente e di quasi miracoloso si ebbe e come. La TV in bianco e nero era pura stupefazione e simbolo del benessere. Un mondo nuovo si apriva, sia pure in bianco e nero, e per la prima volta si poteva vivere in diretta un miracolo: per conoscere il mondo non era più necessario muoversi, ma bastava aprire un'inconsueta finestra di casa, il televisore, perchè il mondo entrasse. La funzione sociale della televisione (e su questo vi rimando ai molteplici scritti del professor Aldo Grasso, tra cui la sua Storia della televisione edita da Garzanti) agli inizi fu quella di perfezionare ed allargare il ruolo già precedentemente svolto dalla radio: conferire un'idea di realtà attraverso la contemporaneità di suono e immagine (però, che bella frase che ho scritto!...). Volendo fare un mero paragone, come in quegli anni Cinquanta per molti ragazzi il primo spostamento da casa coincideva con la partenza per il servizio militare e per le ragazze il primo viaggio in assoluto era il viaggio di nozze, così la televisione (come d'incanto) consentì a tutti gli italiani di effettuare dei "viaggi" fino ad allora impensabili, concedendo allo spettatore la possibilità di vedere luoghi ai quali, altrimenti, non avrebbe mai potuto accedere. Un pò come continua a succedere ancora adesso alla mia anziana e magnifica mamma, che sovente mi dice che, senza muoversi dalla sua personale e insostituibile poltrona con alzata, riesce a vedere tramite la televisione tutti i luoghi d'Italia e del mondo in cui non è stata, ma che è come se ci fosse già stata. Magia della tv. Per completezza della cronaca debbo ricordare che il 3 gennaio 1954, quando iniziarono le trasmissioni televisive ufficiali della RAI, in Italia esistevano 15 mila televisori, concentrati soprattutto a Torino e Milano. Il prezzo di un apparecchio oscillava tra 160 mila lire (il costo di una moto) e 1 milione e 300 mila lire, in un Paese in cui il reddito medio pro capite annuo era di 258 mila lire. Il primo canone di abbonamento venne fissato a 12.550 lire, ed era allora il più alto d’Europa. Le previsioni di sviluppo di questo mezzo, secondo il parere di quasi tutti gli esperti, erano molto scarse. Cinque anni dopo, nel 1959, la tv era seguita stabilmente da oltre 20 milioni di persone, tra case private (circa un milione di apparecchi) e locali pubblici. Il resto è storia che ben conosciamo. In questi 55 anni la RAI (vecchio acronimo di Radio Audizioni Italiane) ha trainato lo sviluppo del sistema televisivo del nostro Paese, sia dal punto di vista tecnologico (dall’avvento del colore fino ai primi studi mondiali sulla tv digitale, realizzati proprio nel Centro Ricerche Rai di Torino), sia dal punto di vista culturale e sociale, ridisegnando la mappa dell’informazione, della cultura, dell’intrattenimento degli italiani. E, quel che forse più conta, la RAI (in quanto servizio pubblico) ha fatto sì che questo sviluppo toccasse progressivamente tutte le fasce della popolazione e tutte le zone dell’Italia, non soltanto quelle più ricche e redditizie cui naturalmente si rivolgono, in ogni Paese, gli operatori commerciali.
La storia della "prima generazione" televisiva (quella per intenderci della tv analogica, che ci ha accompagnato per più di mezzo secolo) può illuminare le sfide che ci attendono ora con lo sviluppo della "seconda generazione" televisiva: quella della tv digitale. Dove ritroviamo le stesse incertezze e gli stessi scetticismi, ma anche gli stessi obiettivi fondamentali di modernizzazione del Sistema Paese, pur in uno scenario che, oltre cinquant’anni fa, sarebbe apparso "fantascientifico". In conclusione, dopo tanto parlare e dopo tanto ricordare, a parer mio basta un'unica, semplice frase: buon compleanno, cara TV!
La storia della "prima generazione" televisiva (quella per intenderci della tv analogica, che ci ha accompagnato per più di mezzo secolo) può illuminare le sfide che ci attendono ora con lo sviluppo della "seconda generazione" televisiva: quella della tv digitale. Dove ritroviamo le stesse incertezze e gli stessi scetticismi, ma anche gli stessi obiettivi fondamentali di modernizzazione del Sistema Paese, pur in uno scenario che, oltre cinquant’anni fa, sarebbe apparso "fantascientifico". In conclusione, dopo tanto parlare e dopo tanto ricordare, a parer mio basta un'unica, semplice frase: buon compleanno, cara TV!
