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domenica 31 gennaio 2010

Alessandro Sallusti, il nuovo Sallustio dell'era moderna


Nel panorama nazionale della carta stampata c'è un giornalista che già dal cognome pare un lontanissimo parente di quello che in epoca romana fu un delfino di Cesare, vale a dire Sallustio. Questo giornalista, attualmente alla corte di Re Silvio, si chiama Alessandro Sallusti. E' il condirettore de il Giornale ed è fedele amico di Vittorio Feltri, con cui era già legato ai tempi di Libero. Scriveva Sallustio duemila anni fa: "Nella molteplicità delle attività umane, la Natura offre sempre a ciascuno la propria strada". Nel terzo millennio Sallusti non ha avuto soverchie difficoltà nel trovare una sorta di strada maestra del servilismo d'assalto, grazie al quale ha potuto beneficiare di lodi e di incensi da parte del suo padrone editoriale e del suo degno compare di merende giornalistiche. Un esempio per tutti? Basta andare a rileggersi quel pezzo da premio Pulitzer che il prode Sallusti ha scritto poco più di due settimane fa (http://www.ilgiornale.it/interni/di_pietro_trema_ce_un_dossier_su_di_lui/16-01-2010/articolo-id=414087-page=0-comments=3). Il magno Alessandro non appare molto sicuro di ciò che dovrebbe scrivere riguardo il dossier contro l'ex pm. Ma lo scive comunque: "...C'è qualche cosa che non torna nella mossa a sorpresa di Di Pietro. Questo mettere le mani avanti rispetto a una notizia di cui nulla si sapeva, e che probabilmente non sarebbe mai stata pubblicata, crea più sospetto che solidarietà". Addio buon vecchio cogito ergo sum! Cartesio non poteva minimamente immaginare che un giorno qualcuno (Sallusti, per l'appunto) sarebbe riuscito a formulare una teoria secondo cui chi denuncia qualcosa di losco, architettato alle proprie spalle, dimostra che ha qualcosa da nascondere. Basterebbe già questo per allertare il 118 ma Sallusti, non ancora soddisfatto, si spinge anche oltre: "...questo non basta a capire che cosa sta succedendo. E non basterà fino a che Antonio Di Pietro non racconterà al Paese la verità, tutta la verità e niente altro che la verità su tre fatti che lo riguardano. Il primo: come ha fatto un giovane poliziotto della bergamasca a laurearsi tanto rapidamente e a diventare magistrato? Il secondo: come ha fatto un inesperto pm a diventare improvvisamente il più bravo e importante della storia del Paese? Il terzo: come mai, all'apice del successo e del potere, abbandonò la toga per buttarsi in politica? So che lui ha già risposto a queste domande. Riassumo in sintesi: sono bravo. Rispondo in sintesi: è vero, ma noi non siamo fessi. La storia di Mani pulite è ancora avvolta nel mistero e piena di buchi neri. E la reazione di Di Pietro al presunto dossier, che potrebbe aprire uno squarcio sull'omertà di questi anni, ha il sapore della excusatio non petita, accusatio manifesta...". La raffinata orazione sallustiana d'altri tempi tocca l'apice nel finale dello scritto: "...Restiamo garantisti ma anche curiosi di capirne di più, come dice Santoro quando i killer della mafia accusano i vertici del centrodestra. Vedremo". Mi viene in mente una cosa: ma i gentili lettori del quotidiano diretto da Feltri (e da Sallusti) avranno apprezzato e colto il messaggio subliminale del novello Catilina di via Negri e cioè: tentiamo nuovamente di smontare la credibilità di Di Pietro per riabilitare tutti quelli dell'epoca di Tangentopoli (in primis il Cinghialone), grazie a un bislacco revisionismo. E poi (smontando l'ex pm molisano) si potrà anche affermare che, visti i danni irreparabili combinati da certi giudici, la magistratura non può non dipendere dal potere politico (dal Pifferaio in altre parole). Ma soprattutto non potrà indagare sul potere politico. Come dire: due piccioni con una fava. Proprio quella fava del novello Sallustio. Pardon, Sallusti.

