martedì 31 marzo 2009
Non mi indignerò mai abbastanza parlando (e mai sparlando) delle malefatte del Pifferaio di Arcore. C'è assolutamente da indignarsi. E non basta. Bisogna trovare il modo per far sapere che non ci stiamo ad essere presi in giro. L'ultima presa per i fondelli è la questione rifiuti in Campania che è (e resta) una vicenda infuocata che i napoletani non riescono a metabolizzare. Una rabbia che li lacera quotidianamente, con la morte nel cuore al solo pensiero che gli spazi di agibilità politica si sono ridotti enormemente a causa dell'omologazione ai poteri forti di tanti politici, a cui i campani hanno riversato in passato la loro fiducia e che oggi vorrebbero rassicurarli sulla non nocività dell'inceneritore di Acerra, pomo perenne della discordia. La messa in opera di altri tre inceneritori non è giustificata considerando la raccolta differenziata porta a porta (qui Bruno Vespa non c'azzecca niente) tanto promessa dagli amministratori locali e dalla stessa Asia spa (l'azienda che fornisce i servizi di igiene ambientale). Infatti la quantità di rifiuti si ridurrebbe enormemente. Ecco perché la raccolta differenziata non decolla e le strade sono ancora insudiciate dai rifiuti: basta girare le strade di Scampia, di Piscinola, sulle lunghe interminabili strade provinciali della periferia di Napoli. Non sarà immolata solo Acerra per la purezza della regione campana e per la voracità imprenditoriale: dal prossimo mese di aprile si avvierà anche il bando di gara pubblico per un nuovo inceneritore in uno dei più popolari quartiere di Napoli. Ponticelli. I grandi talk-show mediatici di questi mesi avevano spento i riflettori sulla questione dei rifiuti campani, riaccendendoli per la passerella finale all'inaugurazione del primo inceneritore ad Acerra, accompagnata da uno smisurato spiegamento di forze dell'ordine in tenuta antisommossa (vista la presenza del Pifferaio di Arcore), forse per contenere anche la legittima protesta di quelli che non ci stanno ad essere ingannati dai nuovi colonizzatori. Il Presidente del Consiglio, i ministri milanesi, i politici e gli imprenditori del Nord avviano il loro (presunto) nuovo laboratorio politico di destra, costruito tra vecchi e nuovi equilibri, infischiandosene dei reali problemi della gente del Sud, e della Campania in particolare. Una regione già martoriata con il sangue dalla camorra, un tasso di disoccupazione tra i più alti d'Europa, un sistema sanitario regionale che per i troppi debiti fa acqua da tutte le parti e dove non basta svendere servizi e strutture sanitarie ai privati per tamponare la falla economica prodotta dai moltissimi sprechi clientelari. Gli amministratori responsabili sono tutt'ora al loro posto, mentre i cittadini che hanno bisogno di cure si rivolgono sempre di più alle strutture sanitarie del Nord. Letizia Moratti, sindaco del prestigioso capoluogo della Regione con a capo Roberto Formigoni, dal palco per l'inaugurazione dell'inceneritore di Acerra ha affermato che sarà lieta di mettere a disposizione della Campania competenze, formazione e tecnologie affinchè il Sud possa in futuro ripagarla, a lei e a tutti i milanesi che verranno a soggiornare nei periodi estivi nella bellissima Capri o sulla splendida costiera Amalfitana. Intanto le molte imprese della Lombardia si stanno arricchendo con i tanti project financing varati dalla regione Campania, tra la prima in Italia ad usufruire di questa modalità di privatizzazione del sistema pubblico, mentre i giovani campani ogni domenica sera salgono sul quel treno, che li porta ancora al Nord per sperare in un nuovo miracolo economico che, ho l'impressione, forse non arriverà mai..
lunedì 30 marzo 2009
meglio il Corriere della RAI...
Deve aver pensato proprio così Ferruccio De Bortoli, fino ad oggi direttore del Sole24Ore e prossimamente direttore (per la seconda volta) del Corriere della Sera. A conti fatti, per lui, credo sia molto meglio l'ambiente austero ed ovattato della redazione di via Solferino a Milano rispetto a quello molto più litigioso e lottizzato di viale Mazzini a Roma. E così, secondo gli spifferi redazionali, Ferruccio De Bortoli, già direttore del Corriere della Sera dal 1997 al 2003, torna al quotidiano del gruppo Rcs con il consenso unanime dei grandi soci. Il suo posto alla direzione del Sole24Ore, come comunica una nota del gruppo, viene preso dall'attuale direttore del Tg1, Gianni Riotta. Dopo numerosi incontri preparatori tra gli azionisti del patto oggi si sono riuniti prima i soci dell'accordo di sindacato, poi il consiglio di amministrazione di Rcs MediaGroup e infine quello di Rcs Quotidiani. Quest'ultimo, si legge in una nota, ha designato all'unanimità De Bortoli per la nomina a direttore. Consenso unanime anche da parte del board di Rcs MediaGroup e del patto. De Bortoli si insedierà "compiute le prescritte procedure".
Il presidente del patto ha inoltre comunicato al Cda di Rcs Mediagroup la lista dei candidati per il rinnovo del consiglio (in scadenza con l'assemblea di bilancio del 28 e 29 aprile) in cui sono confermati i nomi dell'attuale presidente Piergaetano Marchetti e dell'Ad Antonello Perricone. La responsabilità dei quotidiani italiani passerà a Giorgio Valerio.
Di un cambiamento alla direzione del quotidiano discutevano da tempo i principali soci del gruppo, a partire dai due banchieri Giovanni Bazoli e Cesare Geronzi, presidenti l'uno di Intesa Sanpaolo e l'altro di Mediobanca, primo socio di Rcs. Secondo una fonte del patto, durante l'incontro odierno Geronzi ha preso la parola definendo "irreversibile" il processo di cambiamento del direttore. Il nome che ha messo tutti d'accordo è stato quello di De Bortoli, inizialmente proposto da Bazoli, su cui gli altri soci si sono allineati nonostante l'iniziale dissenso di una parte del patto che voleva una conferma di Paolo Mieli. Tra questi Luca Cordero di Montezemolo, presidente di FIAT secondo azionista dell'accordo di sindacato che vincola complessivamente il 63,5% circa del capitale del gruppo editoriale. In conclusione, a mio avviso, nella redazione de la Repubblica di via Cristoforo Colombo a Roma non saranno certo molto contenti del ritorno al Corriere del direttore che alla fine del secondo millennio consolidò la leadership nelle tirature e nelle vendite. Staremo a vedere...
Il presidente del patto ha inoltre comunicato al Cda di Rcs Mediagroup la lista dei candidati per il rinnovo del consiglio (in scadenza con l'assemblea di bilancio del 28 e 29 aprile) in cui sono confermati i nomi dell'attuale presidente Piergaetano Marchetti e dell'Ad Antonello Perricone. La responsabilità dei quotidiani italiani passerà a Giorgio Valerio.
Di un cambiamento alla direzione del quotidiano discutevano da tempo i principali soci del gruppo, a partire dai due banchieri Giovanni Bazoli e Cesare Geronzi, presidenti l'uno di Intesa Sanpaolo e l'altro di Mediobanca, primo socio di Rcs. Secondo una fonte del patto, durante l'incontro odierno Geronzi ha preso la parola definendo "irreversibile" il processo di cambiamento del direttore. Il nome che ha messo tutti d'accordo è stato quello di De Bortoli, inizialmente proposto da Bazoli, su cui gli altri soci si sono allineati nonostante l'iniziale dissenso di una parte del patto che voleva una conferma di Paolo Mieli. Tra questi Luca Cordero di Montezemolo, presidente di FIAT secondo azionista dell'accordo di sindacato che vincola complessivamente il 63,5% circa del capitale del gruppo editoriale. In conclusione, a mio avviso, nella redazione de la Repubblica di via Cristoforo Colombo a Roma non saranno certo molto contenti del ritorno al Corriere del direttore che alla fine del secondo millennio consolidò la leadership nelle tirature e nelle vendite. Staremo a vedere...
domenica 29 marzo 2009
leva il mostro dalla prima pagina
Ci voleva don Bruno Vespa per gettare il sasso nello stagno e ripristinare un minimo di serenità intellettuale in tutti quei famelici cacciatori di mostri da sbattere in prima pagina, dopo l'episodio dello stupro di San Valentino al parco della Caffarella? Evidentemente sì. Ed è durato il tempo di una fiaba la promessa di lavoro per Karol Racs, il romeno innocente marchiato col soprannome di "faccia da pugile", accusato senza uno straccio di prova d'essere stato uno degli stupratori della Caffarella e poi a catena di una seconda violenza sessuale, finché il dna ha detto che gli autori erano altri. Lui aveva sempre negato, indicando persone e luoghi dove aveva passato la serata. Ma le sue parole erano scivolate via come il vento. Non solo non lo credevano ma nemmeno lo ascoltavano. Invece l'hanno preso a botte. Sta scritto nei referti medici stilati all'ingresso in carcere. Tutti sanno cosa è veramente successo. Nelle redazioni e in tribunale la voce corre. I dettagli passano di bocca in bocca. Ma nessuno pronuncia la parola giusta, quell'unica parola che direbbe tutto e spiegherebbe tante altre cose, per esempio la confessione estorta all'altro protagonista della vicenda, Alexandru Loyos Isztoika, il "biondino" (anche lui scarcerato dal Tribunale della Libertà). Quella parola che nemmeno esiste nel nostro codice penale. Fatto quasi unico: il reato di tortura non c'è, non perché non esiste il comportamento criminale che lo caratterizza ma perché manca la qualificazione giuridica che lo definisce. Come a dire che la "bancarotta fraudolenta" non esiste, non perché gli imprenditori non scappano con il malloppo ma perché non è previsto il reato che la persegue. Giochi di prestigio, assoluzioni preventive degli apparati. Karol Racs, dunque, doveva essere il perfetto colpevole con quella faccia lombrosiana segnata da una vita difficile. Orfanatrofio, lavori umili, espedienti, mai reati però. Anonimo tra gli anonimi che affollano le file degli umiliati e offesi. All'uscita dal carcere l'hanno rimesso a nuovo: vestiti, una Mercedes ad aspettarlo, albergo e ristorante per una settimana. Era l'accordo che il suo avvocato gli aveva garantito per l'esclusiva concessa a "Porta a Porta". Lì, spaesato più che protagonista, aveva fatto da comparsa alla cerimonia buonista del risarcimento pubblico, ma poi la serata ha preso un'altra piega. Nel parlamentino di Vespa nessuna domanda sulle percosse e solite passerelle per i politici di turno. Il Sindaco Alemanno ha mostrato una sola preoccupazione: onorare l'azione di quella polizia che in questa vicenda ha fatto solo disastri, sommando sofferenza a dolore, moltiplicando le vittime e lasciandosi quasi sfuggire i colpevoli. La deputata Livia Turco del PD invece si è domandata dove fosse il punto d'equilibrio tra riconoscimento della sofferenza della vittima e garanzie giuridiche per chi finisce sotto accusa. Come se le due cose fossero incompatibili, come se evitare il coinvolgimento d'innocenti fosse un insulto e non un modo per dare giustizia alla vittima. Parole che hanno reso più chiare le ragioni del silenzio della sinistra in questa vicenda dominata dalle destre, moderate ed estreme, con il decreto sicurezza, le ronde, lo squadrismo, l'odio e il razzismo più sfrenati. La sinistra si è arresa da tempo. Di fronte alla vittima ha rinunciato alla presunzione d'innocenza. Il paradigma vittimario dilaga, obnubila. Proposta come esperienza unica e incomparabile, la sofferenza della vittima strumentalizzata politicamente assume una visione assoluta, fino a rivendicare una sorta di monopolio del dolore, un'esclusiva narcisistica e perciò concorrenziale verso le altre vittime, fino al negazionismo altrui. Da qui l'edificazione di una scala di valori che paradossalmente preclude l'altro: la vittima ritenuta immeritevole e socialmente debole. Rinchiusa nella torre d'avorio del proprio dolore, il punto di vista vittimario diventato marketing politico si è trasformato in una tirannia che semina ingiustizie, legittima abusi e fomenta il populismo penale. E così Racs, vittima negata di tutta la vicenda, ha fatto la fine di Cenerentola: allo scadere della mezzanotte il sogno di una vita normale è svanito. Le diverse offerte di lavoro si sono liquefatte. In particolare quella di Filippo La Mantia, lo chef che aprirà ad aprile un ristorante nel centro di Roma. Il cuoco, che anni fa subì un'ingiusta detenzione, ha dovuto fare retromarcia di fronte alle proteste e alle minacce ricevute. Tre cameriere si sono licenziate appena saputo dell'arrivo del romeno. Una ditta di facchinaggio ha protestato, sostenendo che c'erano italiani che avevano più diritti. Dall'estero un'agenzia turistica ha fatto sapere che non avrebbe più inviato clienti se Racs fosse stato assunto. Ieri, in serata, è arrivata una nuova offerta da parte di Vittorio Sgarbi, sindaco di Salemi. Ma non sarà certo quest'annuncio che impedirà di chiedermi se siamo di fronte a un razzismo dilagante. O forse a qualcosa di più e di peggio. Ormai lo spettacolo della cronaca nera annichilisce, spinge a barricarsi in casa, votare i politici che chiedono "legge e ordine", odiare chi sta peggio e adulare chi domina. Ma non mi sembra proprio un bell'andare...
