la nuova strategia del cavaliere
Abbandonati i panni forzatamente indossati per la recita pre-elettorale (quella in cui in ogni comizio o intervento televisivo doveva giocoforza attaccare e denigrare Veltroni e la sinistra), passato alla cassa per riscuotere la sua vincita personale del 13 e 14 aprile, sbrigate le formalità (lui dice faticose, ma nessuno gli crede perchè era già tutto preparato e previsto da settimane grazie al contributo di Gianni "Richelieu" Letta) delle nomine di ministri e sottosegretari, ottenuta oggi la fiducia alla Camera dei Deputati (335 sì, 275 no, 1 astenuto), in attesa di quella del Senato prevista per domani, sua emittenza Silvio Berlusconi ha dato vita ad un nuovo e più sorprendente modo di porsi sulla scena politica, ed in particolare nei rapporti con l'opposizione e con il suo maggior rappresentante: vale a dire Walter Veltroni. Qualcuno, come Massimo Giannini su la Repubblica di oggi in prima pagina, l'ha definito "modo ecumenico" (http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/politica/formazione-governo-4/cavaliere-ecumenico/cavaliere-ecumenico.html); qualcun altro, come Antonio Padellaro direttore de l'Unità, cerca di leggere qualcosa "dietro le parole" (http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=75406), ma il più bravo di tutti, a mio modesto avviso, nel tracciare il nuovo "identikit" politico del cavaliere è stato Augusto Minzolini che, su La Stampa di Torino di oggi, titola il suo articolo in prima pagina "La rete di Silvio", che vi voglio riproporre integralmente. Buona lettura.
Qualche giorno fa, durante il cambio della guardia a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi prendendo dalle mani di Romano Prodi il campanello per le riunioni del Consiglio dei ministri, si sentì dire: «Tu sei un avversario, io i veri nemici li ho avuti qua dentro Palazzo Chigi». Un episodio che colpì non poco il Cavaliere, tanto che lo raccontò giorni dopo ai suoi consiglieri. In fondo quelle parole del Professore sconfitto offrono più di altre l’immagine dell’attuale scenario politico: Berlusconi non ha solo a disposizione una forte maggioranza, ma ha anche a che fare con un’opposizione debole e divisa. E sembrerà un paradosso, ma il capo del centrosinistra Veltroni, per sentirsi tale, per aver un ruolo diverso ad esempio da Casini, da chi nel Pd gli fa la guerra come D’Alema, o da Antonio Di Pietro, ieri ha avuto bisogno di essere legittimato dal capo del governo. E’ su queste basi ed esigenze che si apre il «dialogo» versione XVI legislatura. Quello che il Cavaliere ha tentato di disegnare nel discorso per la fiducia: un intervento scritto a più mani dai vari collaboratori che si riuniscono insieme a Gianni Letta e Bonaiuti ogni mattina a Palazzo Grazioli (il cosiddetto «mattinale»), che ha ripreso alcuni contributi di Tremonti e i suggerimenti dei vari Baget Bozzo e Giuliano Ferrara che lo hanno avuto tra le mani. Il ragionamento del Cavaliere è semplice, quasi di scuola. La nuova legislatura nasce in un Paese che non è più diviso a metà ma che ha scelto «con nettezza una maggioranza di governo e una opposizione» e che chiede ai partiti di realizzare quanto promesso e in fretta, «perché l’Italia non ha tempo da perdere». E il «dialogo» nella testa del premier ha un senso solo se asseconda questa priorità: «Una volta - osserva il ministro del Welfare, Sacconi - il “dialogo” era un alibi che utilizzava la maggioranza quando non riusciva a governare e l’opposizione per non far governare. Nel galateo istituzionale della terza Repubblica di Berlusconi, maggioranza e opposizione debbono svolgere semplicemente i loro ruoli». Appunto. Il «galateo istituzionale» versione Berlusconi serve ad assecondare «la magia del fare», non serve, per dirla sempre con il