tpi-back

domenica 21 marzo 2010

la sagra paesana del PdL


Ieri ho volutamente rinunciato alla classica uscita del sabato pomeriggio per potermi gustare in diretta tv la meravigliosa, oceanica, fantasmagorica manifestazione del Popolo della Libertà a Roma in piazza San Giovanni. Ero certo di poter assistere a qualcosa di indimenticabile, di grandioso, di straordinario: un evento che avrebbe fatto dire a chiunque "io c'ero" lasciando in dote ai figli e ai pronipoti un qualcosa di magico, non fosse altro che per la presenza sul palco di quel sant'uomo di Silvio Berlusconi. E così è stato. Una folla multicolore di milioni e milioni di cittadini, provenienti da ogni dove, per terra e per mare, con treni e mezzi anfibi, in carrozzella o con gli skateboard, hanno rumorosamente raggiunto l'epicentro della nuova amorevole e patriottica Italia berlusconiana, in quella piazza San Giovanni un tempo memore dei comizi di Enrico Berlinguer e di Luciano Lama, delle feste del Primo Maggio e delle manifestazioni contro la guerra in Iraq e oggi invece palcoscenico inconsapevole di una sagra paesana ad uso e consumo degli adepti del santone di Arcore. Striscioni, cori e bandiere al vento in un unico e prolungato orgasmo politico tinto d'azzurro; battimani e saltelli nevrotici accompagnati da garruli incitamenti via megafono per inneggiare al Capo (che ama tutti e vuole proteggere i suoi discepoli dal male comunista) e per insultare i vari Di Pietro, Bersani e Bonino (con qualche Travaglio in mezzo che fa sempre pendant) rei di essere i facinorosi nemici del Popolo della Libertà e soprattutto acerrimi avversari di sua Maestà Re Silvio. Le immagini che mi rimandava lo schermo tv hanno determinato in me un misto di compassione e di ilarità: vedere la candidata del Lazio (la Polverini) saltellare gioiosa sul megapalco al ritmo di "Non è un'avventura" di Battisti, prodigandosi in un improbabile karaoke, mi ha intristito il cuore e me l'ha fatta profondamente rimpiangere nella versione molto più sobria e forse più intellettualmente accettabile delle sue lontane apparizioni a Ballarò, prima dell' improvvisa folgorazione sulla via di Arcore. Assistere a quella specie di giuramento da giovani marmotte dei tredici candidati regionali, intenti a declamare parole senza senso, appoggiando la mano destra sul cuore (qualcuno anche sulla gola, non tutti siamo uguali...) mentre il Santone impartiva la benedizione mi ha fatto desiderare, in quel momento, di poter essere al raduno dei mangiatori di anguria, se non altro per tenere impegnata la bocca. Insomma, devo riconoscerlo, ieri mi sono autoflaggellato seguendo quelle due ore di diretta televisiva di RAInews24 (fortunatamente non sono andato oltre, risparmiandomi il TG delle 19 di Emilio Fede); ho voluto masochisticamente seguire le performanti evoluzioni dialettiche (e anche mimiche) dei ministri pidiellini e dei candidati regionali, una sorta di moderna Armata Brancaleone formata da guitti e saltimbanchi, corruttori e corrotti, ballerine e soliti nani. Uno spaccato reale dell'Italia made in Berlusconi in cui ancora, malgrado tutto, molti trovano ricovero e ragion d'essere. Contenti loro...

