a proposito di off-shore...
La recente storiella sulla società off-shore caraibica, che vedrebbe il cognato di Fini coinvolto perlomeno fino alla cintola, mi ha risvegliato dal torpore tipico di chi si è scocciato di andare a ritroso nel tempo in cerca di notizie quasi come un cane da tartufo. Ma poi il discorso di stasera a Milano (l'ennesimo della serie) di Berlusconi, tutto improntato all'attacco senza esclusione di colpi contro la magistratura, mi ha indotto ancor di più a rispolverare la vecchia e polverosa storiella (semisconosciuta) delle 64 società off-shore dell'allora Fininvest che era anche una Fininvest segreta, una Fininvest ombra. Un sistema di società domiciliate nei paradisi fiscali che, nelle intenzioni del Caimano, doveva restare sotterranea, pronta per compiere le operazioni più delicate, quelle che non si possono fare alla luce del sole per via di fastidiose leggi che mettono odiosi paletti ai comportamenti dei liberi imprenditori. Invece la Procura di Milano, purtroppo per Berlusconi, aiutata anche dalle polizie fiscali di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra, riuscì a scoprire il tutto. In particolare si appurò che attraverso le società estere della cosiddetta Fininvest «Group B» furono compiute, fuori da ogni bilancio nonchè fuori da ogni controllo fiscale e societario, molte operazioni illegali: dalla conquista di Telecinco in Spagna al controllo di Telepiù, dalle scalate a società come Rinascente, Standa e Mondadori a strani finanziamenti miliardari concessi a Giulio Malgara, il presidente dell’Auditel tv dell'epoca, dall’acquisto di calciatori al ripianamento dei bilanci del Milan, dal finanziamento di uomini politici al pagamento di giudici del Tribunale di Roma per comprare sentenze favorevoli. Ma per capire come funzionava questa Fininvest ombra è necessario fare una sorta di riassunto delle puntate precedenti.
Nel giugno del 1996 la Fininvest era a un passo dal tracollo economico. Il Biscione ha una posizione finanziaria netta negativa di 2.396 miliardi. I manager cercano di spremere liquidità dappertutto. Ma le banche hanno già dato e sono in guardia. La locomotiva del gruppo (la Publitalia 80, la concessionaria che raccoglie la pubblicità per le reti di Berlusconi) sconta le difficoltà del mercato pubblicitario. E pur di trovare i soldi si decide di acquistare la Standa.
L’azienda va male ma le casalinghe pagano subito e in contanti. In compenso, i fornitori vengono pagati a 120/150/180 giorni e la «casa degli italiani» sta andando in pezzi. Ma l’emergenza impone sacrifici. Per salvare la Fininvest Silvio Berlusconi ha solo una strada: staccare dal gruppo la parte più appetibile e cercare di venderla in Borsa quanto prima. Il 10 giugno 1996 la Consob, l’organo di vigilanza, deposita il prospetto di collocamento di Mediaset, la nuova subholding delle tre tv (Canale 5, Rete 4, Italia 1) presieduta da Fedele Confalonieri. A pagina 67 di questo documento c'è un paragrafo dal titolo «Procedimenti giudiziari e arbitrali». Ha il numero 17, forse non per caso, e in quattro pagine mette in rassegna un formidabile elenco di guai. Ecco il commento finale: «La Società (Mediaset) non può escludere che sui corsi delle azioni possano influire sia un eventuale esito negativo dei suddetti procedimenti, inclusi quelli relativi all’azionista di controllo, sia l’attenzione da parte dei mezzi di comunicazione». Il documento accenna in modo molto pudico al presunto falso in bilancio Fininvest. Una riga in totale. Ma è proprio questa riga che alimenta una tensione parossistica negli uffici milanesi del Biscione. La preoccupazione è fondata. La Procura di Milano ha appena ricevuto da Londra le carte del cosiddetto «Fininvest Group B - very discreet». L’attenzione molesta dei mezzi di comunicazione si è soffermata sul fatto che decine di società estere, spesso controllate in modo occulto, hanno creato fondi neri per ben 1.100 miliardi di lire. Lo strumento principale per alimentare queste disponibilità extracontabili è stata la compravendita alterata e contraffatta di diritti televisivi e cinematografici. Secondo i giudici milanesi, uomini politici, dirigenti del gruppo, calciatori e quant’altro sono stati pagati in questo modo per anni. Nello sforzo di non compromettere lo sbarco in Borsa tutti gli uomini di Mediaset ripetono ossessivamente: noi non c’entriamo con l’inchiesta, noi non c’entriamo con Fininvest. Lo slogan