quell'interminabile distesa di bare
Non ho potuto fare a meno di seguire ieri mattina, seppur in televisione, i funerali delle vittime del sisma di domenica notte. Un minuto di silenzio e di preghiera che ho dedicato, con il cuore straziato, a chi non c'era più e a tutte quelle persone che erano lì, sul piazzale della caserma della Guardia di Finanza dell'Aquila, davanti a quel tappeto interminabile di bare allineate, coperte da una moltitudine di fiori dai mille colori, piangendo i loro cari. Nel venerdì santo d’Abruzzo, la morte ha apparecchiato la sua mensa trionfale in quel piazzale disadorno. Duecentocinque bare, neanche tutte quelle delle vittime, ma comunque un colpo d’occhio annichilente davanti alla fredda geometria di una caserma. Duecentocinque bare in fila, ma anche, qualcuna, bianca e piccola, sopra a una bara grande. Assurdamente piccole le bare bianche abbracciate a quelle scure. Bambini morti avvinghiati alla madre, al padre. Un momento che non dimenticherò facilmente. Quella parata alla vigilia della Pasqua, mentre attorno, fra le macerie, fioriscono i peschi, pare una beffa atroce. Appena qualche giorno fa questi morti compravano colombe, e uova di cioccolato ai loro bambini. Dov’è ora, sembrava dire quel corteo di feretri, la vostra Pasqua? Dov’è la speranza di una madre sopravvissuta ai suoi figli, di chi ha scavato cercando un fratello, di chi è vivo, ma solo? Davvero la morte ha allestito una grandiosa prova della sua potenza, in quel piazzale ampio e spoglio come un altare e sullo sfondo, all’orizzonte, l’Appennino innevato, impassibile. E l’ha ben visto, il cardinale Tarcisio Bertone, quell'altare di morte. Ha ben sentito il silenzio che tutti in quella piazza sentivano. «Ci inchiniamo – ha esordito – dinanzi all'enigma indecifrabile della morte». Davanti a quelle duecentocinque bare, e a quelle piccole, bianche, la prima reazione umana è tacere, e inchinarsi. Come di fronte a un troppo grande nemico. «Tutto in un attimo può cessare, tutto può finire», ha aggiunto Bertone. Il silenzio davanti a quelle bare (e di quella notte, dopo l’ultimo schianto di macerie) a mio modo di vedere è quasi paragonabile al silenzio del Calvario, dopo l’ultimo grido di Cristo. Il silenzio dell’uomo e il silenzio di Dio in quell’ora sospesa sull’abisso. Straziante, vertiginoso sovrapporsi del venerdì santo con questa Via crucis d’Abruzzo; simmetria delle donne sotto la croce nelle sacre rappresentazioni, e dell’Italia davanti alla tv, ieri. Come uno schiaffo poderoso, che impone di fermarsi almeno un momento. L’enigma di una morte piombata come uno sparviero ci interroga perentoriamente. Davvero vince la morte, in una notte di terremoto, come, alla fine, nelle nostre singole vite? Cos’è la Pasqua, se non la memoria di un sepolcro vuoto, di un Dio risorto dalla morte? Le facce della gente al funerale sembravano riflettere, con una sorta di dolore pudico, quasi austero, una specie di ritrosia nel rispondere alle parole del celebrante. Come di figli troppo feriti per poter serenamente credere in una resurrezione, che nella loro stessa carne sembra oggi così crudelmente smentita. E questo è così profondamente umano. Chissà, sul Calvario, le facce di chi stava a guardare; avevano creduto in un Re, e vedevano un povero corpo martoriato. Chissà che buio infinito, quando Maddalena stava davanti al sepolcro, perché il suo Signore era morto. Ma il sepolcro, era vuoto. Lo sbalordimento, la gioia inaudita di Maddalena che incontra Cristo risorto. Niente di meno, credo, occorre ai padri e alle madri che hanno perso i loro figli. Questa è per molti, in Abruzzo, «l'ora della grande fede», come ha detto l’arcivescovo Giuseppe Molinari, che ha chiamato per nome alcuni dei suoi fedeli scomparsi (Fabio, Franca, Alessandra...). In un appello che ha fatto venire alla mente il buon pastore del Vangelo di Giovanni, che «chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori...e le pecore lo seguono, perchè conoscono la sua voce». In un appello verso un tempo in cui , ha ricordato il Papa dall’Apocalisse, «non ci sarà più la morte nè lutto nè lamento nè affanno, perchè le cose di prima sono passate». Quando quei figli perduti saranno per davvero riabbracciati. È la speranza cristiana: capace, nella sua certezza, di sfidare il futuro. E la morte.
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