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giovedì 9 luglio 2009

e se il G8 si fosse svolto in America?


Mi sono posto questa domanda in virtù di uno sciame sismico di burrosa autoreferenzialità che il nostro presidente del Consiglio ha provocato ieri, in conferenza stampa, lodandosi e sbrodandosi dopo le parole spese dal presidente degli Stati Uniti a proposito dell'organizzazione del G8 e della relativa leadership dell'Italia in questo momento, almeno per quanto riguarda il food and beverage. Lo sto dicendo tra il serio e il faceto, ma a mio giudizio il nostro premier non ha colto una sfaccettatura importante nelle dichiarazioni di Obama, in particolar modo quando il leader afro-americano ha magnificato le doti morali e istituzionali del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Silvio B. avrebbe voluto sentirsele dire lui quelle parole, ma così non è stato e si è dovuto accontentare di qualche flash dei fotografi accanto a Obama in camicia bianca e cravatta e con le maniche arrotolate, davanti alle rovine del palazzo del governo dell'Aquila. Comunque, tornando al titolo di questo post, per come la vedo io il G8 del 2009 si sarebbe dovuto tenere negli Stati Uniti. Meglio se a Detroit. Sarebbe stato il modo più giusto per valorizzare l'unica novità del vertice (la personalità di Barack Obama) e per mettere a fuoco la crisi più grave. Con tutto il rispetto per le vittime dell'Aquila, il terremoto che ha squassato il mondo è partito dal Michigan, non dall'Abruzzo. Invece, salvando le forme, il G8 è rimasto in Italia, uno degli ultimi Paesi ammessi al club (e in bilico, stando al The Guardian). In Italia e nel momento peggiore, con un capo del governo azzoppato da vicende imbarazzanti e in sofferenza su pressoché tutti i temi oggetto delle discussioni. E il contrasto duro di ogni manifestazione, con prepotente dispiego di mezzi, uomini e arresti (a memoria di Genova 2001) alla fine è un'altra prova di debolezza. Il G8 fatica perché si muove fra futilità e sovrabbondanza. È nato con un direttorio che sceglie da sé i suoi membri e che nello stesso tempo pretende di essere universale. Auspicare che l'America sia finalmente in grado di imprimere una sterzata positiva alla politica mondiale sarebbe in controtendenza, rispetto ad una conferenza che non vuole dispiacere i comprimari. Siamo nel bel mezzo di un periodo storico all'insegna della carenza di potenza, con i molti cerchi di instabilità che ne derivano, ma con un potere economico distribuito, più libertà e prodromi di multipolarismo. Il ritorno alle arti della superpotenza sarebbe una regressione a scenari del passato. Obama ha evidenziato per suo conto la scala delle priorità facendo tappa a Mosca prima e a Roma poi, prenotando un'udienza con Benedetto XVI. Il Papa è diventato una specie di protagonista occulto del summit abruzzese, introducendo quei principi etici a cui nell'età della globalizzazione non si dà molto credito. L'accordo russo-americano di qualche giorno fa sul disarmo è una spinta per il G8 ma rischia di delegittimarlo. Le relazioni bilaterali sono una tentazione se i consessi internazionali perdono colpi. È dal vertice di Genova che il G8 dedica un canale speciale all'Africa. Sfortunatamente l'Africa ha perduto di visibilità di fronte a problemi più scottanti, anche per la sensibilità di chi malgrado tutto detiene il potere. Poco importa ciò che verrà deciso all'Aquila. Prodi e Kofi Annan, in sedi diverse, hanno detto con più autorità quello che sanno tutti: le otto potenze, Italia in testa, hanno sempre e sistematicamente disatteso gli impegni presi con l'Africa. Il nostro governo non si è fatto scrupolo di tagliare ulteriormente, proprio quest'anno, i fondi per la cooperazione allo sviluppo. Se si parla di Africa, in una sede come questa, con tanti o troppi leaders africani presenti, sarebbe bene non parlare tanto di aiuti quanto di impostazione politica. Resta da capire in effetti come si possa spendere tanto tempo e denaro senza affrontare seriamente almeno una delle ferite di cui è costellata la platea che quegli otto, sette uomini e una donna, prendono a parole come referenti. Ognuno può riporre le bandierine dove crede: Afghanistan, Gaza, Teheran, Darfur o Somalia, o le piccole morti quotidiane nel Mediterraneo. Tanto poi alla fine ci pensa il Pifferaio di Arcore a sistemare tutto. Con una bella pacca sulle spalle e con il sorriso ceramicato.

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