domenica 14 marzo 2010

la solita ossessione di Vittorio Feltri


Come si dice, a forza di andare con lo zoppo s'impara a zoppicare. Vittorio Feltri non da oggi ha una certa simpatia per Silvio Berlusconi. E' da molti anni che lo circuisce con frasi di circostanza, messaggi di riverenza e con articoli dettati dalla voglia di accaparrarsi la compiacenza di Sua Emittenza. Dopo aver fatto fuori il direttore di Avvenire, reo di essere stato troppo critico sulle inopportune scivolate di comportamento e di morale ad opera del presidente del Consiglio; dopo aver avallato gli articoli contro Di Pietro siglati da quei prototipi di giornalismo d'alto lignaggio che sono Alessandro Sallusti e Nicola Porro e dopo aver scritto di cotte e di crude sulla sinistra, adesso il buon Littorio persegue un'unica strada: quella di demonizzare e denigrare uno dei nemici più potenti che attualmente alimentano gli incubi notturni del Cavaliere, vale a dire Gianfranco Fini. Il direttore lecchino fa scudo con il suo giornalino per evitare che le frecciatine e le dissociazioni continue ad opera del presidente della Camera depauperino troppo le resistenze politiche e umane del beato Silvio. Non perde giorno, l'impomatato e occhialuto direttorino, nello scrivere peste e corna nei riguardi della terza carica dello Stato, senza il minimo riguardo e senza vergogna. L'ultima perla della serie è l'editoriale di questa mattina (http://rassegnastampa.formez.it/rassegnaStampaView2.php?id=214299) con il quale addirittura si cala nei panni di un novello Mago Otelma: fa le previsioni per il futuro. Dice che Fini sta preparando un nuovo partito (scissionista) che dovrebbe mangiarsi quel che resta del PdL. Oramai siamo arrivati a livelli di cannibalismo politico, stante ciò che la fervida (e malata) mente di Feltri partorisce. Per fortuna che c'è chi può rispondere per le rime alle stravaganze giornalistiche del sommo Littorio. E' Filippo Rossi che, dalle colonne di Fare Futuro Webmagazine, gli dedica un articolo che praticamente riduce in poltiglia ciò che resta della risicata credibilità del direttore del Giornale. Godetevi questo pezzo d'alta scuola giornalistica di Filippo Rossi, una specie di rumorosa pernacchia (stile Eduardo De Filippo) all'indirizzo del lecchino di fiducia di Berlusconi. Oggi è nato ufficialmente un tipo di giornalista tutto nuovo. Bravissimo, non c'è che dire. Impeccabile nei suoi racconti, preciso nei particolari. Un giornalista che si vanta di essere un cronista, che svela retroscena, che riesce a mettere in relazione avvenimenti che agli occhi dei più appaiono distinti e separati. Un giornalista un po' Marco Travaglio e un po' Milena Gabanelli. Un po' Dylan Dog e un po' Martin Mystere. E sì, perchè il giornalista in questione è troppo bravo per accontentarsi di quel che è avvenuto, di quel che è stato. Deve allargare il suo sguardo là dove nessuno sa vedere. Non gli basta spiegare il dove, il come, il perchè, il chi, il quando. Deve fare di più. E allora ecco la trovata: da un po' di tempo il suo QUANDO si applica al futuro. Non nel modo più scontato, ovviamente. Perchè non è da lui cercare di prevederlo (quel futuro) analizzando il presente e il passato. Troppa fatica. No, lui va più per le spicce: è fatto così, non guarda in faccia a nessuno. E così ha deciso di utilizzare una sorta di macchina del tempo, come quella del film "Ritorno al futuro". Solo che lui non racconta quel che è stato, ma quel che sarà. Le sue sono vere e proprie CRONACHE DAL FUTURO, alla stregua di un Isaac Asimov. Perchè lui ha visto cose che noi umani potremo vedere solo quando avverranno veramente. E le vedremo senz'altro, ce lo garantisce lui. D'altra parte lo ripete sempre, a ogni evenienza: "Io racconto notizie". E' il suo mantra, la sua giustificazione ultima, il suo credo estremo. Ma le notizie devono essere talmente nuove, sempre più nuove, che alla fine è quasi ovvio che il nostro giornalista abbia deciso di raccontarci quelle che devono ancora materializzarsi. Che poi hanno anche un altro pregio: nessuno le può smentire fino in fondo. Perchè nessuno ha potuto vedere (ancora) quel che solo lui ha intravisto nella sua personalissima sfera di cristallo. Questione di fede. E di preveggenza: un po' Mago Merlino, un po' Maga Magò. Altro che FARE FUTURO. Lui il futuro lo racconta direttamente. P.S.: solo un consiglio. A questo punto potrebbe cambiare nome al quotidiano che fu del grande Indro Montanelli. Potrebbe chiamarla direttamente LA GAZZETTA DEL PROFETA.

