Peter Gomez, una spina nel fianco del signor B.
Debbo confessare con assoluta naturalezza che a partire dal 23 settembre scorso sono diventato un fedele lettore de IL FATTO QUOTIDIANO e, in particolar modo, di un giornalista che a mio avviso risulta essere uno dei migliori nel comparto "inchieste". Si chiama PETER GOMEZ, ha fatto la gavetta nella fucina montanelliana de IL GIORNALE (quando Berlusconi nemmeno lo leggeva e non gli interessava comprarlo) e de LA VOCE, insieme ad un altro cacciatore di scoop che risponde al nome di MARCO TRAVAGLIO e che, prima di arrivare al quotidiano diretto da ANTONIO PADELLARO, è stato uno dei giornalisti di punta nella redazione de L'ESPRESSO. In questi giorni di roventi polemiche, seguite alle dichiarazioni del pentito SPATUZZA (e non solo) circa le eventuali implicazioni del signor B. nel calderone stragistico mafioso del bienno 1992-93, ho seguito buona parte delle prese di posizione a favore o contro la figura di presunto illibato (dal punto di vista mafioso) dell'attuale presidente del Consiglio e ho trovato questo lungo articolo di GOMEZ, pubblicato l'altro ieri, che riassume con puntualità e con dovizia di elementi quel periodo particolare. Ve lo ripropongo integralmente suggerendovi un'attenta e riflessiva lettura. Firenze, quella notte, c'era un ragazzo affacciato a una finestra. Chi l’ha visto racconta che “urlava”, ma che “a un certo punto ci fu una fiammata e sparì”. A Firenze, quella notte, c'era una bimba. Aveva solo sei mesi e si chiamava Caterina. Dalle macerie della Torre del Pulci la estrassero dopo tre ore. Era come avvoltolata in un materasso. Sul viso aveva solo un graffio e per qualche minuto il medico che la soccorreva pensò di poterla salvare. Ma si sbagliava.
A Firenze, in quella tiepida notte di maggio, morirono in cinque. E altri cinque se ne andarono esattamente due mesi dopo, il 27 luglio, a Milano. Uccisi da un'autobomba in via Palestro, mentre a Roma saltavano in aria due chiese e il presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, credeva che fosse in atto un colpo di Stato. Il centralino di Palazzo Chigi, forse perché sovraccarico di chiamate, non funzionava. I politici, fiaccati dalle indagini sulla loro corruzione e messi in ginocchio dagli avvisi di garanzia firmati dal pool di Mani Pulite, parlavano di terrorismo internazionale, di kommando arabi, di servizi segreti deviati. Solo l’ex segretario del Partito socialista Bettino Craxi sembrava capire. E ai giornalisti diceva: “Qualcuno vuole creare un clima di completa paura. Le bombe si propongono di aprire la strada a qualcosa, non di rovesciare qualcosa. Il potere politico è già stato rovesciato, o quasi”.
SCHEGGE E FRAMMENTI
Eccolo qui il racconto dell’estate del terrore. Eccoli qui quei fatti del 1993-94 ai quali, con “follia pura”, secondo il premier Silvio Berlusconi, “frammenti di procure guardano ancora”. Una lunga scia di sangue e tritolo che ufficialmente si apre nella Capitale 14 maggio ‘93 quando in via Fauro, il presentatore Fininvest, Maurizio Costanzo, sfugge per miracolo a un attentato dinamitardo. E che prosegue, dopo le bombe di Firenze, Milano e Roma, con l’assassinio di don Pino Puglisi a Palermo, con la mancata strage di carabinieri allo Stadio Olimpico (“i morti dovevano essere cento” ha ricordato il pentito Gaspare Spatuzza)e il tentativo di far fuori con la dinamite lo storico collaboratore di giustizia, Totuccio Contorno, il 14 aprile del 1994.
Come nasca la strategia stragista di Cosa Nostra ce lo dicono ormai decine di sentenze definitive. Intorno al 1991 il capo dei capi Totò Riina, capisce che, nonostante le garanzie ricevute da un pezzo di Democrazia cristiana, attraverso l’eurodeputato Salvo Lima, il maxiprocesso, in cui lui stesso è stato condannato all’ergastolo, andrà male.
In Cassazione il verdetto non sarà annullato perchè il giudice Giovanni Falcone, che adesso lavora al fianco del Guardasigilli socialista Claudio Martelli, sta per imporre la rotazione delle sezioni specializzate in fatti di mafia: Corrado Carnevale, il giudice che allora tutti chiamavano “ammazzasentenze” verrà tagliato fuori. In provincia di Enna tra il novembre del 1991 e il febbraio del 1992, si tengono così una serie di vertici tra boss per cercare di recuperare terreno.
