tpi-back

domenica 13 luglio 2008

una seconda possibilità




Sono rimasto molto colpito dalla lettura, stamani, dell'intervista di Omar Favaro (uno dei due autori, insieme a Erika De Nardo, della strage di Novi Ligure del 21 febbraio 2001) raccolta da Giuseppe Legato e pubblicata su La Stampa di Torino con il titolo "I giudici mi devono trovare il lavoro". Leggendo l'intervista (che vi riproporrò più avanti) e immaginando di trovarmi al posto del giornalista lì, davanti a questo ventiquattrenne con un duplice efferato omicidio sulle spalle, ho avuto la sensazione che Omar stesse facendo un atto di contrizione, legato ad un suo probabile pentimento per il delitto commesso, unendolo ad una naturale richiesta di riscatto personale e di riabilitazione sociale, con la conseguente capacità di potersi reinserire nel corpo ferito della società che a suo tempo lo aveva espulso e condannato. Prima di rileggere l'intervista è d'uopo rinfrescarci la memoria ripercorrendo quei tragici momenti di sette anni e mezzo fa.
A Novi Ligure (Alessandria) sono da poco passate le 20.30 quando una ragazzina urlante, in preda al panico, esce di corsa dalla villetta di via D’Acquisto 12, nel quartiere periferico di Lodolino. A chi la soccorre, la ragazza, Erika De Nardo, 16 anni, racconta tra le lacrime che due uomini, probabilmente degli albanesi, penetrati nella villetta hanno massacrato a coltellate la madre ed il fratellino, mentre lei, dopo una colluttazione con uno degli assassini, è riuscita miracolosamente a fuggire. Poco dopo Erika chiama con il cellulare il suo fidanzatino, Omar Mauro Favaro, 17 anni, che la raggiunge immediatamente.
48 ore appena e il racconto di Erika si disfa come fosse un castello di carte. Troppe le contraddizioni, troppe le tracce sulla scena del crimine che non combaciano con la versione fornita dalla giovane. Lasciati soli in una stanza della caserma dei carabinieri dove i due giovani sono stati a lungo interrogati, scatta la trappola. I loro discorsi vengono intercettati e registrati.
Nella serata del 23 febbraio i due ragazzi vengono messi in stato di fermo su ordine del procuratore di Alessandria, Carlo Carlesi. Sono loro gli assassini di Susy Cassini, 45 anni e di Gianluca De Nardo, 12, madre e fratello di Erika. Lei è l’assassina, lui ha ampiamente collaborato al duplice omicidio, più che un semplice delitto un vero massacro.
Ma perché Erika e Omar hanno ucciso? Quale il movente che può spingere due adolescenti ad una furia tanto selvaggia? Perché Erika odiava sua madre e suo fratello a tal punto da massacrarli? Come ha potuto una ragazzina, all’apparenza timida e mingherlina, di appena 16 anni, convincere il suo ragazzo ad uccidere?
Capire da cosa origini tanto odio, specie nella mente di un giovanissimo, è impossibile. Si è detto e scritto che Erika si sentiva troppo controllata e bloccata nei suoi movimenti dalla severità della madre che non assecondava il suo legame con Omar. Ma si è anche detto e scritto che Erika avesse intenzione di uccidere anche suo padre, Francesco De Nardo, 43 anni.
Forse la solitudine, forse rancori repressi ed ingigantiti nella personalità disturbata di due minori, forse una rabbia sproporzionata - per noi adulti - è lievitata a tal punto da scatenarsi in una violenza travolgente e sanguinaria. Forse. Fatto sta che Erika De Nardo ed Omar Mauro Favaro, in tre gradi di giudizio sono stati sempre condannati alla stessa pena: 16 anni per lei, 14 per lui. E questa è l'odierna intervista di Omar al quotidiano torinese.