sabato 13 marzo 2010

Innocenzi (Giancarlo) pressioni sulla libertà d'informazione


E' stata questa puntata di Annozero (http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-219d051d-d515-4c52-8790-fc2dc81d8a53.html?p=0%22), andata in onda lo scorso 3 dicembre, a scatenare l'iraconda e scomposta reazione del presidente del Consiglio in carica (speriamo ancora per poco...) finalizzata al tentativo di bloccare, con qualunque mezzo e in qualsiasi modo, la messa in onda della prevista trasmissione sul caso Mills. In verità è stata anche quella sorta di peripatetica della carta stampata, che risponde al nome di Maurizio Belpietro, a informare prontamente (da stagionato e comprovato lecchino) il suo padrone di Palazzo Chigi sulla preparazione di Michele Santoro, dal quale era stato invitato, alla trasmissione dedicata al famigerato avvocato inglese. E allora cosa fa l'ineffabile e democratico presidente del Consiglio? Chiama uno dei suoi sgherri più fidati per quanto concerne le comunicazioni di massa, vale a dire Giancarlo Innocenzi, uno dei membri dell'AGCOM (Autorità costituita nel 1997, preposta al controllo dell'intero mercato delle comunicazioni e che dovrebbe garantire, in base ai princìpi dell'art. 21 della Costituzione, un'informazione pluralista, imparziale, obiettiva e di qualità), e gli ordina perentoriamente di trovare una qualsiasi soluzione affinchè la trasmissione di Santoro non vada in onda. Fulgido esempio di libertà d'informazione, scevro da qualsiasi interferenza da parte della presidenza del Consiglio in uso privato dello Stato e nei pubblici servizi creati per la collettività. Lampante dimostrazione di assoluta trasparenza e genuinità dell'Authority nell'attenersi all'obbligo statutario di lealtà e imparzialità per NON determinare indebiti vantaggi a qualcuno (inavvertitamente magari per chi dimora a Palazzo Grazioli). E come se non bastasse, il Principe della Libertà chiama al telefono anche un altro dei suoi lecchini di fiducia, vale a dire il direttore del TG1 Augusto Minchiolini, il quale si attiva immediatamente in occasione della deposizione di Gaspare Spatuzza al processo Dell'Utri, deliziandoci la sera successiva con uno dei suoi immancabili e imparziali editoriali che tanto ci fanno rimpiangere quelli di trent'anni fa di Gustavo Selva (altro piduista di riconosciuto valore) al Gr2. Come chiamare queste splendide pillole di delucidazione televisiva se non legittime derivazioni di una pratica malata del comando che deforma inevitabilmente il potere di chi lo detiene, arrivando conseguentemente alla manipolazione di massa dell'informazione? Come non associare tutto questo a delle evidenti prove di regime gestite dal Sovrano di Arcore con più azioni (del medesimo disegno criminoso) sistematiche di minaccia e di controllo dell'informazione pubblica, all'ombra di un già ripugnante e gigantesco conflitto di interessi? A mio modesto avviso questa faccenda dell'inchiesta di Trani su Berlusconi e Innocenzi è un'altra istantanea, nitida e conseguente, sul potere assoluto (e illegale) detenuto da colui che quindici anni fa, per sfuggire alle maglie della magistratura e per non vedere il sole a scacchi, fondò in fretta e furia (e Giancarlo Innocenzi era fra i primi adepti) un partito di plastica per ammaliare gli italioti promettendo a destra e a manca, con il solo risultato di sistemare tutti i propri (loschi) affari, oltre a quelli degli amici, e di farla franca per quanto concerne il rispetto della legalità e dell'uguaglianza rispetto agli altri cittadini. Certo, gli anni e i risultati elettorali stanno lì a dimostrare che finora c'è riuscito. Ma è anche vero che una sottile buccia di banana, magari fatta cadere inconsapevolmente dalla procura di Trani, può provocare dolorose scivolate e conseguenze ancor più nefaste. Francamente molti se lo augurano. Compreso il sottoscritto.