«Durante gli incontri», ha raccontato il pentito Filippo Malvagna, «Riina fece presente che la pressione dello Stato contro Cosa Nostra si era fatta più rilevante e che comunque vi erano segnali del fatto che tradizionali alleanze con pezzi dello Stato non funzionavano più». Per questo l’allora capo dei capi decise «fare la guerra per poi fare la pace». Di sparare sempre più in alto per poi aprire una trattativa da una posizione di forza. Come in Colombia.
Vengono messi in calendario gli omicidi dei politici che la mafia considera traditori. Quello di Lima, quello del grande elettore democristiano e uomo d’onore Ignazio Salvo, più una lunga serie di leader di partito che verranno invece risparmiati: Martelli, Salvo Andò, Calogero Mannino e molti altri. Si discute dell’attentato a Falcone. Si parla della morte di personaggi dello spettacolo e della televisione come Maurizio Costanzo e Michele Santoro.
E intanto si ragiona di politica. Nel dicembre del ‘92, con due anni di anticipo rispetto alla creazione di Forza Italia, Leonardo Messina, ex braccio destro del boss della provincia di Caltanissetta, Piddu Madonia, racconta davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia, che “Cosa Nostra ha deciso di farsi Stato”. Riina infatti in quelle riunioni annuncia pure la nascita “di un partito nuovo”, formato da massoni e da colletti bianchi, con l’obiettivo di arrivare “alla creazione di uno Stato indipendente del Sud all’interno della separazione dell’Italia in tre Stati”.
IL CORTEGGIAMENTO DI CRAXI
Muore così Falcone e 57 giorni dopo tocca a Paolo Borsellino. Cosa Nostra è alla disperata ricerca di nuovi referenti politici. Attraverso l’ex sindaco Vito Ciancimino sono state inoltrate allo Stato una serie di richieste (il famoso papello), ma quello spiraglio di trattativa non ha portato a niente di concreto. E sta sfumando anche l’idea, coltivata almeno a partire dal 1987, di stringere un patto con Bettino Craxi. Il lungo corteggiamento avvenuto, secondo la sentenza che in primo grado ha condannato Marcello Dell’Utri, attraverso i vertici della Fininvest è rimasto senza risultati. Certo, con il gruppo del biscione i legami - antichi - si sono consolidati. Ogni anno, come racconta il processo Dell’Utri, a Riina arrivano 200 milioni di lire in regalo. Soldi di cui parlano molti pentiti e di cui è stata persino trovata una traccia documentale.
Un appunto nel libro mastro del pizzo della famiglia mafiosa di San Lorenzo in cui è annotato “1990 Canale 5,5 milioni regalo” (il denaro secondo i collaboratori di giustizia veniva diviso da Riina tra i diversi clan ndr). Ma Craxi sta per essere messo fuori gioco dalle inchieste di Mani Pulite. Per la mafia continuare a puntare su di lui non ha più senso. Che fare? L’unica speranza concreta è rappresentata dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i due giovanissimi boss di Brancaccio. Due ragazzi dalla faccia pulita che a Palermo controllano, attraverso prestanome, alcune delle più grandi imprese di costruzioni della città. A partire dai primi del ‘92 hanno cominciato ad andare spesso al Nord, o meglio a Roma e a Milano, dove hanno dei contatti importanti. Che parlino con Marcello Dell’Utri lo sostiene per primo davanti ai magistrati, già nel 1997, una loro testa di legno. L’ex funzionario della Dc, Tullio Cannella, e lo ribadisce adesso, con più chiarezza, il superpentito Gaspare Spatuzza. Si tratta però di dichiarazioni de relato. L’unico fatto certo è invece che Dell’Utri, a partire dal giugno del 1992, ha assoldato una serie di consulenti (lo dimostrano le carte sequestrate a Publitalia) per spiegare ai manager della concessionaria di pubblicità e a quelli di Programma Italia del banchiere socio di Berlusconi, Ennio Doris, i segreti della politica. Altrettanto incontestabili sono poi le continue telefonate e visite a Milano 2 di Gaetano Cinà, un uomo d’onore della famiglia di Malaspina (un clan vicinissimo a Provenzano), amico da una vita di Dell’Utri. Così mentre Dell’Utri ragiona di politica e, nel timore che le indagini di Mani Pulite portino al governo le sinistre, insiste sul Cavaliere perché scenda direttamente in campo, la mafia in Sicilia continua ad attaccare lo Stato. Il 15 gennaio del ‘93 accade però un imprevisto: Totò Riina finisce in manette. Suo cognato, Luchino Bagarella, raduna gli amici e dice: “Finché ci sarà un corleonese fuori si va avanti come prima”. La scelta è obbligata. Tra il popolo di Cosa Nostra c’è molta insofferenza. Adesso bisogna pure convincere lo Stato a chiudere i supercarceri di Pianosa e l’Asinara, appena riaperti, e a eliminare il 41 bis. Il problema è che con Mani Pulite che impazza mancano interlocutori affidabili.