è credibile? No, per tre semplici motivi. Uno: Mediaset è una controllata di Fininvest al 72%. Due: i principali amministratori di Mediaset e quelli di Fininvest sono per lo più le stesse persone. Il terzo è il punto più importante, anche se non sembra. Nel mondo old economy del 1996 una società da quotare viene valutata sulla base del patrimonio. Ora, il patrimonio di Mediaset (nel 1996) è rappresentato dai diritti televisivi, cioè proprio il settore dove i giudici sospettano gli illeciti più gravi. Solo nel periodo fra il 1989 e il 1991, per fare un esempio, si sono volatilazzati 600 milioni di dollari in operazioni infragruppo su diritti negoziati a Londra. Il meccanismo è semplicissimo. La società A compra dalla società B che vende a C con un sovrapprezzo. C rivende a D e così via fino a Z. Da A a Z sono tutte controllate occulte Fininvest. Da A a Z si tratta sempre dello stesso film. Solo che costa cento anziché dieci. La differenza fra dieci e cento sono fondi neri. D’altra parte, i dirigenti del Biscione possono confidare sul fatto che le forti oscillazioni di prezzo nel mercato dei diritti sono una cosa normale. Tanto è vero che nel prospetto Mediaset la library dei diritti, cioè l’elemento principale e decisivo per il prezzo di collocamento dell’azione, è valutata 2.078 miliardi. Soltanto l’anno precedente valeva meno della metà (909 miliardi) sulla base di stime fatte prima da Claudio Scola, un perito del Tribunale di Bergamo, con la collaborazione della società specializzata Bannon. L’ultima cifra (2.078 miliardi) è stata indicata nel maggio del 1996 dalla Kagan world media, un’altra società specializzata nella valutazione dei diritti con sede a Los Angeles. Questa ricostruzione dimostra come, nel giugno 1996, l’ombra del Fininvest Group B sulla quotazione di Mediaset sia alquanto spessa e inevitabilmente fitta. In Italia, però, nessuno sembra accorgersene. Ognuna delle parti in causa tiene gli occhi fissi sul suo particolare e agisce in base alle norme del suo mestiere.
Incominciamo dalla magistratura. Il sostituto procuratore incaricato dell’inchiesta è Francesco Greco. E' un esperto di reati finanziari sostenuto da una brillante squadra di polizia giudiziaria. Pur essendo un membro storico del pool Mani pulite, non condivide il metodo Di Pietro fatto di arresti, confessioni e inchieste rapide. Ma gli scontri fra i due hanno avuto scarsa pubblicità e Di Pietro si è tolto la toga un anno e mezzo prima. Greco ha in mano ottimi elementi di prova documentale. Ha chiesto e ottenuto il prezioso appoggio del Serious Fraud Office (SFO), una delle strutture anticrimine finanziarie più preparate. Il 16 aprile 1996 gli inglesi del SFO hanno perquisito gli studi londinesi della Cmm Edsaco Group dell’avvocato David McKenzie Mills. Il bottino è stato ricco. Mills gestiva decine di società estere per conto della Fininvest, e di altri gruppi italiani come ad esempio Benetton. Pesanti elementi di prova sembrano mostrare che cifre enormi sono state sottratte ai bilanci ufficiali a partire dal 1989 e fino allo stesso1996.
Tutti i giornali più importanti ne parlano e non solo in Italia. Si occupano dell’affare gli inglesi e poi gli spagnoli, da quando, il 22 maggio 1996, il giudice Baltazar Garzón si presenta a Milano per avere aiuto nella sua inchiesta sul controllo occulto di Telecinco. Ma tutta questa agitazione, stranamente, non turba più di tanto la Consob. L’organo di controllo, al tempo guidato da Enzo Berlanda, si mostra soddisfatto della clausola apposta al paragrafo 17 del prospetto. Chi compra titoli Mediaset lo fa a suo rischio, come sempre accade in Borsa. Forse con Mediaset il rischio è un po’ più alto, ma tant’è. Fra Consob e magistratura non c’è comunicazione perché non è obbligatorio che ci sia. La magistratura è il potere giudiziario, che è autonomo e dipende solo dalla legge. E la Consob? Per quanto bistrattata, e considerata da molti quasi alla stregua di un ente inutile, la Consob è un organismo altrettanto autonomo. Con una piccola differenza. I suoi commissari non sono nominati con un concorso, come i giudici, ma dal ministero del Tesoro. In altre parole, la Consob risponde al potere esecutivo. Il ministro del Tesoro, nominato il 18 maggio 1996, non è uno qualunque. Si chiama Carlo Azeglio Ciampi ed è stato governatore della Banca d’Italia. Dal suo governo, guidato da Romano Prodi, arriva il via libera alla quotazione Mediaset.