giovedì 11 marzo 2010

la maledizione di via Poma


Se non fosse la tragica realtà sembrerebbe una scena della fiction di Montalbano. Potrebbe anche sembrare, se non fosse maledettamente vero, una pagina di un romanzo giallo scritto da Carlo Lucarelli. Invece il suicidio di Pietrino Vanacore, l'ex portiere del famigerato stabile di via Poma 2 a Roma non è proprio una fiction. Magari potrà diventare un giallo, questo sì. La coincidenza della morte con la sua attesa deposizione al processo contro Raniero Busco prevista per domani in aula di Assise fa scattare inevitabilmente qualche dubbio e qualche legittimo sospetto. Che fosse a conoscenza di qualche piccolo segreto sulla tragica fine della povera Simonetta Cesaroni è facilmente intuibile dalla scelta dei giudici romani di volerlo ancora una volta ascoltare. Una storia, quella dell'omicidio di Simonetta, che lo inseguiva da una vita. Esattamente dalla sera del 7 agosto 1990. Da lì iniziò la sua personale via crucis: l'arresto, la scarcerazione ad opera del tribunale del riesame, i sospetti, le indagini, gli interrogatori, i giornali e le tv alle calcagna di quello che appariva come un mansueto e tipico portinaio di uno stabile della media borghesia romana. Poi l'uscita definitiva di scena fino a pochi giorni fa, quando un invito a testimoniare lo raggiunge nel piccolo paesino in provincia di Taranto dove si era rifugiato quindici anni fa per scappare dalle ombre e dagli incubi che ancora lo tormentavano. Ancora una volta doveva entrare in un'aula di tribunale. Ancora una volta davanti ai giudici. Ancora una volta a ricordare quella sera d'estate di vent'anni fa in cui quella bella ragazza dai morbidi ricci corvini fu massacrata con 29 coltellate in un ufficio vuoto. Come una raffica assordante nella testa di Pietrino devono essere ritornati certi ricordi: la polizia, i flash dei fotografi, le domande. Tante domande, insistenti, ripetute, che ancora una volta gli avrebbero rivolto. E poi le voci della gente, le insinuazioni, i dubbi, l'ombra del sospetto che continua ad aleggiare su chi era là quella notte, in quello stabile dove piombò la morte. E che dalla morte fu sfiorato. Come se quella morte non finisse mai. Qualcuno ancora oggi continua a ritenere Pietrino reticente e omertoso. Lui, seppur non colpevole per la legge, ha taciuto su qualcosa. E questa convinzione ha portato due anni fa i giudici a ordinare una perquisizione nella casa pugliese di Vanacore. Non trovarono niente ma l'ombra lunga del sospetto arrivò fin lì, nell'eremo sul mare così lontano da Roma. E adesso bisognava tornare di nuovo a Roma. Bisognava tornare in tribunale. Ancora giudici, ancora avvocati, ancora domande. L'ombra di nuovo addosso, gli sguardi da affrontare. Muti ma dubbiosi. Davvero tu non c'entri? Davvero tu non sai? Pietrino, prima di suicidarsi, ha lasciato nella sua auto vicino al mare tre cartoncini: "20 anni di martirio senza colpa portano al suicidio", "20 anni da perseguitati senza nessuna colpa", scritti di suo pugno come se volesse gridare un'ultima volta che lui non c'entrava con quel sangue, con quell'omicidio di Simonetta. E questo, almeno così sembrava, la giustizia lo sapeva. Ma l'uomo con i capelli oramai bianchi, divenuto triste nel ricordo degli amici, sembrava essersi interiormente autocondannato. Seppur di via Poma Pietrino non parlasse più, sembrava censurasse qualcosa. O semplicemente non sopportasse più l'assedio delle domande e i dubbi nelle facce degli estranei. Chissà quale fugace pace interiore cercava nelle sue lunghe e solitarie passeggiate sulla riva del mare di Taranto, al netto dei rimorsi e degli incubi inevitabilmente generati da quella tragica sera del 7 agosto 1990. Chissà, alla fine magari non sarà un giallo tipo Montalbano, di quelli che guardiamo in tv come stranamente avvinti da ciò che è oscuro. Ma di certo in questa tragica storia del suicidio di Pietrino Vanacore per ora rimane il mistero e un'ombra del male che, non individuato, resta sospeso e pende e incombe sulle vite degli uomini. Mentre i giornalisti con i loro microfoni, ancora una volta, si spingono davanti alla bocca di chicchessia per sapere, per domandare. Voraci e inconsapevoli attori di una nuova fiction. Tutti vogliosi di vane parole, attorno alla mole opaca del male. Post Scriptum: chi volesse farsi un'idea diversa sul delitto Cesaroni può leggersi questo link della giornalista Gabriella Pasquali Carlizzi (http://ildelittodiviapoma.org/laltra-repubblica-1996.html) che adombra più di un sospetto. Altro che fiction.