sabato 28 marzo 2009
Michele Serra & la satira irresistibile
Giuro che la lettura di questo pezzo di alta scuola di giornalismo e di satira di costume, ad opera dell'irresistibile Michele Serra, mi ha fatto letteralmente piegare in due sulla tastiera del computer dalle risate. Ve lo voglio riproporre integralmente così com'è stato pubblicato sull'ultimo numero de L'espresso. Buona lettura. Romeno seminudo arrestato a Cogne. Il ritrovamento del cadavere di una donna a Garlasco potrebbe inaugurare un nuovo filone della cronaca nera: quello dei delitti-bis commessi nello stesso luogo. I telegiornali dei giorni scorsi hanno accolto con smisurata eccitazione la notizia di un nuovo delitto a Garlasco: il cadavere di una donna seminuda trovata in un canale. La parola 'seminuda', secondo gli studi di settore, vale da sola almeno due punti di share, ed è per questa ragione che i cadaveri di donne vestite hanno uno smercio mediatico molto più scadente, e a volte vengono riconsegnati ai parenti con qualche parola di rimprovero. Ma è soprattutto alla parola 'Garlasco' che le casalinghe lasciano cadere in terra la pentola con i broccoli emettendo un urlo di orrore, anche se la televisione sta dando la notizia di un ingorgo stradale. Il secondo delitto di Garlasco spalanca dunque le porte a un nuovo filone della cronaca nera, quello dei delitti-bis commessi nello stesso luogo già teatro di crimini di grande gradimento popolare. Vediamo i principali casi di sicuro successo. Il secondo delitto di Erba. Nella villetta degli orrori, così chiamata a causa della impressionante bruttezza, i nuovi inquilini litigano con i nuovi dirimpettai perché stendono i panni sulla parabolica oscurando 'Amici' di Maria De Filippi. Li sterminano con il topicida e danno fuoco alla tangenziale per cancellare le prove. Vengono arrestati due rumeni che assomigliano in modo impressionante a Olindo e Rosa. Il secondo delitto di Cogne. Nella baita degli orrori, posta accanto a casa Franzoni e così detta perché ospita la più grande collezione italiana di nani da giardino, un padre orco violenta per 3 mila volte la figlia proprio come quello austriaco, ma tutte e 3 mila nello stesso giorno. Si giustifica sostenendo di essere davvero un orco e di avere recitato in 'Shrek' come doppiatore, ma non viene creduto. Vengono arrestati due rumeni molto somiglianti ai due arrestati di Erba. Tutte le persone coinvolte nel caso, compresi gli inquirenti, sono seminude, e grazie a questo particolare il secondo delitto di Cogne conquista l'apertura dei telegiornali per due mesi. Il secondo delitto di Perugia. Nella casa degli orrori, così chiamata perché appartiene alla famiglia Orrori, il capofamiglia Luigi Orrori lascia la figlia diciottenne sola in casa per andare a lavare la macchina. Lei, con una sua amica studentessa americana molto avvenente, organizza un festino a base di salsicce e tequila. Ma non succede assolutamente niente, e la famiglia Orrori riceve una nota di protesta dalla Federazione della Stampa, danneggiata dal mancato delitto. Fortunatamente, un mese dopo, il fratello quattordicenne della studentessa compie una strage nel suo college in Nebraska. Particolare raccapricciante, ha sbagliato college: non era il suo. Data la particolare gravità del delitto, questa volta non vengono arrestati due rumeni, ma tre, uno dei quali non assomiglia a nessun altro rumeno e per questo viene accusato di essersi sottoposto a plastica facciale per sfuggire agli inquirenti. Il secondo branco di cani randagi a Modica. Rilasciati tra le polemiche da un magistrato per decorrenza dei termini, i cani randagi di Modica ricostituiscono il branco, questa volta rinforzato da un paio di puma fuggiti da un circo, e sbranano due rumeni seminudi, quasi identici ai due rumeni sospettati del delitto di Cogne perché molto somiglianti ai due rumeni di Erba. Il centrosinistra chiede l'aggravante razziale. La Lega propone la castrazione chimica di tutti i cani siciliani. Il branco omicida viene recluso nel canile degli orrori, così chiamato perché è gestito da una anziana animalista inglese che non si pettina dal 1985. Il terzo delitto di Erba. Viene commesso a Cogne da uno squilibrato di Garlasco, ma viene chiamato 'terzo delitto di Erba' perché sia l'assassino che la vittima odiano i vicini di casa. L'atroce delitto viene consumato in una villetta seminuda. Viene arrestato un solo rumeno. L'altro ha un alibi di ferro: non è rumeno. Permettetemi, in chiusura, una personalissima standing ovation per Michele Serra. Se la merita tutta!
il monarca che celebra se stesso
La settimana scorsa la liquefazione di Alleanza Nazionale che confluiva nell'ampolla mediatica del sedicente Popolo della Libertà (condizionata) ha dato il là alle previste celebrazioni di questo fine settimana di marzo, con il Pifferaio di Arcore in veste di uno e trino (come le sue apparizioni sul palco delle due assise), dedito soltanto alla realizzazione di questo one-man show che ne determina l'apoteosi come uomo di comunicazione, quantunque non come uomo politico di spessore o addirittura di statista del terzo millennio. Alla Fiera di Roma il caimano ieri ha seguito e letto il solito copione che oramai lo accompagna da quindici anni a questa parte. Il discorso di un vincitore. Che ricorda fiero il cammino percorso, concede onori ai compagni di strada e disegna i futuri scenari di gloria. Il Pifferaio celebra il proprio trionfo. Sogna a occhi aperti. Inscrive se stesso nella galleria degli eroi nazionali. Innalza il 1994 a data fondativa della storia della Patria, l'inizio della Liberazione. Non si è smentito e non ha deluso le attese. Del resto, tutto sembra andargli per il verso giusto e lui ne approfitta. Un discorso, se vogliamo, significativo, per quanto dice e per quel che tace. Le parole popolo e libertà ripetute decine, centinaia di volte, martellate come garanzie salvifiche. E mai una volta che sia una, invece, la parola uguaglianza. Ma il fulcro intorno al quale ha ruotato il discorso è la storia del Paese che il signor B. ha voluto narrare. Segno che gli è ben chiara l'importanza di un tema (la storia, appunto, come fondamento dell'identità) che tanti suoi avversari hanno invece dimenticato. La storia italiana per il caimano si identifica con la grande crociata del Popolo della Libertà contro la sinistra statalista, autoritaria e, in realtà, ancora comunista, con la falce e martello incisa nel cuore (questa è ancora l'idea che lui ha della sinistra). Di questa crociata lui è, naturalmente, il protagonista. Ma non manca il pantheon dei Padri: nomina Sturzo, cita De Gasperi, ricorda commosso (a beneficio di Fini e dei suoi) il grande Tatarella. Manca solo Gelli. In compenso evoca, implicitamente, il Gobetti della rivoluzione liberale. Non è il caso di inalberarsi. C'è piuttosto da riflettere sulla grande capacità di inventare la tradizione che la destra dimostra di avere. Ce n'è per tutti, man mano che il comizio procede. L'one man show è all'altezza della situazione. Chi conosce bene il cavaliere dice che le sue parole sono quelle che ci si aspetta da uno come lui. Enfatiche, popolari, da spot televisivo. E chi lo conosce bene dice anche che il suo intervento di apertura del congresso è una sommatoria di concetti già detti e ridetti. Sono le regole della tv, ripeti il messaggio all'infinito e vedrai che qualche risultato ci sarà. Da copione arrivano i ringraziamenti ai fedeli alleati: subito per Umberto Bossi («un onore averti con noi»), a ruota per Gianfranco Fini («anteponendo l'interesse dell'Italia a quello personale ha contribuito a scrivere questa pagina di storia»). Il primo resterà alleato per molti anni ancora, il secondo fa parte ormai del grande partito delle libertà berlusconiane. Non per caso, il Pifferaio di Arcore fa il nome di Pinuccio Tatarella, l'uomo che per primo capì che grazie a sua Emttenza Alleanza Nazionale avrebbe potuto viaggiare in mare aperto verso risultati insperati. Viva Tatarella, la cui figura assume ogni giorno che passa più rilevanza nel pantheon del PdL. Il signor B. dal palco racconta la sua «avventura entusiasmante e vittoriosa». «I sondaggi (queli veri) ci danno al 43,2%, inutile nascondere che noi intendiamo puntare al 51% e sappiamo come arrivarci, sono sicuro che ci arriveremo». E giù un oceano (telecomandati) di applausi, urla e cori da stadio. Tanto per far capire agli atri che il reuccio delle televisioni èsempre iù in sella al suo cavallo alato, pronto per entrare nella storia. Appunto, la storia con la s minuscola...
