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mercoledì 3 settembre 2008

un indimenticabile eroe italiano


Il 3 settembre del 1982, a Palermo, in via Isidoro Carini, poco dopo le ore 21 un commando mafioso trucidò il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente di scorta Domenico Russo. A 26 anni di distanza da quel tragico episodio molti italiani hanno ancora nel cuore il generale nonchè prefetto di ferro che, dopo aver sconfitto il terrorismo delle Brigate Rosse, stava cercando di debellare anche la mafia in Sicilia. Ma lo Stato lo lasciò da solo in quella improba impresa (significativa in tal senso l'ultima intervista di Dalla Chiesa a Giorgio Bocca qualche giorno prima dell'eccidio). Gli investigatori, grazie alla testimonianza dei pentiti, sono riusciti a ricostruire la dinamica dell’agguato e ad identificare i killer ed i vertici di Cosa Nostra che ordinarono l’azione omicida. Invece ancora oggi sono molti i misteri sui mandanti occulti, cioè coloro che "ispirarono" Cosa Nostra. A tal proposito in una intercettazione ambientale il boss Giuseppe Guttadauro, uomo di fiducia dell'ex superlatitante Bernardo Provenzano, mentre parla con Salvatore Aragona, anche lui medico e mafioso, dichiara « Salvatore…ma tu partici dall’ottantadue, invece… ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare a Dalla Chiesa…andiamo parliamo chiaro…». «E che perché glielo dovevamo fare qua questo favore…». Sorge una domanda: a chi? Ma andiamo per ordine. Le fasi dell'eccidio sono state ricostruite dai pentiti, Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo. L'A112, su cui si trovavano il prefetto e la moglie, venne affiancata e superata da una Bmw 518 su cui viaggiavano Antonino Madonìa e Calogero Ganci. A fare fuoco con un kalashnikov fu Madonìa. Una seconda vettura, guidata da Anzelmo, seguiva il prefetto, pronta ad intervenire per bloccare l'eventuale reazione dell'agente di scorta. Russo fu assassinato da Pino Greco, detto «Scarpuzzedda», che seguiva i suoi complici a bordo di una moto. La A112, dopo essere stata investita dal fuoco del kalashnikov, sbandò, costringendo l'auto dei killer a sterzare bruscamente a destra. Fecero a gara a chi sparava più colpi. "Me li avete fatti trovare morti", disse ai complici Pino Greco, killer del gruppo di fuoco di Cosa nostra, rammaricato di essere arrivato quando il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie, Emanuela Setti Carraro, erano già morti. Respirava ancora, agonizzante, l'autista, Domenico Russo. Lo finì Pino Greco. Il 3 settembre del 1982 la guerra che la mafia aveva dichiarato allo Stato segnò uno dei momenti più tragici. Sotto una pioggia di piombo cadde un simbolo delle istituzioni, costretto, negli ultimi giorni della sua vita, ad affidare al giornalista Giorgio Bocca l'amaro sfogo di chi ha capito di essere solo. "Un uomo viene colpito quando viene lasciato solo", disse. Parole che descrivevano le condizioni difficili in cui il generale svolgeva il compito di superprefetto contro la mafia. Nell' uccisione di Dalla Chiesa il ruolo esecutivo della mafia è ormai accertato. A distanza di 26 anni dall'eccidio, però, restano intatte le zone d'ombra di cui parlano gli stessi giudici di Palermo che hanno condannato i killer. Le sentenze sottolineano la "coesistenza di specifici interessi - anche all'interno delle istituzioni - all'eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale". La giustizia si è fermata ai mandanti mafiosi, dunque, e agli esecutori materiali. All'ergastolo sono stati condannati i killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia e a 14 anni i collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Gli uomini della "cupola", Totò Riina, Bernardo Provenzano e Michele Greco, erano già stati condannati al maxiprocesso, nato proprio da un rapporto di Dalla Chiesa contro 162 esponenti di Cosa nostra. Durante i giorni che precedettero la strage di via Carini il generale Dalla Chiesa cercò di rispondere allo strapotere delle cosche e di spezzare il legame tra mafia e politica. Le iniziative di Dalla Chiesa furono frenate da ostilità politiche ambientali e da una ridotta capacità di intervento. Il prefetto reclamò continuamente la concessione di poteri di coordinamento che solo dopo la sua morte, però, vennero formalizzati. A margine di questa giornata dedicata al ricordo del sacrificio del generale, di sua moglie e dell'agente di scorta, vi consiglio di rivedere la puntata de La Storia siamo noi di Giovanni Minoli (http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=1076) che con la consueta, intelligente, asciutta rievocazione ci induce a qualche riflessione di non poco conto. E ci consegna un ottimo ricordo dell'amato generale.

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