Parla dal carcere in cui è detenuto da quando è diventato maggiorenne. Casa circondariale di Quarto, provincia di Asti. Non è più un adolescente nascosto da un giubbotto blu ai flash dei fotografi. E’ un ragazzo di corporatura robusta, barba di qualche giorno, ma curata. Capelli lunghi, castano chiari, occhi verdi. «Eccomi qua. Cercavate me?», chiede al consigliere regionale del Pd Angelo Auddino che ha visitato il carcere. Esce dalla cella che condivide con un coetaneo prossimo alla scarcerazione: 12 metri quadri, un letto a castello, colori accesi – le inferriate alla porta e alle finestre sono tinte di giallo – un fornellino da campeggio per cucinare i pasti, un comodino con un televisore 14 pollici per sentirsi ancora attaccati al mondo esterno dal quale è uscito quella sera del 21 febbraio del 2001 quando - assieme ad Erika - uccise la madre e il fratellino della ragazza con cento coltellate. Mancano un anno e otto mesi. «Poi sarò fuori e mi riprendo la vita». Maglietta gialla e jeans chiari, scarpe da tennis e sguardo fisso. «Ditemi, prego». Allora Omar. Partiamo da qui. Come si trova in carcere? «Mi sono trovato bene fin da subito. Tutti – dal direttore ai secondini – mi hanno trattato come speravo. Non mi hanno fatto mancare nulla. Posso dire di aver goduto di tutti i privilegi possibili di un carcere». Per esempio? «Ospitalità innanzitutto. Cordialità. Mi sono sentito protetto fin dall’ arrivo. Protetto, non viziato». Se lo aspettava? «Direi che lo speravo. Quando sono arrivato qui dal Ferrante Aporti di Torino avevo paura che mi succedesse qualcosa, che gli altri detenuti mi prendessero di mira. So benissimo che la mia storia la conoscono tutti. Sarebbe stato facile diventare un bersaglio. Non è andata cosi». Dice di aver goduto di tutti i privilegi. Eppure Erika è uscita dal carcere più di una volta. Lei invece non hai avuto permessi. Invidioso? «Di Erika non mi importa nulla. E’ da tempo che ho deciso di pensare soltanto a me stesso, al mio percorso. E’ da tempo che non misuro la mia vita in funzione della sua. Qui dentro ho capito che tipo di errore abbia fatto. Lo so, ho combinato una cosa mostruosa. Ma so anche che ho pagato e che adesso voglio uscire per riscattarmi. Ora mi sento una persona nuova, migliore». Deve essere stata una strada difficile. O no?«Questi anni di prigionia, mi riscattano per il futuro, non per il passato. Ma era giusto che pagassi. Chi sbaglia non può farla franca. E’ la prima cosa di cui mi sono reso conto». Si è sentito solo in carcere? «Momenti difficili ce ne sono stati, non posso nasconderlo. Mi hanno aiutato molto i miei genitori». La vengono a trovare spesso? «Non mi hanno abbandonato, non mi hanno lasciato solo mai. E’ guardando loro e tutto l’amore che mi danno che riesco a fare progetti per il futuro. Ho tante idee per la mia seconda vita». Ecco, che cosa vuole diventare Omar da grande? «Per adesso riorganizzo l’archivio della biblioteca del carcere, ma in questi anni ho studiato. Mi sono diplomato in informatica. Quello che mi hanno insegnato mi servirà quando sarà libero». Ha paura di non farcela una volta fuori da qui? «Paura no. Ma ho bisogno di aiuto. Gli stessi giudici che mi hanno giustamente condannato mi devono aiutare a riscattarmi e a trovare lavoro. E’ a loro che mi rivolgo». Si spieghi meglio... «Voglio che non mi abbandonino. E’ facile, dopo quello che ho combinato, essere bollati a vita come assassini. E io non voglio che vada a finire cosi. Non voglio che la gente mi releghi in un angolo con un solo sguardo. Voglio riprendermi la mia vita senza subire l’ombra di quella che mi sono lasciato alle spalle. Senza essere odiato né compatito». Eppure quel massacro non ha ancora un movente. Ci pensa ancora? «Mi chiedete perché l’ho fatto. E io me l’aspettavo. Questa domanda me l’hanno posta in molti, ma ancora oggi non trovo una risposta. Ci penso, ma non so spiegarmi che cosa sia scattato. Adesso anche i ricordi cominciano a sfuocarsi». Mancano un anno e otto mesi. Dovrà pazientare ancora. «Non c’è problema. Continuerò a contare i giorni che mi separano dalla libertà. Voglio un'altra occasione. Credo di essermela guadagnata. Solo io, da subito, ho detto la verità su quella maledetta sera».

0 Commenti:

Posta un commento

Iscriviti a Commenti sul post [Atom]

<< Home page