martedì 24 marzo 2009
il solito imbonitore (da due soldi)
Inutile sorprendersi ogni volta. Sgranare gli occhi, aprire al massimo i padiglioni auricolari, stare in tensione per carpire ogni qualsivoglia particolare durante un discorso del Pifferaio di Arcore mi sembra fatica inutile, sprecata. Energie gettate al vento. Come il tempo e l'attenzione. Tanto non c'è molta differenza tra un suo discorso alla Camera dei Deputati o sul predellino di un'autovettura o su quello di un treno ad alta velocità. Lui crede sempre di trovarsi nel suo studiolo di Cologno Monzese, a Mediaset, di fronte alle sue beneamate telecamere ad alta definizione (ora non c'è più bisogno della magica calza velata innanzi alla teleobiettivo), mentre a reti unificate parla ai suoi elettori, ai suoi amici. Il problema, con il caimano, è sempre lo stesso, e non è mai di facile soluzione (soprattutto per il centrosinistra). Lui annusa gli spiriti animali del Paese, li rielabora e li semplifica, ne tira fuori proposte che seguono sempre il medesimo percorso: sono clamorose e dirompenti all’inizio, vengono corrette e ridimensionate in corso d’opera, spesso spariscono nei cassetti e dalla memoria. Quella che rimane è però la prima impressione, di un uomo capace di recepire e rilanciare i bisogni primari del suo popolo anche se alla fine non dà loro una vera risposta. Così è anche per questa storia del cosiddetto "piano casa", che giorno dopo giorno si complica dopo una partenza tonante, e da ieri definitivamente ha smesso di interessare tutti gli alloggi (il 60 per cento del totale) che si trovano in condomini e nelle città: già una bella scrematura. L’impressione è la promessa di più verande per tutti (tra dubbi nella maggioranza, riserve del Quirinale e duro confronto con le Regioni) che verrà mantenuta in misura molto parziale e con effetti limitati sul rilancio dell’economia. Attenzione, però, perché nella campagna elettorale che si apre (e ancor di più dopo di essa) questi inciampi del governo finiranno paradossalmente per arricchire l’elenco berlusconiano delle cose che, da presidente del consiglio e con le attuali regole, non gli è stato possibile fare. Franceschini lo ha avvertito per primo. Adesso in tanti sentono l’odore di un pesante rilancio presidenzialista plebiscitario destinato, nello stesso tempo, a giustificare e a nascondere l’inerzia del governo davanti alla crisi economica. All’interno del cosmopolita mondo del Pifferaio di Arcore oggi si disegna questo scenario, che si aprirà già nel fine settimana con il congresso happening del PdL. È una prospettiva inquietante, anche perché potrebbe mettere il PD e tutte le opposizioni nella scomoda posizione del piano casa moltiplicato per dieci. Doversi opporre a un messaggio semplificato e orecchiabile per gli italiani, pur sapendo che la sua realizzazione non è affatto a portata di mano per chi lo lancia. Un pò come succede dopo aver ascoltato un mediocre imbonitore della tv che alla fine risulta essere un men che mediocre venditore di fumo (fortunatamente non pakistano...).
lunedì 23 marzo 2009
il sacco (berlusconiano) d'Italia
Ci risiamo. Il Cementificatore è tornato all'assalto. E come se non bastasse, ariecco lo scudo fiscale, quello che nel 2001 (secondo governo Berlusconi, con Tremonti in sella alla finanza creativa) consentì ai grandi evasori che avevano esportato i loro capitali, al nero nei paradisi fiscali, di farli rientrare al minimo di tassazione, con l'aliquota privilegiata del 2,5% e la garanzia che nessuno straccio di Procura, o di Guardia di Finanza, o di funzionario del Secit o dell'Agenzia delle Entrate, da allora in poi avrebbe potuto mettere becco sulle origini, i circuiti, la provenienza (lecita, illecita, mafiosa, frutto di malversazioni pubbliche o private, di tangenti o di estorsioni) e meno che mai avrebbero potuto pretendere nulla di più. Insomma, 77 miliardi depositati nelle banche svizzere e nelle cassette di sicurezza delle Cayman Island, Bahamas o Isole Vergini, di Vaduz, Monaco o del Liechtenstein, eccoli riapparire di colpo, bianchi e puliti, vergini che più vergini non si può, pronti ad essere riciclati con la benedizione del governo di allora, che come oggi era di centrodestra, con a capo gli stessi Berlusconi e Tremonti, Bossi e Fini, Calderoli e Maroni, Scaiola e Matteoli, con appena qualche cambio di seggiolino. Adesso che la crisi bussa alle porte ecco dunque riapparire, sotto nuove spoglie, gli stessi strumenti di allora: i condoni edilizi, le sanatorie ambientali, gli scudi fiscali, eccetera. Niente di nuovo sotto il sole. Non è che il governo a mutate circostanze stia rispondendo con armi diverse, più incisive e di tutt'altro impatto. Niente affatto. Nel 2001 non c'era la crisi ma si è andati giù sulla libertà di edificare ovunque e comunque, in omaggio a costruttori e cementieri, palazzinari e immobiliaristi assatanati nell'accaparramento di sempre nuove aree e nella creazione di un mercato immobiliare senza limiti, e per favorire governatori compiacenti che nelle varie regioni (la Sicilia come la Toscana) dovevano ripristinare il feeling con i loro grandi elettori in rappresentanza degli interessi di una pletora di abusivi. Sicché, anche se non si chiamava "piano casa", si è proceduto condonando e sanando l'insanabile, dando comunque segnali di impunità alle regioni e alle amministrazioni locali, e di non voler procedere con strumenti restrittivi nei confronti di chi aveva abusato e sventrato il Belpaese fin nelle aree a inedificabilità totale, dai litorali ai siti archeologici. Adesso si ripropone la stessa medicina. Come mai? E' chiaro, perché quando c'è la crisi c'è un solo mercato in cui la gente comune pensa di rifugiarsi: quello del mattone. Che nell'immaginario collettivo è anche quello che può far ripartire, embrionalmente, per quanto lentamente, un ciclo espansivo. Sarà ancora così, dopo la crisi dei mutui subprime ? Chissà. Di certo ci sono i soliti costruttori, i soliti cementieri, i soliti palazzinari, i soliti immobiliaristi, che continuano a premere sul governo, sapendo di trovarvi orecchie attente (quelle del Cementificatore) e leggi ad hoc, con il risultato che il nuovo "piano casa" si appresta ad accrescere fino a un terzo la colata di cemento che già intasa gli agglomerati urbani, andando a ricoprire senza freno e senza controllo altre aree di pregio, coste e crinali, in un delirio urbanistico senza più regole né tutele che porterà ad altri disastri annunciati. Il capitolo dello scudo fiscale è l'altra faccia della medaglia. Ed anche qui la balla degli investimenti è pret a porter, pronta da servire ai gonzi che ci vogliono credere. Si blatera di incentivi al rientro purché i soldi vadano alle aziende, alle quali evidentemente sono stati sottratti proprio per evadere il carico fiscale. Dunque l'ipotesi è surrettizia. Non si è stati capaci di combattere l'evasione fiscale (neanche il centrosinistra è riuscito a farlo fino in fondo) e adesso si ipotizza di consentire ai capitali evasi, e di nuovo esportati, di rientrare un'altra volta a mansalva, dietro la maschera del «vincolo all'investimento o alla sottoscrizione di particolari tipi di titoli pubblici». Anche questa volta con la garanzia non solo di aliquote di assoluto "privilegio" (nel 2001 da un iniziale 4% si è scesi sino al 2,5 con un gettito erariale di due miliardi sui 77 in parte rimpatriati (46) e in parte regolarizzati (31); ma soprattutto, come otto anni fa, con la promessa dell'intangibilità e della non indagabilità sulle origini dei patrimoni, su come si sono formati e accumulati all'estero, sulla loro veicolazione tramite società di comodo, intermediari, spicciafaccende, prestanome. Il Pifferaio di Arcore e il suo socio Tremonti sostengono che l'Unione Europea è d'accordo con loro. Ma ci sono molti distinguo nella compagine dei capi di Stato e di governo che si sono confrontati a Bruxelles: perché in altri Paesi l'evasione è molto più contenuta e severamente punita; perché ci sono realtà come la Svizzera che non accettano di essere messe nella black list dei paradisi fiscali; per le molte resistenze a forzare le maglie che regolano il segreto bancario. A differenza del lassismo e della contiguità (immorale e vergognosa) del governo del caimano.
domenica 22 marzo 2009
la Fiamma s'è spenta...