L'Ulivo, ancora una volta in quei tempi, dimostra grande senso di responsabilità. Non si intromette nella quotazione di Mediaset e lascia andare la magistratura per la sua strada e la Consob per la sua, anche se le due strade non si incrociano mai, anche se ci sono 1.100 miliardi di fondi neri finiti, fra gli altri, a Bettino Craxi e a Cesare Previti, anche se l’azionista di controllo si chiama Fininvest ed è in mano al capo dell’opposizione, anche se Fininvest manterrà uno strettissimo controllo di gestione su Mediaset (dopo la quotazione) in qualità di azionista di riferimento, anche se le voci di vendite delle tv del Biscione a Rupert Murdoch messe in giro da Berlusconi si riveleranno puntualmente delle bufale. Nel giugno del 1996 ciò che davvero importa a Romano Prodi, e ancor di più a Massimo D’Alema, è un rapporto disteso con Berlusconi, in modo da realizzare le riforme della Bicamerale. Anche se poi le riforme non si faranno. L’errore strategico dell'Ulivo, che più di tutto teme di disturbare i mercati, sdogana politicamente un periodo di almeno sette anni in cui il gruppo Fininvest è stato gestito nell’assoluto disprezzo delle leggi che regolano i mercati stessi. Il 23 gennaio 2001 arriva puntuale la richiesta della Procura di Milano di rinvio a giudizio per Berlusconi, Confalonieri, Galliani, Livolsi e per tutti gli altri manager. Dai pubblici ministeri milanesi vengono elencati una serie di misfatti societari impressionanti. I 1.100 miliardi di fondi neri sono serviti per frodare il fisco, presentare bilanci abbellitti rispetto alla realtà, controllare canali tv contro la normativa antitrust. Sono pratiche che si possono condensare in una sola espressione: concorrenza sleale. A questo disinvolto stile manageriale va aggiunto il pagamento di uomini politici al fine di ottenere un trattamento favorevole nella legislazione sulle tv. Del resto, il triennio di fuoco delle società very discreet (1989-1991) è quello decisivo per il core business dell’impero del Biscione. Quei tre anni coincidono con il momento più duro della battaglia per il controllo dell’emittenza. Dopo feroci scontri parlamentari, nell’ottobre del 1990 il Parlamento vara la legge Mammì. Per il parlamentare repubblicano Oscar Mammì e il suo partito sarà il canto del cigno. Assediato dal Caf di Craxi Andreotti e Forlani, il Pri uscirà dal governo nell’aprile del 1991. Il nuovo ministro è il socialdemocratico Carlo Vizzini ma la legge resta. Vince il duopolio con tre reti alla Rai e altrettante alla Fininvest che, però, ha l’asso nella manica. Il primo giugno 1991 debutta Telepiù, la prima pay-tv italiana. La Fininvest ha una partecipazione ufficiale del 10% ma le polemiche su un controllo occulto da parte di Berlusconi incominciano subito, a stento frenate dal garante per l’editoria, Giuseppe Santaniello. I giornali del tempo non possono, ovviamente, dare notizia di altri due fatti che accadono negli stessi mesi del 1991 nel segreto di alcuni paradisi societari esteri. A settembre la All Iberian, una società off-shore di Guernesey finanziata dalla Silvio Berlusconi Finanziaria del Lussemburgo (poi Société financière internationale d’investissement), versa 15 miliardi di lire sul conto Northern holding della Tdb di Ginevra. Da qui il denaro passa su un conto della Banque internationale de Luxembourg intestato a Mauro Giallombardo ma riferibile a Bettino Craxi. L’altra operazione targata 1991 sono i 91 miliardi di Cct, provenienti dai fondi personali di Berlusconi, monetizzati presso istituti di credito di San Marino e, secondo alcune testimonianze agli atti dell’inchiesta, utilizzati per «il finanziamento della politica».