venerdì 2 gennaio 2009
quello che avrei detto da Presidente della Repubblica
Il messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è stato seguito da più di 11 milioni di italiani, tra un piatto di lenticchie e cotechino e un brindisi con spumante rigorosamente delle nostre terre. Molti analisti politici hanno riportato il senso e il tenore del messaggio presidenziale sui quotidiani oggi in edicola, ma come sempre accade in questi casi subentra lo stereotipo del "io avrei detto questo, io avrei detto quello", un pò sulla falsariga degli italiani commissari tecnici della Nazionale di calcio (quando ognuno fa la formazione che più gli aggrada). E così è stato anche quest'anno. E immedesimandomi in questo atipico gioco di società, anche io voglio dire qualcosa al riguardo. Anzi, dico quello che avrei detto se fossi stato al posto del Presidente. Tralasciando i soliti argomenti canonici del tradizionale discorso di fine anno, come ad esempio l’intangibilità della Carta Costituzionale (scritta da uomini nati nella seconda metà del 1800!), l’unità della nazione (magari!), le riforme (ovviamente condivise), la pace sempre e comunque (anche quando ti arrivano due razzi Qassam in cucina all’ora di pranzo), l’Europa (ma quale, ma dove), personalmente mi sarei soffermato sulla crisi mediorentale. E a proposito del Medio Oriente avrei semplicemente citato l’articolo 7 della carta costitutiva di Hamas: «...Il Profeta – le benedizioni e la salvezza di Allah siano su di Lui – dichiarò: "L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: 'O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me. Vieni e uccidilo; ma l’albero di Gharqad non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei"». Hamas è un gruppo terroristico che vuole la distruzione di Israele e che sta riducendo alla fame i Palestinesi della Striscia di Gaza e tanto basta per dare a Israele il diritto di difendersi. Finché questo punto non sarà chiarito, nessuna pace è possibile in Medio Oriente. Finché i regimi autoritari di Siria e Iran continueranno a rifornire di armi Hamas ed Hezbollah, nessuna pace è realistica. Vogliamo dire (una volta per tutte) che noi, in Occidente, scegliamo l’unico Stato democratico del Medio Oriente e siamo contro i terroristi e i dittatori!?
Passando a tutt’altro argomento, la crisi economica, Napolitano non ha pronunciato l’unica parola determinante in questo momento: ottimismo. Ottimismo perché il fondo è stato toccato. Perché Wall Street non può crollare un giorno sì e uno no, come invece dicono i telegiornali. Perché per la prima volta dal 1959 i prezzi diminuiscono (siamo in deflazione, qualcuno lo dica alla BCE!) e non solo i prezzi dei beni di consumo, ma anche quelli delle case, dell’energia, della benzina, dei mutui. Tutto ciò lo sintetizza l’ISAE (http://www.isae.it/), che ogni mese pubblica la percentuale delle famiglie in difficoltà (che sono cioè costrette a fare debiti o ad intaccare i risparmi). L’ultimo dato mensile disponibile al 13 dicembre scorso ci dice che la percentuale è scesa al 15,3% dal 20% del primo semestre dell’anno. Insomma aumenta il potere d’acquisto delle famiglie. Qualcuno lo dica, per favore.
E’ vero tuttavia che il reale problema è mantenere il reddito, il posto di lavoro, ma su questo il Presidente avrebbe dovuto pronunciare un’altra semplice parolina: liberalizzazioni. Lasciare cioè che le imprese facciano il loro mestiere senza lacci o lacciuoli. Liberi e responsabili nella loro capacità di rischiare, competere e creare benessere e posti di lavoro.
Quest'ultimo passaggio inevitabilmente introduce il terzo grande tema affrontato da Napolitano: le riforme. Per fare le riforme, dice il Presidente, è necessario che esse siano condivise (ma avrebbe sicuramente voluto dire concertate), che le forze politiche facciano uno sforzo di impegno comune per l’interesse pubblico e via con la solita retorica del dialogo.
No, caro Presidente. Per fare le riforme ci vogliono solo due semplici condizioni: la legittimazione degli elettori e il coraggio. Era sufficiente dire: dialogate il meno possibile ma abbiate coraggio. Fatele queste benedette riforme. Fregatevene delle caste e delle rendite, dei no-Tav e di tutti quelli che semplicemente difendono interessi particolari. Ridate a questo Paese le condizioni per volare.
Caro Presidente Napolitano, non basta citare Roosevelt per essere Roosevelt...
Passando a tutt’altro argomento, la crisi economica, Napolitano non ha pronunciato l’unica parola determinante in questo momento: ottimismo. Ottimismo perché il fondo è stato toccato. Perché Wall Street non può crollare un giorno sì e uno no, come invece dicono i telegiornali. Perché per la prima volta dal 1959 i prezzi diminuiscono (siamo in deflazione, qualcuno lo dica alla BCE!) e non solo i prezzi dei beni di consumo, ma anche quelli delle case, dell’energia, della benzina, dei mutui. Tutto ciò lo sintetizza l’ISAE (http://www.isae.it/), che ogni mese pubblica la percentuale delle famiglie in difficoltà (che sono cioè costrette a fare debiti o ad intaccare i risparmi). L’ultimo dato mensile disponibile al 13 dicembre scorso ci dice che la percentuale è scesa al 15,3% dal 20% del primo semestre dell’anno. Insomma aumenta il potere d’acquisto delle famiglie. Qualcuno lo dica, per favore.
E’ vero tuttavia che il reale problema è mantenere il reddito, il posto di lavoro, ma su questo il Presidente avrebbe dovuto pronunciare un’altra semplice parolina: liberalizzazioni. Lasciare cioè che le imprese facciano il loro mestiere senza lacci o lacciuoli. Liberi e responsabili nella loro capacità di rischiare, competere e creare benessere e posti di lavoro.
Quest'ultimo passaggio inevitabilmente introduce il terzo grande tema affrontato da Napolitano: le riforme. Per fare le riforme, dice il Presidente, è necessario che esse siano condivise (ma avrebbe sicuramente voluto dire concertate), che le forze politiche facciano uno sforzo di impegno comune per l’interesse pubblico e via con la solita retorica del dialogo.
No, caro Presidente. Per fare le riforme ci vogliono solo due semplici condizioni: la legittimazione degli elettori e il coraggio. Era sufficiente dire: dialogate il meno possibile ma abbiate coraggio. Fatele queste benedette riforme. Fregatevene delle caste e delle rendite, dei no-Tav e di tutti quelli che semplicemente difendono interessi particolari. Ridate a questo Paese le condizioni per volare.
Caro Presidente Napolitano, non basta citare Roosevelt per essere Roosevelt...