Non so voi, ma io proprio non riesco a commuovermi come fa Gianfranco Fini di fronte all'ultima flebile fiammella di AN che si sta spegnendo lentamente al termine del congresso romano. Non si squaglierà (come pomposamente titolava ieri in prima pagina l'occhialuto Vittorio Feltri su Libero) ma di certo da oggi la Fiamma non c'è più. L'ultimo congresso di Alleanza Nazionale si era aperto sulle note di "meno male che Silvio c'è"e il coordinatore Ignazio La Russa si era sentito in dovere di rispondere in via ufficiale: «Sarà l'Inno di Mameli ad aprire il congresso, cantato da un coro di voci bianche». Puro e duro insomma, nel segno di quel partito in grisaglia che Gianfranco Fini ha modellato a sua immagine e somiglianza. Tanto da aprire uno spazio a destra per gli italiani che ancora coltivano fiamme e fiammelle nel loro reliquiario personale. La Destra di Storace ringrazia, e ringraziano anche le piccole realtà neofasciste che nel corso di questi anni sono uscite dai sotterranei della storia e si sono fatte vedere in giro. A sua volta il presidentissimo Fini non può che salutare senza rimpianti gli ex camerati del MSI nel suo viaggio politico che porta fino a Strasburgo. Al Partito popolare europeo. Certo, la nostalgia c'è. Anche per l'antico ardimento perduto. Fini è politicamente obbligato a rassicurare i colonnelli: «Confluire nel Popolo delle libertà non significa che bisognerà dire signorsì». Dalla teoria alla pratica il passo sarà lungo (a mio avviso forse impossibile da percorrere), visto e considerato che il signore e padrone del Popolo delle libertà è un fisiologico amante della cultura aziendalista. In altre parole quando il Pifferaio di Arcore decide, si fa come dice lui. Un presidente, c'è solo un presidente che non ha bisogno del congresso di Forza Italia per stabilire la road map verso il PdL. Un PdL che, a occhio, lo eleggerà conducator per acclamazione. In parole povere il nuovo caudillo meneghino. Anche perché altri candidati all'orizzonte non se ne vedono. Nemmeno le forme. «Non saremo succubi di Forza Italia», spiega il presidente della Camera. Saranno un corpo e un'anima. Quest'ultima incarnata dal caimano, naturalmente. Del resto grazie al Pifferaio i giovani arditi di Almirante sono diventati importanti, più di quanto essi stessi avrebbero creduto. A riprova, l'incontro tra il presidentissimo Fini (attuale terza carica istituzionale della Repubblica) e gli ex camerati di una volta è una riunione di alti rappresentanti delle istituzioni e degli enti locali. C'è il ministro della Difesa Ignazio La Russa, il capogruppo dei senatori delle libertà Maurizio Gasparri, il ministro dei trasporti Altero Matteoli, il ministro per le politiche comunitarie Andrea Ronchi, il sindaco di Roma Gianni Alemanno. Nessuna donna, e questa è una vecchia abitudine (nonchè vizio). Da Fiuggi a Roma ci sono meno di 100 km (83 per la precisione): Fini e AN di strada ne hanno fatta molta di più. E sono pronti per il prossimo salto. Verso l'Europa. C'è un palco a forma di ponte alla Nuova Fiera di Roma, il ponte verso il PdL, il ponte verso Strasburgo. Ma non finisce sotto un ponte AN, semplicemente smette di esistere per volontà superiore. Quella del caimano e del suo delfino Fini. Il reggente Ignazio La Russa parla ai 1.800 delegati in apertura dell'assise e prima degli altri big della destra. Ma l'intervento più atteso è senz'altro quello di Gianfranco Fini, nella tarda mattinata di questa assolata domenica di inizio primavera. Fini non si candida per i prossimi anni ad una infruttuosa guerriglia di contrapposizione con l'incontestato leader del partito che nasce: il premier, per chi ancora non l'avesse capito. Il perchè è semplice: molto si può rimproverare al giovane delfino di Almirante ma non il fatto che sia un politico di razza e di lunghe vedute. Una destra formalmente elegante, di governo, questo vuole il presidentissimo, questo otterrà dal suo popolo. Così come a Fiuggi chiese ai missini di «lasciare la casa del padre con la certezza di non farvi più ritorno», Fini sprona la destra ad andare verso il PdL senza difendere nicchie minoritarie, ma allargando, includendo, avvicinando anche chi è estraneo al progetto con proposte ed idee. Altro che corrente di AN nel Popolo delle Libertà. «Non preoccupiamoci dell'identità della destra, ma dell'Italia dei prossimi 20-30 anni», è stato del resto il messaggio della vigilia al partito, dal bianco salotto di "Porta a Porta". Un Paese conservatore, di destra, dove i treni arrivano in orario e il conflitto sociale non c'è più. In fondo non è che la realizzazione, quasi vent'anni dopo, di quell'andare oltre il Polo prospettato da Pinuccio Tatarella. E ancora prima, azzarderà qualcuno al congresso, dal leader missino Giorgio Almirante quando lanciò la Destra nazionale in doppiopetto. Perché il pantheon di AN verso il PdL resta questo: Almirante, Tatarella, Fini. Il resto è bene conservarlo gelosamente nel cassettone di casa. «Probabilmente mi commuoverò (e così infatti è stato), c'è sempre un cuore oltre al cervello», confessa Fini prima dell'ultimo soffio sulla fiammellina modello Italgas di AN. Tanto quella vera è a Predappio e nessuno può impedire ai futuri elettori del PdL di andarci in pellegrinaggio ogni anno. Perché oltre al cervello c'è anche il cuore, l'ha detto pure Fini. E al cuore, si sa, non si comanda. Invece al Pifferaio si obbedisce...
sabato 21 marzo 2009
il guerrigliero bonsai
Era da un pò di tempo che non mi occupavo delle sortite (a volte tragicomiche) del ministro bonsai Renato Brunetta. Ha atteso il momento giusto (per lui ovviamente) e ha deciso di scendere in campo a proposito della manifestazione dell'Onda e dei tafferugli all'Università di Roma. Prima li ha definiti dei «guerriglieri» («e come tali saranno trattati»), poi ha precisato che non arrivano nemmeno alla dignità dei guerriglieri, ma che sono solo dei «ragazzotti in cerca di sensazioni forti». Cornuti e mazziati gli studenti dell’Onda. Anzi, prima mazziati e poi cornuti. Qualche giorno fa i manganelli dei celerini, ora le parole del ministro Brunetta. Il messaggio è più o meno lo stesso: d’ora in poi tolleranza zero contro chiunque abbia intenzione di protestare. E se sono studenti che rivendicano il diritto allo studio e si battono contro i tagli all’istruzione, allora si può andare giù duro. Si può sequestrarli per ore nella prima università di Roma, la più grande d’Europa, caricarli, costringendoli a non farli uscire, reprimendo a suon di legnate il loro diritto a scioperare. Poi, come se non bastasse, la mattina dopo arriva il ministro della Pubblica amministrazione e, davanti ai giornalisti, comincia col suo show. Prima un classico: la caccia al fannullone-assenteista-malato immaginario della scuola. A seguire l’invettiva contro il movimento studentesco. Alla domanda sulla protesta che monta, si aggiusta la giacchetta e si lancia a briglie sciolte: «Non vedo molta protesta, vedo ogni tanto delle azioni di guerriglia da parte dell'associazione denominata Onda. Ma vedo che nelle votazioni degli organi di rappresentanza degli studenti l’Onda non esiste. Sono un democratico e quindi credo molto più al voto che alle azioni di guerriglia». L’Onda «non l’ho vista nelle recenti elezioni degli studenti quindi sono dei guerriglieri e verranno trattati come guerriglieri». Accanto gli siede la collega Gelmini che cerca di minimizzare: «Lo sapete com'è fatto il ministro Brunetta: a volte usa toni forti e provocatori...». «Eh no», rispondono dal coordinamento dei collettivi della Sapienza «le dichiarazioni sono gravissime e non sono frutto di una battuta detta a caso. C’è un preciso disegno politico che vuole azzerare il dissenso, annientare chi non la pensa come loro». I ragazzi dell’Onda ci sono abituati. Fu Alemanno, nel gennaio scorso, a cominciare con questo processo di criminalizzazione del movimento. «La Sapienza è tenuta in ostaggio da 300 piccoli criminali dei quali dobbiamo liberarci», tuonò all'epoca il sindaco di Roma. L’ordine è stato eseguito mercoledì, impedendogli di scendere in piazza proprio nel giorno dello sciopero della scuola, università e ricerca, impugnando così il protocollo anti-corteo fresco di approvazione. «Una provocazione», ripetono gli studenti «a cui segue un’altra provocazione, quella del ministro Brunetta». «Il nostro è un movimento pacifico, sono il governo e la polizia che stanno cercando di creare uno stato di guerriglia». L’unione degli studenti chiede invece le dimissioni «immediate» e le scuse di Brunetta perché un ministro della Repubblica «non dovrebbe mai permettersi di definire dei giovani che esprimono il loro pensiero come dei "guerriglieri" da trattare come tali». La sua «è una dichiarazione degna dei peggiori regimi sudamericani, dove gli studenti sono equiparati a terroristi». Ricordando che già il Pifferaio di Arcore, in autunno, «aveva provato a usare metodi repressivi, invocando la polizia nelle scuole pur di reprimere la protesta. Non ci lasceremo intimidire». Al fianco dei ragazzi scende la politica. Dall’estrema sinistra all’Italia dei Valori è tutta una condanna. Con Brunetta si schiera invece Azione universitaria. «È stato fin troppo generoso. I collettivi nelle università vorrebbero giocare ai guerriglieri, ma sono solo dei teppistelli ignorati dalla maggioranza della popolazione studentesca», sentenzia Giovanni Donzelli. Curiose affermazioni da parte del segretario nazionale di una compagine studentesca che fa capo ad AN a cui è stato trovato, non più di quattro giorni fa in un armadietto custodito nell’aula da loro autogestita all’università Roma Tre, un vero e proprio arsenale nazifascista: spranghe, bastoni, mazze e materiale propagandistico firmato con svastiche e celtiche. Come fiancheggiatori del guerrigliero bonsai non c'è male mi sembra...
giovedì 19 marzo 2009
...e lo chiamano popolo delle libertà!
Francamente non volevo tornare a parlare del Pifferaio di Arcore e del suo partito di plastica: ma a volte è più forte di me, della mia stessa volontà. Non ci riesco. Basta leggere un articolo di giornale che parla della lettera dei 101 dissidenti e subito mi viene da scrivere. Diciamo la verità: è meglio che ci sia sul serio un pò di libertà, in un partito chiamato Popolo delle Libertà. La giornata di ieri ha offerto squarci interessanti di novità, in un panorama che sembrava, da mesi, appassionare solo per le liti interne al PD. Ora il Partito Democratico se ne sta tranquillo, determinato, finalmente confortato dai sondaggi, sulla strada del recupero di un pezzo del suo elettorato tradizionale. Sembra poco. Invece (paradosso solo apparente) è questa ritrovata fiducia che consente a Dario Franceschini operazioni di movimento come quella sul federalismo, impensabili quando il partito era in perenne lite con se stesso. Le acque ora si muovono anche nel PdL, e fra PdL e Lega: la lettera dei deputati al caimano sul decreto sicurezza segnala, sul merito, un sussulto di senso civico da apprezzare senza riserve e senza strumentalizzazioni. Ma non sfugge la coincidenza con i prossimi "congressi" della destra. Si intuisce che il nuovo partito sarà troppo grande perché al proprio interno non si accendano focolai di sano conflitto politico, come era impensabile in Forza Italia, e come era ormai inutile dentro AN. Sarebbe del tutto arbitrario gonfiare di significati l’episodio, però è impossibile non notare che la posizione dei firmatari coincide con quella del presidente della Camera dei Deputati su due punti non secondari: il merito, cioè lo stravolgimento del ruolo e dei doveri dei medici anche verso gli immigrati, e l’apposizione della questione di fiducia proprio a Montecitorio. Che poi essi siano sia deputati di AN che di Forza Italia fa intravedere (non vorrei essere troppo ottimista) un futuro in cui i giochi dentro al PdL saranno un po’ mischiati, e non solo sempre necessariamente in favore della monarchia berlusconiana. L’impressione è perfino rafforzata dalla contemporanea lettera del Pifferaio di Arcore ai senatori del Popolo delle Libertà (e che libertà!) sul testamento biologico. A mio modesto avviso, la lettera è un capolavoro di ipocrisia ma anche (per usare un intercalare di qualcuno che il cavaliere conosceva bene) un richiamo all’ordine. Ma che il caimano debba mettere per iscritto un richiamo all’ordine, volendo anche questa è una notizia. Da prima pagina.