martedì 9 marzo 2010

anche i bipolari vincono


Alla fine è mancata anche la suspense di rito, nonostante i reiterati tentativi di Alessia Marcuzzi nell'invocare la decisionalità estrema di quanti con il loro voto, davanti al video, potevano decidere il destino di Mauro o di Giorgio. La vittoria del salumiere di Castelfranco Veneto nella decima edizione del Grande Fratello era così scontata da poter essere paragonata alla vittoria di un ciclista che partecipa a una corsa con i sacchi. Non solo l'esercito dei fan di Facebook (circa 400 mila oltre a 500 gruppi con il suo nome) stava ad indicare la potenzialità di vittoria del Marin, ma anche il fatto che i bookmakers non accettassero più puntate sulla sua vittoria era un indizio più che corroborante sull'esito finale della disfida televisiva. E così è stato: il quasi trentenne trevigiano ha stracciato con quasi l'80% delle preferenze l'altro veneto rimasto a (cercare di) tenergli testa, il Giorgio Ronchini mancato trofeo sessuale di Maicol Berti, un altro dei pretendenti alla vittoria finale rimasto all'asciutto anche a causa della sua isteria da checca insoddisfatta (pensiero di uno che se ne intende, tal Alfonso Signorini). Il salumiere trionfatore, comunque, alla fine ha dimostrato davanti alle telecamere di Canale 5 e di Mediaset Premium che anche chi è affetto da un leggero disturbo della personalità (il bipolarismo) può darla a bere agli altri aspiranti cacciatori della dote costituita dai 250 mila euro di premio finale. I cambiamenti d'umore di Mauro Marin, a seguito di un mancato accoppiamento con la coniglietta Sarah Nile piuttosto che di un petting prolungato (e negato) con la coatta rifatta Veronica Ciardi, fanno pensare all'utilità terapeutica di una partecipazione al Grande Fratello per sperare di uscire dalle maglie di un bipolarismo acclarato, piuttosto che dell'aspirazione a poter rivedere all'uscita dalla Porta Rossa di Cinecittà l'amata che tanto ha fatto soffrire il salumiere fino a convincerlo a portarsi dietro l'anello di fidanzamento riciclabile per ogni occasione. Le fasi maniacali del Marin all'interno della Casa erano esattamente il contrario delle fasi depressive in cui a volte sprofondava (con il sottofondo musicale dei Queen). L'alternanza di un umore particolarmente euforico, confortato dalla sensazione che tutto sia lecito e possibile (condito da un ottimismo eccessivo), con uno stato comportamentale disorganizzato e inconcludente (quando non aggressivo e impulsivo con tanto di parolacce e insulti gratuiti), hanno portato Mauro Marin ad attraversare il percorso televisivo dei suoi 127 giorni nel bunker di Cinecittà all'interno di una sorta di grande ruota girevole da luna park, come un bambino di fronte all'albero di Natale e con tanta voglia di scartare anzitempo i regali. Mauro Marin, il bipolare con la faccia da schiaffi (Sarah Nile docet), è riuscito per più di quattro mesi a mantenere quell'aria stralunata da Jerry Calà degli sfigati accettando anche il ruolo dell'antipatico e del rissaiolo in un branco umano costituito da paraventi posticci dello spettacolo, alla ricerca spasmodica dei loro cinque minuti di notorietà (qualche esempio? George e Carmela, il bestemmiatore sgonfiato, le lesbo girls, Marco il parrucchiere, lui sì affetto da priapismo arterioso, e altri ancora di cui non mi sovvengono i nomi in questo momento), ma riuscendo alla fine a giungere a dama e a intascarsi il bottino dei 250 mila euro, con buona pace dei rosiconi usciti anzitempo dalla Casa. Per dirla tutta, il salumiere trevigiano è riuscito pure nell'ardua impresa di mandare a cagare la voce femminile del GF (quella napoletana) che l'aveva bacchettato pesantemente a seguito della sua scelta strategica di salvare Alessia mandando in nomination Sarah e Veronica. Se poi ci si vuole soffermare sulle motivazioni di fondo che stanno alla base del successo annunciato del Marin in questa edizione, credo che si debbano scomodare intellettuali e semiologi i quali analizzerebbero il risultato considerandolo una sorta di plebiscitaria protesta del pubblico (televisivo e del web) contro le strategie alquanto antiquate di concorrenti che legano all'inizio fra loro prima di scannarsi vicendevolmente in vista del traguardo finale. Uno specchio riflesso della società italiana figlia (illegittima) della rivoluzione del Biscione degli anni Ottanta. Con buona pace del bipolarismo. Anche politico.