Sono gli stessi anni in cui parte l’operazione Telecinco, l’emittente spagnola comprata dal Biscione attraverso All Iberian e Catwell con uno schermo creato da Solidal e Principal finance, la società che nel 1991 riempie di miliardi la stessa All Iberian, finanziatrice del Partito socialista. Le concessioni per le tv italiane arrivano nell'agosto del 1992. Giusto in tempo. Sei mesi prima, a febbraio, era stato arrestato un certo Mario Chiesa, socialista, e quell’arresto aveva creato forti disagi a Bettino Craxi. Nel 1993, in piena Tangentopoli, parte il «progetto wave». Ecco le sue tappe principali. Mediaset, una piccola srl, ingloba il ramo d’azienda di Reteitalia spa che controlla alcune delle più importanti società londinesi del gruppo attive nel trading di diritti. A febbraio del 1994, mentre Berlusconi si prepara a vincere le sue prime elezioni, Mediaset srl viene incorporata in Futura finanziaria e sparisce. A dicembre Futura finanziaria cambia denominazione sociale e torna a chiamarsi Mediaset srl. Nello stesso mese viene costituita a Malta la International Media Services ltd. Nello stesso tempo, le società londinesi di trading amministrate dall'avvocato David Mills vengono gradualmente svuotate finché, nel mese di marzo del 1995, Mediaset diventa società per azioni. Dalle carte ufficiali spariscono le ultime società di Mills (Leopard communications, Lion communications, Nst) mentre IMS entra in attività alla Valletta. La società maltese diventa subito la chiave di volta del sistema dei diritti. Fin dal primo esercizio ne tratta una massa pari circa alla metà dell’intero volume acquistato da Mediaset nel 1995 (1.173 miliardi). Neppure l’IMS, che pure figurerà nel prospetto di collocamento in Borsa di Mediaset, è proprio il massimo della trasparenza. La sede in Saint John street, a La Valletta, è poco più di un punto di appoggio affidato a due nominees imposti dal diritto societario locale. Gli uffici operativi sono quelli di Lugano, in Svizzera, e da lì si trattano i film con le major di Los Angeles. Fino allo sbarco in Borsa, quindi, il cuore di Mediaset sarà all'estero, a dispetto dei sospetti sulla Fininvest Group B. Il collocamento è un successo. Sei mesi dopo la quotazione, all’inizio del 1997, la Fininvest si ritrova con una posizione finanziaria netta positiva e con 500 miliardi di liquidità in cassa. Gli azionisti sono contenti. D’Alema presiede la Commissione bicamerale. La Consob sorveglia. Il dottor Greco prepara la sua richiesta di rinvio a giudizio. Ognuno, insomma, coltiva il suo orto, in piena autonomia. Perché "offellee fà el tò mestee", («pasticcere, fa il tuo mestiere») come dice sempre il Cavaliere. Solo lui, che è imprenditore con gli imprenditori, operaio con gli operai, coltivatore con la Coldiretti e centravanti con i centravanti, non ha problemi di orto. L’Italia è il suo grande latifondo. E a quanto pare ancora oggi continua a raccogliere indisturbato i suoi ricchi frutti. Ma forse tra poco qualcuno (la Magistratura?) gli presenterà il conto. Definitivo.