martedì 17 marzo 2009
un gradito ritorno (almeno per me)
Debbo confessare che attendevo con impazienza il ritorno in video dell'ex presidente del Consiglio (e vero spauracchio del Pifferaio di Arcore) Romano Prodi, ospite domenica sera da Fabio Fazio nel programma Chetempochefa su RAITRE (http://www.chetempochefa.rai.it/TE_videoteca/1,10916,1096505,00.html). Il ritorno di Romano Prodi sulla scena mediatica è, a mio modesto avviso, un fatto largamente positivo per il PD, anche perché segnala un più generale ritorno di attenzione. Nel Prodi che si reiscrive e dà a Franceschini attestati di fiducia possono identificarsi molti altri simpatizzanti democratici che vivono le medesime sensazioni. Al di là delle sue responsabilità, Veltroni era diventato negli ultimi tempi un catalizzatore negativo, soprattutto per ciò che rappresentava agli occhi di una parte del suo vecchio partito (i DS e non solo i dalemiani) e dei suoi vecchi compagni di passione ulivista (Prodi e i prodiani, per l'appunto). Franceschini è da questo punto di vista vergine, ha già offerto al partito un terreno comune per battersi nelle prossime sfide elettorali . Quel che resta da vedere (e anche qui i segnali positivi ci sono) è se tra gli elettori democratici si stia riattivando lo stesso meccanismo di fiducia che si riscontra nel corpo del PD. Guardando alla prospettiva, vale la pena di tornare su quella che sarebbe altrimenti una comprensibile ma limitata rivendicazione personale, quando Romano Prodi ricorda (con una malcelata punta di rammarico) motivi e modi della crisi del proprio governo. Non fa mistero della causa principale del fallimento, attribuiendone la responsabilità alla scelta veltroniana di "correre da soli". L’impressione è che Prodi, nella ricostruzione storica, scambi le cause con gli effetti. Non è l’unico, e questo autorizza alcuni commentatori ad ipotizzare un PD neo-ulivista con l’intenzione di tornare sulla strada delle larghissime coalizioni per battere la destra. Quando l’ex presidente del consiglio cita Mastella come il birillo che Veltroni fece vacillare per primo, mettendo a repentaglio l’intera maggioranza di allora, cita appunto la causa della crisi del suo centrosinistra, non l’effetto dell’avvento veltroniano. Furono appunto i Mastella, i Pecoraro Scanio, i Diliberto, i Di Pietro, e il dover star dietro a tutti questi personalismi in una legislatura che al Senato era appesa a meno di due voti a incrinare senza speranza l’efficacia del lavoro di governo e il rapporto dell’Unione con gli italiani. Quando arrivarono il PD e Veltroni, questo danno era già stato fatto, aveva già portato il centrosinistra persino sotto la soglia dei suoi attuali consensi, e i dirigenti democratici che salivano in processione al Campidoglio speravano casomai di porre rimedio a questo dramma. Una corretta ricostruzione storica è essenziale perché certi sbagli non si ripetano. Il tema delle alleanze non si pone ora in vista delle Europee, che sono iper-proporzionaliste. Per quando si porrà, più che una improbabile nostalgia unionista vale il primissimo impegno assunto da Franceschini: a quel tipo di coalizione unionista non si torna. Se l’espressione disturba si può evitare di ritirare in ballo la vocazione maggioritaria. Ma sulla validità di certi alleati hanno detto la loro gli elettori un anno fa, e i flussi in allontanamento dal PD (voti che Franceschini sta cercando di recuperare per un partito riformista, e non per un centrosinistra generico) non testimoniano affatto di una nostalgia unionista. Ma comunque, a parte tutto, personalmente ha fatto piacere rivedere il Professore in tv. E non mi dispiacerebbe un suo più coinvolgente impegno politico nel PD, non limitandosi al solo rinnovo della tessera di partito.
domenica 15 marzo 2009
segnali di guarigione
Il titolo di questo mio post è ispirato alla personale sensazione di leggero miglioramento dello stato di salute del Partito Democratico. Da quando il suo nuovo segretario Dario Franceschini ha iniziato una sorta di cura drastica a base di proteine politiche, distillate sotto forma di uscite mediatiche (ha iniziato da Fazio su RaiTre), richieste ad alta voce al governo del caimano e botta e risposta con lo stesso "clerico-fascista" che lo aveva accusato di catto-comunismo, la situazione mi sembra leggermente migliorata. Di conseguenza, ad oggi, preso atto degli avvenimenti prima citati, qual è lo stato di salute del PD? Malato con chiari sintomi di miglioramento. E qual è lo stato di salute della maggioranza di governo? Gonfia di vitamine e di voti ma con frequenti episodi di afasia politica.Contro la crisi economica, il Pifferaio di Arcore continua ad urlare in sfavore di vento. Il suo messaggio di ottimismo forzato non arriva, anzi ogni giorno è smentito dai fatti e dalle cifre. E rischia di apparire sospetto. L’azione di governo è, da tempo, ridotta al lumicino. S’è perso il ricordo di grandi e controverse riforme annunciate: dalla giustizia alla scuola, passando per le pensioni. Dovevano ribaltare l’Italia, si sono spente o arenate negli uffici. In buona sostanza è stato declassato anche quel fantomatico e fatidico piano casa che per un po’ aveva fatto vibrare i cuori dei direttori del Foglio e del Giornale. Oramai la durata media di una proposta del governo non supera i tre-quattro giorni. Sarà così inevitabilmente anche per la sortita di Tremonti sui prefetti trasformati in guardiani del credito. Bossi l’ha stroncata per odio atavico verso gli eredi dei podestà, il PD l’ha facilmente smontata: il banale buonsenso di chi conosce banche e prefetture farà il resto. Preoccupa che proprio in questo momento il superministro dell’economia trovi il modo e il tempo di protrarre la propria guerra privata contro Draghi. Viceversa, le proposte di Franceschini tengono ancora banco. Più che merito suo, è che la crisi davvero morde e non si fa abbellire dai lifting mediatici. Nonostante le insolenze scaraventate sul PD nei primi giorni, un problema di precari da tutelare con strumenti d’emergenza doveva esserci, se l’unico provvedimento adottato dal consiglio dei ministri dell'altro ieri è stato il parzialissimo aumento del sussidio per i lavoratori a progetto. Puzza tutto di elettoralismo, si dice. Non è puzza. Semplicemente è chiaro quale sarà l’agenda fino alle Europee. Il Partito Democratico la maneggia bene, le opposizioni più strillate non sanno interpretarla (e appaiono in affanno), il governo sperimenta la verità di un vecchio detto: non si può cantare e portare la croce. Questo è il momento della croce. E pure bella pesante.
una risata seppellirà questa crisi?
La domanda credo induca ad un cauto ottimismo. Certo, chiunque di noi vorrebbe che la crisi di questo frangente venisse spazzata via da una serie di risate provocate dai maggiori comici attualmente in voga sulle tv nazionali. Giusto e salutare, in questi tempi difficili, reagire alle preoccupazioni. Combattere si deve sempre. Resta però da vedere come. Ed ecco quella brava mamma della nostra tv fornirci il reagente naturale della comicità. Così se Sky s’infila nella manica l’asso pigliatutto Fiorello, la televisione generalista non dà requie. Tanto da far trainare, come sappiamo, trasmissioni impegnate quali Ballarò dalle acutezze di Maurizio Crozza, mentre programmi che affrontano questioni di fondo come Annozero si affidano allla comicità intinta nel curaro di Sabina Guzzanti e non rinunciano a chiudersi con le vignette satiriche (quasi sempre spassose) di Vauro. Comicità e umorismo sono, d’altra parte, necessarie categorie della realtà. Non vi si sarebbero dedicati, altrimenti, un filosofo come Henri Louis Bergson («Il riso», 1900) e uno scrittore e drammaturgo come Luigi Pirandello che, con un saggio del 1908, traccia la distinzione tra comico ("avvertimento del contrario") e umorismo ("sentimento del contrario"). Così, se una signora anziana ha in testa un cappello ridicolo, pure se dentro di sé porta un dramma, una delusione inesorabile, un tormento senza pace, noi ne ridiamo perché incapaci di resistere al contrario che in quel cappello la rappresenta. Con tutte le tragedie che lo hanno passato da parte a parte, il Novecento non solo non si è negato il riso, ma lo ha elevato a bisogno naturale dell’animo umano. Questo grazie anche a interpreti di prima grandezza, a cominciare da Ettore Petrolini (1884-1936), il grande attore e autore romano cantore di Gastone, sulfureo osservatore di tempi per un verso rabbuiati dal fascismo ma per l’altro, proprio perciò, esposti alla satira come pochi altri. Poi, sulla pagina scritta, Giovanni Mosca, a seguire il grande Giovannino Guareschi (cui non si sarà mai abbastanza riconoscenti per averci dato Peppone e don Camillo) e, ancora, Achille Campanile, scrittore, giornalista, commediografo ma, soprattutto, impareggiabile umorista («Dove vai?». «All’Arcivescovado. E tu?» «All’Arcivescovengo»). Quindi Marcello Marchesi e, sulle tavole del palcoscenico del dopoguerra, Carlo Dapporto, Macario e Tino Scotti tra gli altri. Senza naturalmente dimenticare l’insuperato (e insuperabile) principe della risata, il principe De Curtis, in arte Totò. È stato un secolo di tragedie il Novecento che però, in virtù anche dello sviluppo della stampa, grazie al teatro, al cinema, alla prima televisione (la migliore), ha cercato la luce del ridere. Mentre questi anni Zero del nuovo secolo continuano a inseguire la risata fine a se stessa. Divertirsi, sghignazzare e farlo a prescindere, tramite quella maestra catodica che si chiama tv, dove si passa dal pianto al riso con un cinismo mai disinnescato. La ricerca del comico, "avvertimento del contrario", è oggi ininterrotta e, per ciò stesso, deprimente. Un continuo invito a dire: ma cosa c’è da ridere? Ben diverso quel "sentimento del contrario" che è l’umorismo. A proposito del quale il raffinato storico che è stato Carlo Maria Cipolla, nell’introduzione a un suo divertissement, «Allegri ma non troppo» (Il Mulino, 2008), ci ha raccontato di un gentiluomo francese che, salendo il patibolo, incespicò in un gradino e, rivolto alle guardie, esclamò: «Dicono che inciampare porti sfortuna». Battuta che, secondo Cipolla, avrebbe dovuto evitargli la mannaia. Ma nessuno sul palco, possedendo il dono dell’umorismo, ne apprezzò la battuta. E la testa del gentiluomo dovette rinunciare al proprio corpo. Malheuresement.
