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venerdì 23 maggio 2008

Capaci, 23 maggio 1992







A sedici anni dalla morte di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani, voglio riproporre un estratto dal libro di Rita Di Giovacchino (ottima cronista di giudiziaria de Il Messaggero) intitolato "Il libro nero della Prima Repubblica" (Fazi Editore, 448 pagine, 18 euro) che a pagina 356 del libro parlava così della strage di Capaci. Gli uomini sulla collina erano in attesa. Nino Gioè fumava una sigaretta dietro l'altra. Giovanni Brusca sembrava tranquillo, guardava un punto fisso all'orizzonte dove le onde del mare si infrangono sugli scogli neri dell'Isola delle Femmine. Gli altri si aggiravano nervosi tra gli alberi, parlottavano. Sette uomini in tutto, vestiti come operai o contadini, che sembravano prendere il fresco attardandosi in campagna alla fine di una giornata di lavoro. Il cavo era stato già allacciato e anche il materasso era ormai posizionato in fondo alla condotta dell'ENEL, un tubo del diametro di circa un metro che correva sotto il manto stradale. Pietro Rampulla era un estremista di destra, un amico, e questi lavori li sapeva fare bene, però quel giorno non era venuto, aveva preferito starsene per i fatti suoi. La prima telefonata era già arrivata. "Pronto, Mario?". "No, ha sbagliato". Era il segnale, l'aereo era atterrato a Punta Raisi. Passarono altri minuti: dieci, quindici, venti. Il cellulare suonò di nuovo. Era Gino La Barbera, di vedetta al bar Johnny Walker, lungo la parallela della Palermo-Trapani, dove c'era un piazzale da cui si potevano vedere perfettamente le auto che sfilavano sull'autostrada sottostante. Il corteo delle Croma si avvicinava: quando le avvistò, Gino risalì in macchina, mise in moto e prese a inseguirle sulla strada parallela in modo da poter calcolare la velocità: ottanta chilometri, cento, centodieci. All'altezza di uno svincolo il boss deviò in direzione di Partinico: ormai mancava poco più di un chilometro, "Non ho neppure sentito il botto", racconterà ai magistrati. I sette sulla collina aspettavano in silenzio. Brusca si posizionò a gambe aperte, prese la mira puntando il telecomando con la iattanza di un arciere del re. Erano le diciassette e cinquantasei del 23 maggio 1992 sull'autostrada A-29, all'altezza di Capaci, quando la violentissima deflagrazione spalancò il manto stradale disintegrando una Fiat Croma blu; la seconda macchina, una Croma bianca, si schiantò contro il muro di sassi e cemento provocato dall'esplosione; la terza, un'altra Croma blu, finì in quel groviglio di lamiere contorte, in bilico sulla bocca d'inferno che si era aperta all'improvviso sulla strada. La prima auto si impennò come un cavallo impazzito nello stesso istante in cui il boato spezzò l'aria: i corpi di Montinaro, Di Cillo e Schifani uscirono dall'impatto a pezzi, orrendamente carbonizzati, irriconoscibili. L'arciere aveva sbagliato di un istante, perchè il vero obiettivo era la seconda vettura, la Croma bianca dove viaggiavano Falcone, che era al volante, Francesca Morvillo, seduta al suo fianco, e l'autista Giuseppe Costanzo che era sul sedile posteriore. Fu l'unico che si salvò. Anche il giudice e la moglie avrebbero potuto salvarsi, se solo la vettura fosse stata poco più lontana dalla prima o se avessero allacciato le cinture: invece cessarono di vivere due ore dopo all'Ospedale Civico di palermo. Sono morti così il giudice, la moglie, il caposcorta e due agenti. Morti come Falcone aveva sempre saputo che sarebbero morti: "Quelli come noi possono saltare in aria da un momento all'altro, come il bottone di una giacca", ripeteva spesso. Sono morti in una splendida giornata di maggio, quando i pescatori al largo della costa trapanese escono con le barche e vanno a pesca di tonni. Uno spettacolo magnifico e cruento, con quella lunga scia di sangue che arrossa l'acqua del mare, che per Giovanni ogni anno segnava l'inizio dell'estate. Non ci aveva voluto rinunciare alla "tonnara", anche se ormai viveva a Roma: aveva deciso di scendere giù nella sua terra, all'ultimo minuto, lasciando sul tavolo di via Arenula tanto lavoro da sbrigare. Ma era un'altra mattanza quella che lo accolse, la sua e dei suoi uomini, non in mare, ma su quel grigio asfalto che per tanti anni è rimasto dipinto di rosso, in memoria del sangue versato dai servitori dello Stato. Falcone è morto a Palermo, dov'era nato, come Buscetta, come gli uomini appostati sulla collina. Gli uomini che avevano imbottito la condotta ENEL di cinquecento chili di tritolo e Semtex T4, avevano azionato il telecomando ed erano rimasti impassibili a guardare. Falcone è morto a Palermo, siciliano tra i siciliani. Quella sera tutte le campane hanno suonato a lutto, ma ai rintocchi si contrapponeva l'eco delle bottiglie di champagne che venivano stappate all'Ucciardone, nelle celle dei boss che festeggiavano la vittoria. Perchè in Sicilia vince chi è vivo. E chi è morto ha perso. Perso per sempre.

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