L’azienda va male ma le casalinghe pagano subito e in contanti. In compenso, i fornitori vengono pagati a 120/150/180 giorni e la «casa degli italiani» sta andando in pezzi. Ma l’emergenza impone sacrifici. Per salvare la Fininvest Silvio Berlusconi ha solo una strada: staccare dal gruppo la parte più appetibile e cercare di venderla in Borsa quanto prima. Il 10 giugno 1996 la Consob, l’organo di vigilanza, deposita il prospetto di collocamento di Mediaset, la nuova subholding delle tre tv (Canale 5, Rete 4, Italia 1) presieduta da Fedele Confalonieri. A pagina 67 di questo documento c'è un paragrafo dal titolo «Procedimenti giudiziari e arbitrali». Ha il numero 17, forse non per caso, e in quattro pagine mette in rassegna un formidabile elenco di guai. Ecco il commento finale: «La Società (Mediaset) non può escludere che sui corsi delle azioni possano influire sia un eventuale esito negativo dei suddetti procedimenti, inclusi quelli relativi all’azionista di controllo, sia l’attenzione da parte dei mezzi di comunicazione». Il documento accenna in modo molto pudico al presunto falso in bilancio Fininvest. Una riga in totale. Ma è proprio questa riga che alimenta una tensione parossistica negli uffici milanesi del Biscione. La preoccupazione è fondata. La Procura di Milano ha appena ricevuto da Londra le carte del cosiddetto «Fininvest Group B - very discreet». L’attenzione molesta dei mezzi di comunicazione si è soffermata sul fatto che decine di società estere, spesso controllate in modo occulto, hanno creato fondi neri per ben 1.100 miliardi di lire. Lo strumento principale per alimentare queste disponibilità extracontabili è stata la compravendita alterata e contraffatta di diritti televisivi e cinematografici. Secondo i giudici milanesi, uomini politici, dirigenti del gruppo, calciatori e quant’altro sono stati pagati in questo modo per anni. Nello sforzo di non compromettere lo sbarco in Borsa tutti gli uomini di Mediaset ripetono ossessivamente: noi non c’entriamo con l’inchiesta, noi non c’entriamo con Fininvest. Lo slogan è credibile? No, per tre semplici motivi. Uno: Mediaset è una controllata di Fininvest al 72%. Due: i principali amministratori di Mediaset e quelli di Fininvest sono per lo più le stesse persone. Il terzo è il punto più importante, anche se non sembra. Nel mondo old economy del 1996 una società da quotare viene valutata sulla base del patrimonio. Ora, il patrimonio di Mediaset (nel 1996) è rappresentato dai diritti televisivi, cioè proprio il settore dove i giudici sospettano gli illeciti più gravi. Solo nel periodo fra il 1989 e il 1991, per fare un esempio, si sono volatilazzati 600 milioni di dollari in operazioni infragruppo su diritti negoziati a Londra. Il meccanismo è semplicissimo. La società A compra dalla società B che vende a C con un sovrapprezzo. C rivende a D e così via fino a Z. Da A a Z sono tutte controllate occulte Fininvest. Da A a Z si tratta sempre dello stesso film. Solo che costa cento anziché dieci. La differenza fra dieci e cento sono fondi neri. D’altra parte, i dirigenti del Biscione possono confidare sul fatto che le forti oscillazioni di prezzo nel mercato dei diritti sono una cosa normale. Tanto è vero che nel prospetto Mediaset la library dei diritti, cioè l’elemento principale e decisivo per il prezzo di collocamento dell’azione, è valutata 2.078 miliardi. Soltanto l’anno precedente valeva meno della metà (909 miliardi) sulla base di stime fatte prima da Claudio Scola, un perito del Tribunale di Bergamo, con la collaborazione della società specializzata Bannon. L’ultima cifra (2.078 miliardi) è stata indicata nel maggio del 1996 dalla Kagan world media, un’altra società specializzata nella valutazione dei diritti con sede a Los Angeles. Questa ricostruzione dimostra come, nel giugno 1996, l’ombra del Fininvest Group B sulla quotazione di Mediaset sia alquanto spessa e inevitabilmente fitta. In Italia, però, nessuno sembra accorgersene. Ognuna delle parti in causa tiene gli occhi fissi sul suo particolare e agisce in base alle norme del suo mestiere.
Incominciamo dalla magistratura. Il sostituto procuratore incaricato dell’inchiesta è Francesco Greco. E' un esperto di reati finanziari sostenuto da una brillante squadra di polizia giudiziaria. Pur essendo un membro storico del pool Mani pulite, non condivide il metodo Di Pietro fatto di arresti, confessioni e inchieste rapide. Ma gli scontri fra i due hanno avuto scarsa pubblicità e Di Pietro si è tolto la toga un anno e mezzo prima. Greco ha in mano ottimi elementi di prova documentale. Ha chiesto e ottenuto il prezioso appoggio del Serious Fraud Office (SFO), una delle strutture anticrimine finanziarie più preparate. Il 16 aprile 1996 gli inglesi del SFO hanno perquisito gli studi londinesi della Cmm Edsaco Group dell’avvocato David McKenzie Mills. Il bottino è stato ricco. Mills gestiva decine di società estere per conto della Fininvest, e di altri gruppi italiani come ad esempio Benetton. Pesanti elementi di prova sembrano mostrare che cifre enormi sono state sottratte ai bilanci ufficiali a partire dal 1989 e fino allo stesso1996.