sabato 14 marzo 2009
le furbizie (senza vergogna) dei soliti scrocconi
Raramente su questo blog ho scritto dei post su televisione e personaggi televisivi, fatte alcune dovute eccezioni come ad esempio pezzi su Fiorello, su Matrix, su Striscia La Notizia, su La Storia siamo noi, su Bruno Vespa o su Michele Santoro piuttosto che su Giovanni Floris (a pensarci bene, però, qualcosa ho scritto sulla tv...). I motivi caratterizzanti di questa mia parsimonia in materia televisiva sono fondamentalmente due: il mio poco tempo libero da dedicare al tubo catodico (generalmemte cerco di impiegare al meglio il tempo a disposizione) e la mia autostima che fa presente come il sottoscritto non abbia le qualità critiche ed espositive (in materia di tv) di un Aldo Grasso (il principe dei critici televisivi) o di un Marco Molendini per non parlare poi di un Antonio Dipollina. Detto ciò, questa volta voglio spezzare una lancia in favore di un programma che, lo confesso, in passato seguivo con assiduità quasi maniacale: sto parlando de le Iene. Uno dei servizi che più mi ha colpito nell'ultima puntata è stato quello di Sabrina Nobile (http://www.video.mediaset.it/mplayer.html?sito=iene&data=2009/03/13&id=5152&from=iene) dedicato alle solite furbizie degli uomini politici. Se questa non fosse una Repubblica delle Banane stamani sul tavolo delle forze dell’ordine e della magistratura ci dovrebbero essere i fascicoli per avviare almeno una piccola indagine conoscitiva dopo i fatti denunciati dal programma di Italia1, le Iene appunto, ultimo team di denuncia (insieme a Striscia la Notizia) che opera ormai in questo disastrato Paese.
Ultimo scandalo in ordine di apparizione, l’episodio che ha visto alla ribalta una quarantina di auto blu d’ordinanza uscite, si fa per dire, dalla Presidenza del consiglio, dalla Camera, dal Senato e dalla Regione Lazio, insomma dal meglio della nostra politica, e filmate mentre sfilano ordinatamente davanti alla sede del Coni, sempre a Roma e sempre vicino allo stadio Olimpico.
Auto importanti, non utilitarie, da cui scendevano autisti vari, incaricati dal capo (ad occhio qualche deputato, qualche senatore, qualche ministro o aspirante tale, qualche boss della Regione) di andare a recuperare i biglietti gratis per la tribuna d’onore per la partita di Champions Roma-Arsenal. Ecco, pensate un po’, quanto possono essere venuti a costare allo Stato, cioè a noi che paghiamo le tasse, quei biglietti gratis. Oltre quaranta auto blu in giro per Roma, oltre quaranta serbatoi che si svuotano lentamente, oltre quaranta autisti impegnati in un lavoro che chissà se dovevano svolgere. Una di quelle mansioni in cui sono impegnati talvolta e che, quando scoperte, vanno a finire sui giornali: come quando gli autisti con l’auto blu di rappresentanza pagata dai contribuenti italiani, devono accompagnare il bambino di uno della Casta a scuola, o come quando devono menare la moglie di uno della solita Casta a fare la spesa. Una vera vergogna. Le Iene, benemerite, denunciano e continueranno a denunciare queste schifezze. Qualcuno darà seguito alle loro richieste di aria nuova? Il sottoscritto se lo augura...
Ultimo scandalo in ordine di apparizione, l’episodio che ha visto alla ribalta una quarantina di auto blu d’ordinanza uscite, si fa per dire, dalla Presidenza del consiglio, dalla Camera, dal Senato e dalla Regione Lazio, insomma dal meglio della nostra politica, e filmate mentre sfilano ordinatamente davanti alla sede del Coni, sempre a Roma e sempre vicino allo stadio Olimpico.
Auto importanti, non utilitarie, da cui scendevano autisti vari, incaricati dal capo (ad occhio qualche deputato, qualche senatore, qualche ministro o aspirante tale, qualche boss della Regione) di andare a recuperare i biglietti gratis per la tribuna d’onore per la partita di Champions Roma-Arsenal. Ecco, pensate un po’, quanto possono essere venuti a costare allo Stato, cioè a noi che paghiamo le tasse, quei biglietti gratis. Oltre quaranta auto blu in giro per Roma, oltre quaranta serbatoi che si svuotano lentamente, oltre quaranta autisti impegnati in un lavoro che chissà se dovevano svolgere. Una di quelle mansioni in cui sono impegnati talvolta e che, quando scoperte, vanno a finire sui giornali: come quando gli autisti con l’auto blu di rappresentanza pagata dai contribuenti italiani, devono accompagnare il bambino di uno della Casta a scuola, o come quando devono menare la moglie di uno della solita Casta a fare la spesa. Una vera vergogna. Le Iene, benemerite, denunciano e continueranno a denunciare queste schifezze. Qualcuno darà seguito alle loro richieste di aria nuova? Il sottoscritto se lo augura...
giovedì 12 marzo 2009
ma in quale Paese viviamo?
La domanda nasce spontanea e mi sembra anche alquanto retorica visti i risultati dell'uscita del segretario del PD Dario Franceschini sulla possibilità (nemmeno fossimo nella foresta di Sherwood) di togliere una tantum ai ricchi per dare (sempre una tantum) ai poveri. Ma l'idea di togliere ai ricchi per dare ai poveri è talmente antica, semplice ed evocatrice degli eroi delle fiabe da risultare intollerabile per gli alchimisti della finanza creativa. Anzi, a mio modo di vedere, è addirittura irricevibile (evidentemente) per i miliardari e gli aspiranti milionari di governo, sollecitati ad una solidarietà che sì, certo, dovrebbe essere spontanea ma quando in modo così vistoso latita si può anche chiamare all'appello. Provarci, almeno. Qui nella foresta di Sherwood il buio è fitto. Il re, ammesso che ne esista uno, è alle Crociate. Al castello l'ipotesi che si possa tassare chi ha molto per dare a chi ha molto poco sembra un ridicolo rovesciamento della realtà: provocatorio, scandaloso e pure eversivo. La norma è il contrario. La legge è all'opposto. Chi ha molto se lo tiene e, anzi, pretende di più. Non è un caso che la proposta di Dario Franceschini piaccia a Bossi divenuto ormai il paladino, al Nord, dell'ex ceto medio scivolato in basso e di larga parte di quella che un tempo si chiamava la classe operaia. Conosce bene il suo elettorato, Bossi. Conosce il Paese reale, almeno una parte geografica ben precisa. Diversamente dai magnati e dalle star televisive conosce l'imbarbarimento e la rabbia che derivano dal bisogno. Per questo è d'accordo con Franceschini: bisogna tornare da dove ci si è allontanati, bisogna stare nelle cose della vita, sentire la voce del Paese che chiama. Persino Internet è un lusso per milioni di persone, certo, ma è già una finestra da cui affacciarsi in mancanza di scarpe per camminare. Allora fate un giro, andate a vedere cosa fa chi non ce la fa. Proliferano i luoghi di scambio, si torna al baratto. Low cost, no logo. Come si vive nel nostro Paese? Non bene, credo. Molti si tengono in equilibrio (precario) sul filo sospeso nel vuoto della paura della crisi irreversibile. Molti cercano di sopravvivere, come sopravvivono in tanti in tutto il mondo. E' una sopravvivenza globale. Molti rinunciano. A tutto o quasi. Rinunciano a fare figli ad esempio. Non sto parlando di chi non ha niente. Parlo di chi aveva qualcosa ed ora non lo ha più. Una povertà senza rete: sussidi macchinosissimi, social card ancora oggi arrivata a meno della metà di chi ne avrebbe diritto. Quasi due milioni di bambini sotto gli 11 anni in stato di indigenza. Cifre da quarto mondo, da vergogna. I più poveri, intanto, continuano a sbarcare qui in cerca di un Eldorado. Che oramai non esiste più. E questo è il Paese che è diventato, inevitabilmente, l'ombra di se stesso. Che tristezza!