Cavaliere, «per compromessi al ribasso, confabulazioni segrete o mercanteggiamenti, spinge invece ad assumerci ciascuno la nostra parte di responsabilità». Insomma, Berlusconi propone il «dialogo» da una condizione di forza e non di debolezza. Per il Cavaliere è un’«opzione», per l’opposizione è una «chance» se non una necessità. Non per nulla al «dialogo» il premier non ha condizionato nessuna delle sue scelte: la maggioranza si è presa le presidenze di entrambe le Camere e, paradossalmente, è la prima volta che in un governo Berlusconi, nato all’insegna della compattezza, settori come la giustizia e le telecomunicazioni (gli argomenti cari all’anti-berlusconismo) siano amministrati da azzurri. Eppure per essere riconosciuti, per avere un «sì» sul «governo ombra» o su altri diritti che avrebbe potuto avere in ogni caso, Veltroni e i suoi hanno accettato di buon grado, se non addirittura desiderato, il «dialogo». «Deboli come siamo - ammette Francesco Tempestini, già capo della segreteria di Fassino - siamo costretti a dire di sì sapendo che facciamo un favore al Cavaliere». In realtà il problema è ancora più profondo: l’opposizione è costretta a dire sì perché paga i suoi ritardi culturali e programmatici, subisce l’egemonia del centro-destra per usare il «termine» caro a Gramsci, l’intellettuale comunista riscoperto anche da Tremonti. «Loro - osserva uno dei maîtres à penser del governo del Cavaliere - hanno bisogno di dialogare con noi per fare qualcosa di nuovo. Altrimenti rischiano di ripetere il gioco di sempre che gli ha fatto accumulare ritardi decennali». E’ una condizione difficile e complessa che ha spinto Veltroni ad applaudire tre volte il Cavaliere, altrettante la Melandri e addirittura 7 Realacci. O ancora che spinge un ministro del «governo ombra del Pd» a non scartare neppure la logica delle «ronde» se fosse contenuta nel decreto sicurezza: «Potremmo anche dirgli di sì visto che settori del Paese lo chiedono». Già, troppa grazia per il Cavaliere che ieri ha toccato il cielo con un dito. «Mi sembra che nell’opposizione - si è lasciato andare - si stiano comportando bene: è finito l’antiberlusconismo». Ma c’è anche qualcosa di più. Dato che per la prima volta il centro-sinistra subisce «l’egemonia» dell’area moderata - come avvenne in Inghilterra con la Thatcher e negli Usa con Reagan - Berlusconi e i suoi dovranno farsi carico anche dell’evoluzione degli avversari. «Noi dobbiamo favorire l’evoluzione - spiega Sacconi - dei settori più progressivi del Pd, dobbiamo evitare che subiscano una regressione. Dobbiamo sfidarli a chi individua la soluzione più efficace». Questo, però, evitando perdite di tempo, o accettando mediazioni al ribasso. «Io - è il proposito del ministro Brunetta - voglio fare le cose che l’Europa ha fatto venti anni fa. Se il sindacato non me lo fa fare, se minaccia lo sciopero generale io mi rivolgo direttamente al Paese: 60 milioni di italiani sono di più dei dipendenti pubblici». Siamo al «dialogo del fare». Naturalmente Veltroni e i suoi chiederanno qualcosa in cambio. Interventi che consolidino il quadro. E il Cavaliere in parte li asseconderà, in parte no. «Io - fa presente il presidente del Senato Schifani - metterò subito all’ordine del giorno la riforma dei regolamenti parlamentari che dovrebbero impedire la nascita di altri gruppi oltre a quelli eletti in Parlamento. E il Pd è d’accordo». Mentre sulla riforma della legge elettorale europea c’è chi nutre qualche dubbio nel vertice berlusconiano. «Alzare la soglia della legge come vuole il Pd - osserva Sacconi - sarebbe un errore. Dobbiamo favorire l’istituzionalizzazione della sinistra massimalista che non è in Parlamento». Sono questioni su cui il Cavaliere avrà tutto il tempo di decidere. Grandi beghe in casa non ne ha.