IL “SEGNALATORE”
Non è chiaro chi dia alla mafia l’idea di distruggere i monumenti con le bombe. Cioè di fare azioni eclatanti che però non colpiscono (in teoria) le persone, ma le cose.
Una delle piste battute dalla procura di Firenze negli anni ‘90, sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, portava sempre alla Fininvest. Ma, in assenza di riscontri indiscutibili, tutto è stato archiviato. Certi sono invece due fatti. A pretendere che le stragi avvenissero fuori dalla Sicilia è stato il grande protettore dei Graviano, il boss Bernardo Provenzano.
Mentre la riunione operativa che ha preceduto gli attentati è avvenuta il primo aprile del‘93, in un villino di Santa Flavia, vicino a Palermo, di proprietà di Giuseppe Vasile, un appassionato di cavalli, poi condannato per favoreggiamento dei Graviano. Vasile è un driver dilettante e corre in pista con Guglielmo Micciché, il fratello di Gianfranco, che sarà poi coordinatore di Forza Italia in Sicilia. Figlio di un vecchio uomo d’onore di Brancaccio, Vasile mette dunque a disposizione la sua abitazione per l’incontro in cui Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro - il giovane boss di Trapani fattore della famiglia del futuro sottosegretario agli Interni, Antonio D’Alì - ragionano di bombe. Durante il summit si decide che a colpire siano i Graviano, Matteo Messina Denaro e i loro uomini. Tutti loro partono per il continente e per mesi non hanno più contatti con Bagarella. Ma è a Palermo che avviene un fatto davvero strano. il 12 maggio, 48 ore prima dell’azione contro Costanzo, Vasile, con un amico titolare di una ricevitoria di totocalcio, entra nell’agenzia numero 27 del Banco di Sicilia, diretta da Guglielmo Micciché. I due chiedono a Micciché di cambiare 25 milioni in contanti in assegni circolari. L’operazione viene eseguita immediatamente. Gli assegni verranno poi utilizzati per tentare di affittare una villa in Versilia dove ospitare, presentandoli sotto falso nome, sia i fratelli Graviano che Matteo Messina Denaro. Una vacanza che proseguirà almeno fino a luglio, mentre l’Italia viene messa a ferro e fuoco. Poi i Graviano partono di nuovo. Si dirigono a Porto Rotondo, dove resteranno per tutto agosto, mentre a poche centinaia di metri, nel suo buen retiro di villa La Certosa, Berlusconi trascorre lunghi fine settimana mettendo a punto il suo nuovo partito.
Infine l’ultimo viaggio. La meta è Milano, dove i due fratelli verrano arrestati il 27 gennaio del ‘94. In quel periodo però si fa vedere in città anche l’ex fattore di Arcore, Vittorio Mangano.
Il boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, e il Luchino Bagarella, lo hanno infatti incaricato di contattare il Cavaliere. Brusca, una volta pentito, racconta che a fine settembre né lui, né Bagarella, avevano più notizie dei Graviano. Per questo Mangano viene convocato d’urgenza e gli viene chiesto di riallacciare i suoi antichi rapporti. Il 2 novembre,come risulta dalle agende sequestrate alla segretaria di Dell’Utri, l’ex fattore chiama il futuro senatore azzurro in quel momento impegnato negli ultimi preparativi di Forza Italia. Poi lo cerca di nuovo e spiega per telefono che tornerà a fine mese. Sulle agende si legge: «Mangano Vittorio sarà a Milano per parlare problema personale» e ancora: «Mangano verso 30-11 5 giorni prima convoca con precisione». L’incontro, come conferma Dell’Utri, avviene per davvero: “Di tanto in tanto”, dice il senatore, “Mangano mi veniva a trovare. Mi parlava della sua salute”. Non è chiaro invece, ma è altamente probabile, se a Milano il boss incontri anche i Graviano. Di sicuro in quei mesi tra la famiglia di Porta Nuova, capeggiata da Mangano, e quella di Brancaccio viene inaugurata una sorta di alleanza. Spatuzza ricorda che i Graviano gli chiesero di andare a Porta Nuova per risolvere un problema di ordine pubblico mafioso: punire dei ladri che si muovevano fuori dagli ordini del clan. Lui rimase sorpreso. Ma poi, quando nel gennaio del ‘94, Giuseppe Graviano gli disse di aver stretto un patto con Berlusconi e Dell’Utri, cominciò a capire.
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