venerdì 5 marzo 2010

quel furbetto del senatore Di Girolamo...


La scaltrezza di un politico non si può certo misurare dagli emendamenti proposti o dalle volte in cui ha fatto ricorso al question time. Niente affatto, la furbizia in questione si nota anche dalle piccole cose. Come ad esempio fare accreditare le spettanze non sul proprio conto ma su quello del figlio. Motivo? Essere sicuri che quel denaro non potrà essere sequestrato dalla magistratura. Certo, non siamo ai livelli massimi di un Dell'Utri o di un Berlusconi (avvezzi a ben altro che dirottare piccole somme su conti di consanguinei) ma si fa quel che si può. E il senatore Nicola Di Girolamo ha voluto fare l'ultima mossa da persona libera, prima di consegnarsi all'ufficio matricola del carcere di Rebibbia. Così, prima che tutto andasse perduto, ha pensato bene di salvaguardare almeno la buonuscita che il Senato si appresta a versargli: un piccolo tesoretto che, se fosse finito sul suo conto, avrebbe fatto probabilmente la fine degli altri suoi beni. Vale a dire il sequestro da parte della magistratura inquirente. Tomo tomo, cacchio cacchio, l'ex senatore accusato di associazione a delinquere, riciclaggio e violazione della legge elettorale ha dato mandato (prima di indossare i panni del galeotto) agli uffici amministrativi del Senato di non accreditare più sul suo conto le spettanze dovute ma di girare il tutto su un conticino fresco fresco aperto dal figliolo presso lo sportello interno della BNL Paribas di Palazzo Madama. La cifra non è iperbolica ma di questi tempi vanno bene pure gli spiccioli: 50.000 euro. Nel calcolo è compreso il cosiddetto assegno di solidarietà, che Di Girolamo ha maturato essendosi dimesso; è una sorta di liquidazione, parametrata sull'80% dell'indennità mensile, che si aggira sui 12 mila euro, una per ogni anno. Tenuto conto che il Di Girolamo è stato tra gli scranni di Palazzo Madama per quasi due anni, il conto finale dovrebbe dovrebbe essere intorno ai 18 mila. Se fosse stata invece deliberata la sua decadenza (già disposta, in verità, dalla Giunta per le immunità nell'ottobre del 2008 ma poi respinta dall'Aula nel gennaio successivo) l'assegno, che poggia sul fondo autofinanziato dagli stessi senatori, sarebbe stato sostituito dalla totale restituzione di quanto versato allo stesso fondo. Ai 18 mila euro vanno poi aggiunti i vari rimborsi per contributi versati, spese mediche e viaggi, tutti soldi che rientrano nei legittimi diritti maturati dall'ex senatore in odore di 'ndrangheta. Spiace per lui (mi si passi l'eufemismo) il non diritto alla pensione, visto che non ha maturato i 5 anni minimi previsti dall'incarico parlamentare, così come prescritto per i neo senatori a partire dall'attuale legislatura. La mossa di Di Girolamo di far accreditare il tutto sul conto del figlio ha lasciato i tecnici di Palazzo Madama un pò perplessi; bisogna però osservare che tale richiesta appare ben motivata, soprattutto alla luce di una vecchia delibera nella quale si prevede che l'accredito delle indennità e dei rimborsi siano fatti sul conto indicato dal senatore, che può dunque non coincidere con quello di cui è titolare. Il Di Girolamo, stando almeno ai rumors di alcuni senatori, appare come un uomo costretto dalla necessità di recuperare nell'immediato quanto più denaro contante è possibile e di renderlo gestibile dalla sua famiglia, visto il congelamento dei beni deciso dai magistrati che indagano sul riciclaggio di oltre 2 miliardi di euro realizzato dai vertici di Fastweb e di Telecom Sparkle tra il 2003 e il 2007. Intanto Di Girolamo, per non saper nè leggere e nè scrivere, si professa innocente e già questo è un buon segno. Poi, se il Senato si affretta pure nel versamento di quegli spiccioli sul conto del figliolo...