Tutti i giornali più importanti ne parlano e non solo in Italia. Si occupano dell’affare gli inglesi e poi gli spagnoli, da quando, il 22 maggio 1996, il giudice Baltazar Garzón si presenta a Milano per avere aiuto nella sua inchiesta sul controllo occulto di Telecinco. Ma tutta questa agitazione, stranamente, non turba più di tanto la Consob. L’organo di controllo, al tempo guidato da Enzo Berlanda, si mostra soddisfatto della clausola apposta al paragrafo 17 del prospetto. Chi compra titoli Mediaset lo fa a suo rischio, come sempre accade in Borsa. Forse con Mediaset il rischio è un po’ più alto, ma tant’è. Fra Consob e magistratura non c’è comunicazione perché non è obbligatorio che ci sia. La magistratura è il potere giudiziario, che è autonomo e dipende solo dalla legge. E la Consob? Per quanto bistrattata, e considerata da molti quasi alla stregua di un ente inutile, la Consob è un organismo altrettanto autonomo. Con una piccola differenza. I suoi commissari non sono nominati con un concorso, come i giudici, ma dal ministero del Tesoro. In altre parole, la Consob risponde al potere esecutivo. Il ministro del Tesoro, nominato il 18 maggio 1996, non è uno qualunque. Si chiama Carlo Azeglio Ciampi ed è stato governatore della Banca d’Italia. Dal suo governo, guidato da Romano Prodi, arriva il via libera alla quotazione Mediaset.
L'Ulivo, ancora una volta in quei tempi, dimostra grande senso di responsabilità. Non si intromette nella quotazione di Mediaset e lascia andare la magistratura per la sua strada e la Consob per la sua, anche se le due strade non si incrociano mai, anche se ci sono 1.100 miliardi di fondi neri finiti, fra gli altri, a Bettino Craxi e a Cesare Previti, anche se l’azionista di controllo si chiama Fininvest ed è in mano al capo dell’opposizione, anche se Fininvest manterrà uno strettissimo controllo di gestione su Mediaset (dopo la quotazione) in qualità di azionista di riferimento, anche se le voci di vendite delle tv del Biscione a Rupert Murdoch messe in giro da Berlusconi si riveleranno puntualmente delle bufale. Nel giugno del 1996 ciò che davvero importa a Romano Prodi, e ancor di più a Massimo D’Alema, è un rapporto disteso con Berlusconi, in modo da realizzare le riforme della Bicamerale. Anche se poi le riforme non si faranno. L’errore strategico dell'Ulivo, che più di tutto teme di disturbare i mercati, sdogana politicamente un periodo di almeno sette anni in cui il gruppo Fininvest è stato gestito nell’assoluto disprezzo delle leggi che regolano i mercati stessi. Il 23 gennaio 2001 arriva puntuale la richiesta della Procura di Milano di rinvio a giudizio per Berlusconi, Confalonieri, Galliani, Livolsi e per tutti gli altri manager. Dai pubblici ministeri milanesi vengono elencati una serie di misfatti societari impressionanti. I 1.100 miliardi di fondi neri sono serviti per frodare il fisco, presentare bilanci abbellitti rispetto alla realtà, controllare canali tv contro la normativa antitrust. Sono pratiche che si possono condensare in una sola espressione: concorrenza sleale. A questo disinvolto stile manageriale va aggiunto il pagamento di uomini politici al fine di ottenere un trattamento favorevole nella legislazione sulle tv. Del resto, il triennio di fuoco delle società very discreet (1989-1991) è quello decisivo per il core business dell’impero del Biscione. Quei tre anni coincidono con il momento più duro della battaglia per il controllo dell’emittenza. Dopo feroci scontri parlamentari, nell’ottobre del 1990 il Parlamento vara la legge Mammì. Per il parlamentare repubblicano Oscar Mammì e il suo partito sarà il canto del cigno. Assediato dal Caf di Craxi Andreotti e Forlani, il Pri uscirà dal governo nell’aprile del 1991. Il nuovo ministro è il socialdemocratico Carlo Vizzini ma la legge resta. Vince il duopolio con tre reti alla Rai e altrettante alla Fininvest che, però, ha l’asso nella manica. Il primo giugno 1991 debutta Telepiù, la prima pay-tv italiana. La Fininvest ha una partecipazione ufficiale del 10% ma le polemiche su un controllo occulto da parte di Berlusconi incominciano subito, a stento frenate dal garante per l’editoria, Giuseppe Santaniello. I giornali del tempo non possono, ovviamente, dare notizia di altri due fatti che accadono negli stessi mesi del 1991 nel segreto di alcuni paradisi societari esteri. A settembre la All Iberian, una società off-shore di Guernesey finanziata dalla Silvio Berlusconi Finanziaria del Lussemburgo (poi Société financière internationale d’investissement), versa 15 miliardi di lire sul conto Northern holding della Tdb di Ginevra. Da qui il denaro passa su un conto della Banque internationale de Luxembourg intestato a Mauro Giallombardo ma riferibile a Bettino Craxi. L’altra operazione targata 1991 sono i 91 miliardi di Cct, provenienti dai fondi personali di Berlusconi, monetizzati presso istituti di credito di San Marino e, secondo alcune testimonianze agli atti dell’inchiesta, utilizzati per «il finanziamento della politica».