lunedì 9 marzo 2009
la social card fantasma & i berlusconizzati
Non preoccupatevi, cari lettori: non voglio tornare a farvi una filippica sulla social card fortemente dal duo B & T e miseramente naufraugata nel desìo di migliaia di pensionati che sono rimasti letteralmente a bocca asciutta. E più incazzati di prima. No, questa volta voglio parlarvi di un botta e risposta che ho avuto ieri sul forum di OKNOtizie (stranota community di bloggers dove si votano i post in base al gradimento e al tenore di quanto scritto). Il fatto è questo. Ieri mattina pubblico su questo blog il post dal titolo "il grande simulatore" e lo invio anche a OKNOtizie. Non so come, non so perchè ma per ben tre ore di seguito il mio pezzo rimane nella prima pagina delle notizie. Riceve più di 100 voti, più di 1.000 ingressi registrati da ShinyStat tra le ore 10,00 (nel momento in cui è stato pubblicato su OK) e le ore 14,00 e 38 commenti nella community. Ed ecco il punto: tra i commentatori di OK ce n'è stato uno (davvero maleducato nella parte finale) che mi ha letteralmente massacrato con i suoi stornelli berlusconiani dedicati alla social card e alla grande opera meritoria voluta dai compagni di merende B & T. Ecco un estratto integrale di un suo commento sul tema della social card da me toccato nella discussione sul forum: "Ormai la lista dei "no" dei comunisti è diventata impressionante e perfino ridicola nella sua monotona cadenza. Dai tanti "no" di questa divertente collezione ne scelgo solo due che mi sembra abbastanza rappresentativi: il no alla social card e quello all'innalzamento dell'età pensionabile. Per la social card ripeto ciò che ho scritto altre volte. Questa carta prevede 40 euro mensili in denaro contante e uno sconto del 10% sugli alimenti nei centri convenzionati. Fanno, ad occhio e croce, altri 20 euro per una spesa mensile di 200 euro ( ho messo il minimo...). A queste agevolazioni vanno aggiunte quelle di molti Comuni che si stanno attrezzando per caricare sulla carta un bonus supplementare di 20-25 euro ed il costo di un abbonamento mensile filoviario di 25 euro ( presunti). Totale ( per difetto !):100 euro mensili, non malissimo per un pensionato a 5-600 euro al mese. Orbene, non sono stati i comunisti capaci di convincere qualche pensionato, frastornato dalla campagna diffamatoria di questi gentiluomini, a rinunziare sdegnosamente (sic !!!) a questi 100 euro ? Meno male che molti altri pensionati si sono ricreduti e si sono precipitati a richiedere la card, altrimenti sarebbe stato proprio un bel servizio ... Per l'altro no, proprio l'altro giorno la UE ci ha chiesto di innalzare l'età pensionabile per uomini e donne. Naturalmente c'è stato subito il fulmineo no dei sinistri per i quali la UE è buona solo quando ci avverte che stiamo sfondando il 3% del rapporto deficit/pil ma non lo è quando dobbiamo stare alle direttive riguardanti l'età pensionabile. Tanto è vero che in altro post dicevo (non troppo scherzosamente) : "Ed ora che facciamo ? Ci mandiamo Epifani a dire no ? " !!! Ormai Epifani è diventato il "NO-men" della situazione, il contrario di "YES-men" di JIM CARREY ( sapete, quell'attore che fa le smorfie..). Che il suo sindacato ( di Epifani non di Jim Carrey ...) facesse solo politica è notorio ma che arrivasse al ridicolo non era previsto !!! scritto da aldo30 il 08 mar 09, 13:05:12. Tralascio, per non tediare il lettore, il mio botta e risposta con questo fantomatico Aldo30; quello che volevo sottolineare era l'acrimonia pseudo politica usata in quantità industriale dal tizio, chiaramente censurato dagli altri utenti di OKNOtizie (che infatti l'hanno subissato di NO ogni qualvolta esprimeva un suo farneticante commento) e che alla fine mi ha indotto a tornarci su per spiegare, se i lettori avranno la pazienza di seguirmi in questo mio post, come stanno in realtà le cose circa la social card. Come si ricorderà, lo scorso autunno il duo formato dal Gatto & la Volpe aveva strombazzato ai quattro venti la ricettina (nient’altro che una pezzetta calda, sia chiaro, ma meglio di niente…) per cercare di arrestare il progressivo impoverimento di larghi strati della popolazione italiana. Come? Ma con la famigerata social card. Ben 40 (quaranta) euro al mese per i piu’ poveri tra i poveri. Ma come è andata a finire? E’ andata a finire che 200mila persone attendono ancora di veder caricata la propria carta acquisti con i 120 euro dei mesi di ottobre, novembre e dicembre. Inoltre, sarebbero tanti anche coloro che hanno chiesto e ottenuto la social card a partire dal 1° gennaio 2009 e ai quali il Governo aveva garantito pubblicamente il riconoscimento degli arretrati. «Ma ad oggi - denunciano le Acli - nessuno ha ottenuto i 120 euro, e della proroga promessa non v’è traccia». Il Governo del Pifferaio di Arcore aveva fissato una prima scadenza al 31 dicembre 2008 per concedere, a chi avesse presentato la domanda entro quella data, la ricarica retroattiva dei mesi di ottobre, novembre e dicembre: 40 euro al mese, 120 euro in tutto. Di fronte al ritardo con cui era partita la macchina organizzativa (oggettivamente piu’ lenta e complicata di uno spot televisivo) e alla complessità oggettiva delle operazioni, le Acli avevano chiesto di spostare la scadenza al 28 febbraio. Il Governo aveva accolto la richiesta annunciando più volte pubblicamente la predisposizione di un decreto per la concessione di 2 mesi di proroga. Ma «la data del 28 febbraio è passata è il decreto non c’è stato - spiegano le Acli - e i 120 euro promessi non sono stati mai caricati sulle carte di circa 200mila persone che restano senza soldi e senza risposte». Che fine ha fatto il decreto? E ancora: sempre il Governo del Pifferaio aveva ipotizzato inizialmente una platea di beneficiari della social card pari a 1 milione e 300mila cittadini. E aveva stabilito per questo (adottando un condivisibile criterio selettivo, riconoscono le Acli) una serie rigorosa di requisiti tra cui le due principali: reddito Isee inferiore ai 6000 euro e l'età del richiedente. Ma le carte acquisti finora distribuite sono state tuttavia solo 560mila, meno della metà del previsto. E i dati a disposizione del Caf delle Acli dimostrano che il 40% di coloro che avrebbero diritto alla carta, secondo il requisito del reddito, ne rimangono esclusi per via dell’età (hanno meno di 65 anni). La proposta avanzata dal presidente delle Acli, Andrea Olivero è di abolire i requisiti anagrafici per l’accesso alla social card, perchè si può essere poveri a 60 anni così come a 65, con figli di 3 anni piuttosto che di 5. Il requisito dell’età è quello meno comprensibile e giustificabile. Anche io sono d'accordo. Abolendolo si rimmarrebbe comunque entro le previsioni di spesa ipotizzate dal Governo del Pifferaio. La risposta del Governo per ora non è pervenuta. Bisogna però ricordare che quando si trattava di fare un Lodo Alfano per salvare il caimano dalla galera o un decreto salva Rete4 per tutelare gli interessi economico-propagandistici del padrone (sempre del Pifferaio si tratta), Parlamento e Consiglio dei Ministri facevano le notti in bianco e in 2 o 3 giorni risolvevano il tutto: Viceversa, quando ad essere in gioco sono le misere vite di centinaia di migliaia di poveri e anonimi pensionati, questi signoroni ricchi e bugiardi se ne strafottono! Come mai questo strano modo di comportarsi? A porsi questa inquietante domanda sono le Acli e tutti i poveri pensionati poveri e ingannati (e fortunatamente non berlusconizzati). Mentre, credo, il famoso tizio di OKNOtizie (Aldo30) nemmeno ci pensa a porsi un interrogativo del genere. Anche perchè verrebbe immediatamente radiato dall'albo dei berlusconizzati. Sai che bella figura...
domenica 8 marzo 2009
l'Ovo (marcio) di Dell'Utri
Chissà come ci sarà rimasto il suo grande amico ed anfitrione da quattro soldi (si fa per dire naturalmente) ma proprietario dell'impero televisivo commerciale. In effetti, immagino, il signor B. non sarà stato granchè contento dell'Ovo andato a male. quello tanto anelato e fortemente voluto da Marcello Dell'Utri. Sul sito di Ovo (http://www.ovo.com/) il countdown prosegue. Tra circa 54 giorni, la prima enciclopedia video sarà pronta. Peccato che ormai, dal 12 febbraio scorso, la Ovo srl sia stata messa in liquidazione. È fallita per un debito da 4,9 milioni di euro. I soci, come racconta Milano Finanza, hanno deciso di «sciogliere anticipatamente la società». La Nova Fronda, titolare del 53 per cento dell'azienda e la Trefinance, società lussemburghese controllata da Fininvest se ne vanno.Il progetto nasceva nel 2007, animato da Andrea Pezzi, già vj di Mtv (e forse anche più noto per aver fatto divorziare Claudia Pandolfi due giorni dopo il matrimonio), da Marcello Dell'Utri, ideatore di Forza Italia plurinquisito e dallo psicologo Antonio Meneghetti, fondatore dell'ontopsicologia, corrente di pensiero che ha come scopo, si legge nel sito ufficiale, «la formazione del leader, inteso come intuizione attiva di soluzioni per il collettivo». Il progetto prevedeva la creazione di Ovopedia, una enciclopedia video consultabile dagli utenti non solo on line, ma anche attraverso il satellite e il digitale terrestre (a tal proposito vi invito a leggervi questo ottimo articolo de L'espresso (http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Silvio-riscrive-la-storia/2038993). L'unico accordo chiuso prima del fallimento, però, è quello con Vodafone, che aveva messo a disposizione dei suoi utenti un servizio quotidiano di clip “formativi”. C'è da dire che tutto questo sarebbe il meno. La cosa più grave è che dietro al progetto berlusconiano, sono in molti a intravedere un revisionismo nemmeno troppo velato. Ricordiamo che Dell'Utri è colui che, prima del voto di aprile, disse: «I libri di storia, ancora oggi condizionati dalla retorica della Resistenza, saranno revisionati, se dovessimo vincere le elezioni. Questo è un tema del quale ci occuperemo con particolare attenzione». Dalla strage di piazza Fontana a biografie che passano da Gandhi a Gianni Versace, per arrivare a corsi di poker che si trasformano in discutibili lezioni di vita: da Hitler a Stalin, alla Ovo, tutti riconquistano una nuova purezza. A supporto delle più disparate tesi c'è la convinzione dell'ontopsicologo Meneghetti che «nel leader convivono e si fondono tre caratteristiche fondamentali che lo evidenziano e lo rendono appunto un funzionario di azioni riuscite per il collettivo. In particolare le tre caratteristiche fondamentali sono: un evidente superiorità di potenziale umano, una superiore conoscenza e prassi su attitudini o professioni particolarmente richieste dalla società locale, una capacità superiore di realizzazione personale nei settori definiti».Tra le caratteristiche del leader, par di capire, manca l'onestà (secondo me si rifanno al capo carismatico, il Pifferaio di Arcore): circa sessanta persone perderanno il posto, anche se in realtà la Ovo srl faceva largo uso di giovani talenti in cerca di lavoro. Basta leggere alcuni dei post in questo blog (http://www.motiongraphics.it/2008/02/13/ovo-contest/), per capire che il «laboratorio creativo» di altro non aveva bisogno che di manovalanza gratuita. Repliche quasi perfette dei berlusconiani doc.