Qualche giorno fa, durante il cambio della guardia a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi prendendo dalle mani di Romano Prodi il campanello per le riunioni del Consiglio dei ministri, si sentì dire: «Tu sei un avversario, io i veri nemici li ho avuti qua dentro Palazzo Chigi». Un episodio che colpì non poco il Cavaliere, tanto che lo raccontò giorni dopo ai suoi consiglieri. In fondo quelle parole del Professore sconfitto offrono più di altre l’immagine dell’attuale scenario politico: Berlusconi non ha solo a disposizione una forte maggioranza, ma ha anche a che fare con un’opposizione debole e divisa. E sembrerà un paradosso, ma il capo del centrosinistra Veltroni, per sentirsi tale, per aver un ruolo diverso ad esempio da Casini, da chi nel Pd gli fa la guerra come D’Alema, o da Antonio Di Pietro, ieri ha avuto bisogno di essere legittimato dal capo del governo. E’ su queste basi ed esigenze che si apre il «dialogo» versione XVI legislatura. Quello che il Cavaliere ha tentato di disegnare nel discorso per la fiducia: un intervento scritto a più mani dai vari collaboratori che si riuniscono insieme a Gianni Letta e Bonaiuti ogni mattina a Palazzo Grazioli (il cosiddetto «mattinale»), che ha ripreso alcuni contributi di Tremonti e i suggerimenti dei vari Baget Bozzo e Giuliano Ferrara che lo hanno avuto tra le mani. Il ragionamento del Cavaliere è semplice, quasi di scuola. La nuova legislatura nasce in un Paese che non è più diviso a metà ma che ha scelto «con nettezza una maggioranza di governo e una opposizione» e che chiede ai partiti di realizzare quanto promesso e in fretta, «perché l’Italia non ha tempo da perdere». E il «dialogo» nella testa del premier ha un senso solo se asseconda questa priorità: «Una volta - osserva il ministro del Welfare, Sacconi - il “dialogo” era un alibi che utilizzava la maggioranza quando non riusciva a governare e l’opposizione per non far governare. Nel galateo istituzionale della terza Repubblica di Berlusconi, maggioranza e opposizione debbono svolgere semplicemente i loro ruoli». Appunto. Il «galateo istituzionale» versione Berlusconi serve ad assecondare «la magia del fare», non serve, per dirla sempre con il Cavaliere, «per compromessi al ribasso, confabulazioni segrete o mercanteggiamenti, spinge invece ad assumerci ciascuno la nostra parte di responsabilità». Insomma, Berlusconi propone il «dialogo» da una condizione di forza e non di debolezza. Per il Cavaliere è un’«opzione», per l’opposizione è una «chance» se non una necessità. Non per nulla al «dialogo» il premier non ha condizionato nessuna delle sue scelte: la maggioranza si è presa le presidenze di entrambe le Camere e, paradossalmente, è la prima volta che in un governo Berlusconi, nato all’insegna della compattezza, settori come la giustizia e le telecomunicazioni (gli argomenti cari all’anti-berlusconismo) siano amministrati da azzurri. Eppure per essere riconosciuti, per avere un «sì» sul «governo ombra» o su altri diritti che avrebbe potuto avere in ogni caso, Veltroni e i suoi hanno accettato di buon grado, se non addirittura desiderato, il «dialogo». «Deboli come siamo - ammette Francesco Tempestini, già capo della segreteria di Fassino - siamo costretti a dire di sì sapendo che facciamo un favore al Cavaliere». In realtà il problema è ancora più profondo: l’opposizione è costretta a dire sì perché paga i suoi ritardi culturali e programmatici, subisce l’egemonia del centro-destra per usare il «termine» caro a Gramsci, l’intellettuale comunista riscoperto anche da Tremonti. «Loro - osserva uno dei maîtres à penser