Sono gli stessi anni in cui parte l’operazione Telecinco, l’emittente spagnola comprata dal Biscione attraverso All Iberian e Catwell con uno schermo creato da Solidal e Principal finance, la società che nel 1991 riempie di miliardi la stessa All Iberian, finanziatrice del Partito socialista. Le concessioni per le tv italiane arrivano nell'agosto del 1992. Giusto in tempo. Sei mesi prima, a febbraio, era stato arrestato un certo Mario Chiesa, socialista, e quell’arresto aveva creato forti disagi a Bettino Craxi. Nel 1993, in piena Tangentopoli, parte il «progetto wave». Ecco le sue tappe principali. Mediaset, una piccola srl, ingloba il ramo d’azienda di Reteitalia spa che controlla alcune delle più importanti società londinesi del gruppo attive nel trading di diritti. A febbraio del 1994, mentre Berlusconi si prepara a vincere le sue prime elezioni, Mediaset srl viene incorporata in Futura finanziaria e sparisce. A dicembre Futura finanziaria cambia denominazione sociale e torna a chiamarsi Mediaset srl. Nello stesso mese viene costituita a Malta la International Media Services ltd. Nello stesso tempo, le società londinesi di trading amministrate dall'avvocato David Mills vengono gradualmente svuotate finché, nel mese di marzo del 1995, Mediaset diventa società per azioni. Dalle carte ufficiali spariscono le ultime società di Mills (Leopard communications, Lion communications, Nst) mentre IMS entra in attività alla Valletta. La società maltese diventa subito la chiave di volta del sistema dei diritti. Fin dal primo esercizio ne tratta una massa pari circa alla metà dell’intero volume acquistato da Mediaset nel 1995 (1.173 miliardi). Neppure l’IMS, che pure figurerà nel prospetto di collocamento in Borsa di Mediaset, è proprio il massimo della trasparenza. La sede in Saint John street, a La Valletta, è poco più di un punto di appoggio affidato a due nominees imposti dal diritto societario locale. Gli uffici operativi sono quelli di Lugano, in Svizzera, e da lì si trattano i film con le major di Los Angeles. Fino allo sbarco in Borsa, quindi, il cuore di Mediaset sarà all'estero, a dispetto dei sospetti sulla Fininvest Group B. Il collocamento è un successo. Sei mesi dopo la quotazione, all’inizio del 1997, la Fininvest si ritrova con una posizione finanziaria netta positiva e con 500 miliardi di liquidità in cassa. Gli azionisti sono contenti. D’Alema presiede la Commissione bicamerale. La Consob sorveglia. Il dottor Greco prepara la sua richiesta di rinvio a giudizio. Ognuno, insomma, coltiva il suo orto, in piena autonomia. Perché "offellee fà el tò mestee", («pasticcere, fa il tuo mestiere») come dice sempre il Cavaliere. Solo lui, che è imprenditore con gli imprenditori, operaio con gli operai, coltivatore con la Coldiretti e centravanti con i centravanti, non ha problemi di orto. L’Italia è il suo grande latifondo. E a quanto pare ancora oggi continua a raccogliere indisturbato i suoi ricchi frutti. Ma forse tra poco qualcuno (la Magistratura?) gli presenterà il conto. Definitivo.
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