martedì 2 marzo 2010

l'assurdo bavaglio della par condicio


Tanto tuonò che piovve. Alla fine la mannaia della par condicio è inesorabilmente scesa sulle teste di quelle trasmissioni televisive dai contenuti politici (ANNOZERO, BALLARO', PORTA A PORTA, L'ULTIMAPAROLA) che tanti bei soldoni in pubblicità hanno portato in questi anni, soprattutto le prime tre, alle asfittiche casse di mamma RAI. Non starò qui a disquisire sulla efficacia o meno di una legge che in fin dei conti era stata (mal)pensata per cercare di mettere un freno allo strapotere mediatico di Sua Emittenza, evidentemente senza riuscirci. Non starò certo qui a stracciarmi le vesti per non potermi più godere la visione in tv di Bruno Vespa e Gianluigi Paragone, ci mancherebbe altro. Ho voglia però, con questo mio piccolo contributo sotto forma di post, di sottolineare che in fin dei conti l'informazione televisiva italiana non ha solo le ombre dell'antica lottizzazione del servizio pubblico e del conflitto d'interessi generato dalla scelta politica del proprietario di Mediaset (in fondo è sempre stato così). Bisogna anche riconoscere che esistono programmi vivaci e brillanti, che ci sono state sperimentazioni informative che hanno avuto un notevole successo (il TG5 inventato da Enrico Mentana), storiche inchieste di TV7, speciali di rilievo del TG1 e tanto altro. I critici seri questo lo sanno (basta dare un'occhiata ai libri e alle recensioni di Aldo Grasso) e nessuno si sente in dovere di confutarlo. Ma la cosa scandalosa, a tutt'oggi, è che al conflitto d'interessi di Berlusconi si rispose con una legge (la par condicio, per l'appunto) che ha dato solo il risultato di evitare guai peggiori e ha nascosto l'impotenza del centrosinistra, in 7 anni di governo, di legiferare con equilibrio sul tema in questione, ravvivando il discorso politico italiano. Una misura di scarso respiro che, adesso, vede scomparire anche i talk show dal dibattito elettorale. Che assurdità! E' vero, ci sono programmi buoni e ce ne sono di pessimi, ci sono quelli eleganti e quelli squallidi, ma nella loro cacofonìa danno almeno a chi ascolta un quadro del bene e del male della nostra politica. Zittirli con la decisione adottata dal CdA della RAI (http://www.repubblica.it/politica/2010/03/01/news/bonelli_ricoverato-2466634/) non migliora di certo il quadro dell'informazione italiana ma toglie inevitabilmente gli stimoli ai telegiornali ed esclude milioni di cittadini dalla possibilità di sapere e di informarsi. La scelta, sia in RAI che fuori, è sbagliata e andrebbe corretta nella direzione giusta, vale a dire quella di dare più dibattito, non meno. Se poi questi dibattiti riuscissero anche a essere senza urla e improperi ma con qualche buona idea in più, sarebbe tanto di guadagnato. E non solo per l'informazione televisiva. Un'ultima cosa: leggetevi l'intervista odierna di Michele Santoro (http://rassegnastampa.formez.it/rassegnaStampaView2.php?id=211811) rilasciata a Goffredo De Marchis de La Repubblica. Forse qualcosa di vero tra le righe si riesce a leggere.