del governo del Cavaliere - hanno bisogno di dialogare con noi per fare qualcosa di nuovo. Altrimenti rischiano di ripetere il gioco di sempre che gli ha fatto accumulare ritardi decennali». E’ una condizione difficile e complessa che ha spinto Veltroni ad applaudire tre volte il Cavaliere, altrettante la Melandri e addirittura 7 Realacci. O ancora che spinge un ministro del «governo ombra del Pd» a non scartare neppure la logica delle «ronde» se fosse contenuta nel decreto sicurezza: «Potremmo anche dirgli di sì visto che settori del Paese lo chiedono». Già, troppa grazia per il Cavaliere che ieri ha toccato il cielo con un dito. «Mi sembra che nell’opposizione - si è lasciato andare - si stiano comportando bene: è finito l’antiberlusconismo». Ma c’è anche qualcosa di più. Dato che per la prima volta il centro-sinistra subisce «l’egemonia» dell’area moderata - come avvenne in Inghilterra con la Thatcher e negli Usa con Reagan - Berlusconi e i suoi dovranno farsi carico anche dell’evoluzione degli avversari. «Noi dobbiamo favorire l’evoluzione - spiega Sacconi - dei settori più progressivi del Pd, dobbiamo evitare che subiscano una regressione. Dobbiamo sfidarli a chi individua la soluzione più efficace». Questo, però, evitando perdite di tempo, o accettando mediazioni al ribasso. «Io - è il proposito del ministro Brunetta - voglio fare le cose che l’Europa ha fatto venti anni fa. Se il sindacato non me lo fa fare, se minaccia lo sciopero generale io mi rivolgo direttamente al Paese: 60 milioni di italiani sono di più dei dipendenti pubblici». Siamo al «dialogo del fare». Naturalmente Veltroni e i suoi chiederanno qualcosa in cambio. Interventi che consolidino il quadro. E il Cavaliere in parte li asseconderà, in parte no. «Io - fa presente il presidente del Senato Schifani - metterò subito all’ordine del giorno la riforma dei regolamenti parlamentari che dovrebbero impedire la nascita di altri gruppi oltre a quelli eletti in Parlamento. E il Pd è d’accordo». Mentre sulla riforma della legge elettorale europea c’è chi nutre qualche dubbio nel vertice berlusconiano. «Alzare la soglia della legge come vuole il Pd - osserva Sacconi - sarebbe un errore. Dobbiamo favorire l’istituzionalizzazione della sinistra massimalista che non è in Parlamento». Sono questioni su cui il Cavaliere avrà tutto il tempo di decidere. Grandi beghe in casa non ne ha.
2 Commenti:
Alle mercoledì 14 maggio 2008 alle ore 19:13:00 CEST , Anonimo ha detto...
Buonasera carissimo.Indubbiamente il rispetto istituzionale tra maggioranza ed opposizione è positivo.Ma non vorrei che la sinistra subisse in tutto e per tutto l'egemonia del centrodestra.Prendiamo il caso della sicurezza.E'giusto tutelare i cittadini,ma la tolleranza zero deve valere anche per i reati economici,e non possiamo dimenticare che ben quattro regioni meridionali vivono sotto il ricatto della criminalita'organizzata.Anche contro quest'ultima deve essere condotta una lotta durissima e senza connivenze.Mauro
Alle mercoledì 14 maggio 2008 alle ore 23:28:00 CEST , nomadus ha detto...
Spero vivamente, caro MAURO, che la tua osservazione, a proposito delle quattro regioni meridionali che vivono sotto il ricatto della criminalità organizzata, sia fatta loro dagli esponenti della maggioranza di quelle regioni. Considerando le origini siciliane del presidente del Senato,e le origini di altri politici che hanno in mano le leve del comando, c'è da augurarsi che la lotta alla criminalità sia condotta senza esitazioni e senza connivenze, come giustamente da te affermato.
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