il grande simulatore
Se i miei ricordi scolastici sono ancora integri, non mi è difficile spiegare l'etimologia della parola simulatore che ho scelto per il titolo di questo post, dedicato ancora una volta (e me ne scuso ma non ne posso fare a meno) all'attuale presidente del Consiglio dei ministri. Fingere con arte ciò che realmente non è: così recita il dizionario etimologico italiano per spiegare il significato di simulatore. E credo sia proprio il termine esatto applicabile alla lettera al nostro grande simulatore del XXI secolo, quel grande comunicatore e incantatore degli italiani nato a Milano nel settembre di 72 anni fa. Le sue ultime dichiarazioni con effetti speciali sono quelle dedicate alla soluzione del problema casa (http://www.corriere.it/politica/09_marzo_07/berlusconi_piano_edilizia_niente_abusi_d93abca2-0b42-11de-a3df-00144f02aabc.shtml) ma tutti sanno che è solo fumo negli occhi. L'ennesimo fumo. Di un arrosto che oramai non c'è più. E sulla base di questa considerazione (unita a recenti fatti di cronaca) stavo notando che, nella dissipazione individuale delle esistenze, ci sono tanti modi per affrontare la grande crisi e provare a sopravvivere. Uno è quello scelto da una numerosa famiglia torinese che ha risolto in rissa e dieci arresti la contesa eredità della nonna, una catenina d'oro: soluzione non sempre praticabile, al di là delle conseguenze giudiziarie. Altro modo è quello di un trentenne italiano che a Milano ha rubato 50 euro a una studentessa, non prima di averla virilmente violentata nel bagno di un supermercato: soluzione maschil-consumistica. Una terza via d'uscita è l'idea degli industriali romani che propongono al sindaco Alemanno un sistema di telecamere a tappeto per sorvegliare l'intera città: soluzione securitar-produttivistica. E poi c'è chi vola più in alto, chi maneggia bilanci a molti zeri, illusionismi da giocolieri e potere incondizionato: per l'appunto il Pifferaio di Arcore. Con la sua consueta pratica degli annunci, il premier ha fatto sbloccare dal Cipe un po' di miliardi per le grandi opere che, fin dai tempi delle lavagne di Bruno Vespa, costituiscono (con barzellette e canzonette) uno dei suoi piatti forti. In buona parte denari già stanziati, cui ha aggiunto qualcosa soprattutto per avviare i lavori della piramide con cui intende passare alla storia, il ponte sullo stretto di Messina. Poco importa che sia un progetto che non regge (e non solo ambientalmente), che sarebbe una cattedrale nel deserto (prima e dopo, il nulla o quasi), né che l'avvio dell'opera non servirà economicamente a nulla (ma dallo sperpero Alitalia in poi tutto è lecito). Quel che conta, per il Pifferaio, è solo l'annuncio, la simulazione. Gli sprechi conseguenti sono secondari. Siamo dentro una crisi che nutre spavento e incertezza, lo sa chiunque fa i conti della spesa, nonostante le rassicurazioni del Caimano e del suo compagno di merende, l'ineffabile Tremonti. Non abbiamo ancora le file di disoccupati, o le frotte di informatici e manager, alla ricerca di un posto da elettricista che in soli quaranta giorni hanno fatto imbiancare i capelli di Barack Obama. Ma solo perché qui da noi i più se ne stanno chiusi in casa a deprimersi di fronte alla tv. Non avendo nessun posto di fronte al quale mettersi in fila. Eppure il governo continua allegramente ad alternare promesse, de profundis, rassicurazioni. Il suo obiettivo è la cortina di fumo, dietro cui gestire per via autoritaria (nei palazzi, nelle strade, nei parchi e nelle periferie cittadine) un rancoroso disseminarsi di conflitti individuali o di gruppo. Proponendosi come moderno feudatario che fa sfogare il disagio di chi teme di cadere in basso su chi in basso già si trova. O, più semplicemente, nella tradizione della forza che si fa diritto, su chi è più debole: materialmente, culturalmente, persino fisicamente più debole. Le tante catenine d'oro in forma di appalti che il Pifferaio di Arcore butterà giù da un ponte impossibile, rendono più umana e comprensibile persino una stupida rissa di famiglia per il ciondolo della nonna. Almeno quello esiste davvero e porta con sé un minimo di affetto.
mercoledì 4 marzo 2009
il sistema (malato) dell'informazione
Un bellissimo articolo scritto da Piero Ottone (ex direttore del Corriere della Sera degli anni Ottanta) per le pagine del Venerdì di Repubblica, dal titolo "Telegiornali, ogni sera un triste compitino", mi ha indotto ad alcune riflessioni sul sistema radiotelevisivo e della carta stampata cronicamente malato a causa della sempre maggiore (ed insostenibile) pressione dei politici (io direi sostanzialmente a causa del controllo del caimano) sui direttori delle varie testate, costretti (salvo rare eccezioni) nel ruolo di inermi megafoni nelle mani del potere politico. A mio modesto avviso esiste una gerarchia tutta speciale, nella nostra società politica, nel modo in cui si forma la graduatoria dei problemi del Paese, emergenze comprese. Anche quando ci si trova nel mezzo di una tempesta economica dalle conseguenze inesplorabili, come quella attuale. Una crisi che fa dire a tutti gli esperti di cose economiche che una sola cosa è certa: cambieranno le abitudini di tutti. Proprio di tutti? Per ora, c’è un’abitudine che non cambia, perché c’è un tema che se la batte sempre da pari a pari con l’emergenza del giorno, anche quando questa è reale (c’è un’abilità tutta italiana alla fabbricazione di emergenze distraenti) e drammatica come quella di oggi. Manco a dirlo, è il tema dell’informazione televisiva. Emergenza permanente, con punte di parossismo quando come ora, è il momento di ridisegnarne gli assetti. Di rinominare tutto e tutti, per dirla senza giri di parole. Basta pensare alla vicenda, comica (oggi si può dirlo) della Commissione di Vigilanza della RAI, che si è intersecata senza complessi per alcuni mesi con questioni quali lo spettro della disoccupazione di masse, se non di massa. Allora, se il tema è ineludibile e irriducibile (non riducibile) alle sue giuste dimensioni, si potrebbe almeno fare lo sforzo di svecchiarlo un po’, di togliergli di dosso un po’ di polvere fatta di luoghi comuni. A partire da quello, logoro ma soprattutto deviante, che nel nostro sostanzialmente intatto duopolio ci siano un soggetto che fa informazione e politica, e un altro che bada agli incassi e basta. Una televisione commerciale da una parte, e una detentrice esclusiva della comunicazione e del dibattito politico dall'altra. Continuare a pensarlo, o peggio a sostenerlo, sarebbe un po’ come seguitare a pensare che il capo del nostro governo è semplicemente un fantastico uomo d’affari, un geniale imprenditore. Nulla più. Uno sforzo che tocca un pò a tutti, alla politica, ma anche a quell’Autorità che sta lì per garantire, la legge dice con spirito indipendente, un minimo di correttezza informativa nel settore. Può sembrare una banalità, in realtà è piuttosto un assioma: la televisione di un uomo politico, tanto più di un leader, tanto più se lo stesso è quasi sempre capo del governo, è ineluttabilmente uno strumento politico. Un’arma affilatissima per acchiappare i consensi. Come i suoi giornali. Lo si potrebbe dimostrare con una quantità di esempi che sono offerti giorno dopo giorno, ma è sufficiente la vicenda del licenziatissimo (difficile esserlo più rapidamente e definitivamente), forse perché singolarmente indipendente, ex direttore del Tg 5 e ideatore di Matrix: Enrico Mentana. Che fare? La prima idea che viene, ad esempio, è quella di considerare un unico, complessivo problema quello dell’informazione televisiva, ed imparare a esaminarlo globalmente. Se non per discutere degli assetti di entrambi i soggetti (questo appare al momento un pò eversivo, va ammesso), quantomeno per chiedere un pò di astinenza, dalla frugale tavola di tutti, a chi dispone ogni giorno del proprio banchetto personale, da consumare in solitudine o tra pochi amici fidati. Banalità, o assioma che sia, l’idea verrà subito eliminata come provocatoria o, peggio, eversiva. Ci si è un pò disassuefatti, a pensare in termini di parità di posizioni tra i soggetti della politica, a pensare che gli interessi particolari non debbano prevalere, e altre amenità del genere. Non resta, allora e per ora, che tornare al tema dell’assetto del servizio pubblico. Dove c’è il rischio che l’una parte privilegi maturi gentiluomini vecchio stampo e l’altra agguerriti combattenti. Il massimo che si può chiedere alla minoranza (compresa quella, sul tema, interna alla maggioranza) è di essere all’altezza della situazione. E a chi ha il compito di proporre una figura di garanzia, di ricordare che le figure di garanzia sono merce rarissima nel nostro panorama pubblico. E che per la prima volta, nel nostro servizio pubblico, chi è entrato con il compito di garantire gli uni e gli altri, si presenta al termine di un mandato intero e per di più ampiamente prorogato, con l’etichetta intatta, per generale, incontestata opinione. Si arriverà mai, in futuro, alla completa guarigione di questa informazione cronicamente malata? Ai posteri l'ardua sentenza...
domenica 1 marzo 2009
Monsieur le Gaffeur
Provate a digitare sulla stringa di ricerca di Google "gaffe Berlusconi" e troverete 285.000 risultati. Non male, credo, per un presidente del Consiglio di una grande (presunta) potenza mondiale come l'Italia. Non male per uno che aveva cominciato come chansonnier sulle navi da crociera accompagnato al pianoforte dal fido Fedele Confalonieri. Le gaffes di Berlusconi sono innumerevoli e quella sulla signora Bruni Sarkozy è solo l'ultima di una lunga serie. Celeberrimo, nell'ottobre del 2002, lo strafalcione berlusconiano «I'll tell you later» con cui calmò un attonito primo ministro danese dopo averlo definito «più bello di Cacciari, lo presenterò a mia moglie Veronica». Oppure quando, nel settembre del 2003, andò a Wall Street lodando l'Italia: «Non ci sono più comunisti ma in compenso ci sono le segretarie più belle del mondo, con cui si può lavorare in letizia». Due anni dopo però innescò una crisi diplomatica con la Finlandia. Silvio fa il playboy con la presidente Tarja Halonen dichiarando di aver usato con lei tutto il suo charme di macho italiano. E alle proteste di Helsinki rispose sventolando una foto della Halonen: «Ma vi pare che mi metta a far la corte a una così?». Forse no. Perché la sua vera passione è Mara Carfagna. Il 29 aprile 2006 presentò così la neoeletta ai suoi deputati in Transatlantico: «Cara Mara, sono costretto a ricordarti una regola che vige nel gruppo di Forza Italia, lo jus primae noctis...». Con la stessa Carfagna si ripete con un «se non fossi già sposato me la sposerei», come ammette nel gennaio 2007 alla cerimonia dei Telegatti. Identico suggerimento, del resto, lo dà in campagna elettorale nel 2008 a una bella precaria: per risolvere i tuoi problemi, dice il Pifferaio di Arcore, trovati un milionario da sposare, magari mio figlio Piersilvio. Per le signore già sposate invece ci sono altre missioni: «Signore, tra le mura domestiche le padrone siete voi, nel vostro dominio noi uomini diventiamo sudditi. Dunque ho un compito per voi il giorno delle elezioni: cucinate! Dolci e cose prelibate. Portatele ai seggi». Vince così ma le gaffes continuano. Il 16 aprile nervi tesi con la Spagna. «Zapatero ha formato un governo troppo rosa», commenta il premier italiano, «è qualcosa che noi non possiamo fare perché non è facile trovare donne qualificate. Zapatero avrà problemi nel gestirle». Lui no. Il 13 maggio le tv colgono un suo bigliettino alle neodeputate De Girolamo e Giammanco, autorizzate a lasciare l'aula in caso di «inviti galanti». Seguono gaffes degli ultimi tempi, dall'Obama «bello e abbronzato» fino ai desaparecidos argentini che «giocavano a pallone fuori dagli aerei». Ma poi il premier ricade nei vecchi lapsus: Gli stupri? «Possono sempre succedere...In Italia dovremmo avere tanti soldati quante belle ragazze, non ci riusciremo mai». Vive Monsieur le Gaffeur!