giovedì 28 gennaio 2010

la politica dei forni e dei mattoni


Mancano esattamente due mesi alle elezioni regionali e la temperatura politica sale ogni giorno. Non è un caso che anche il panificio PierFerdy sia in piena e febbrile agitazione. La cosiddetta politica dei due forni sta facendo scuola in tutti i laboratori politici: i fornai di Palazzo sono indiscutibilmente quasi tutti con le mani in pasta, intenti a dosare al meglio ingredienti (programmi e piattaforme politiche) e conservanti (candidati più o meno riciclati). Ma in tutto questo laborioso momento della vita politica c'è stato un mastro fornaio che ha voluto far uscire la ciambella senza il buco. Si chiama Sandro Bondi, un ministro che più che ai musei e alla cultura tiene ai lieviti e ai tipi di farina. La storia è presto detta. L'onorevole Bondi, usando la magica parolina vincolo, è riuscito ad azzoppare metaforicamente il potentissimo costruttore Francesco Gaetano Caltagirone (per quei pochi che non lo sapessero è il suocero di PierFerdy). In che modo? Firmando l'altro giorno, nella sede del ministero dei Beni Culturali in via del Collegio Romano, il decreto per mettere il vincolo all'Agro Romano, zona al centro delle ambizioni palazzinare del suocero di Casini. Una geniale strategia politica, quella di Bondi, per inibire una voluttuosa fame immobiliare. Una rapida scansione di avvenimenti, apparentemente indipendenti tra loro, si sono così verificati alle spalle di Casini che, dopo essersi trasformato in spietato killer del PdL, è stato costretto a fare marcia indietro a causa dello stop del poeta Bondi. Al punto che il leader dell'UDC ha ripreso le trattative con il partito dell'odiato Pifferaio di Arcore, ha congelato il patto con il PD in Liguria e si è smarcato per la Puglia con la candidatura della Poli Bortone. Tornando all'azzoppamento immobiliare operato da Bondi, la notizia non ha avuto il giusto risalto al punto che l'ex sindaco comunista di Fivizzano ha dovuto scrivere una bella lettera all'edizione romana del Corriere della Sera (http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=search&currentArticle=PK8A6) per spiegare il senso del provvedimento. A seguito di ciò, inevitabilmente, tra Campidoglio, Regione e costruttori si sono inseguite svariate telefonate per decidere il da farsi. Il vincolo posto dal ministro Bondi non è poca cosa e va ancora capito bene se si tratta di una chiusura totale o di un vincolo elastico. Fatto sta che la procedura iniziata lo scorso luglio, per mano della Sovrintendenza ai beni architettonici del Comune di Roma, potrebbe bloccare la costruzione di un milione di metri cubi tra via Laurentina e via Ardeatina: una zona nella quale ci sarebbero diversi terreni di proprietà di Caltagirone. E molti palazzinari romani hanno accusato proprio Caltagirone di essere imparentato con il leader dell'UDC, provocando la prevedibile ritorsione politica del fedele luogotenente di Berlusconi. C'è da dire anche che alle orecchie di Casini sono arrivati i malumori della sua famiglia acquisita, compreso il naturale imbarazzo della moglie Azzurra, che hanno determinato la decisione da parte del brizzolato uomo politico centrista di dare l'incarico al segretario Cesa di ricucire lo strappo con il Pifferaio e di verificare le condizioni per una eventuale alleanza con il PdL. Nel contempo i forni del panificio politico di PierFerdy sono spenti: hai visto mai che un domani saranno riaccesi per infornare tanti bei mattoni al posto delle consuete pagnotte?

martedì 26 gennaio 2010

Massimo Scattarella, ovvero la figura del "chigghione"


E' uscito dal reality nel modo più inglorioso e deprimente. Come se un gigantesco spillo lo avesse sgonfiato in un nanosecondo, mettendolo a nudo di fronte all'Italia intera. Dentro la casa aveva dato del chigghione a destra e a manca, ma la figura del vero chigghione l'ha fatta proprio lui. Ieri sera Massimo Scattarella, il bodyguard con il fisico liofilizzato dopo 92 giorni di astinenza da palestre e bombe, è uscito dalla casa del Grande Fratello per una blasfemia, intercalata nel suo linguaggio da scaricatore di porto, pronunciata qualche sera fa durante un cinguettoso colloquio con la sua amata cubista romana amante di Saffo (e non solo di Sarah). Il rumore mediatico seguito alla bestemmia pronunciata dal rozzo pugliese (http://www.youtube.com/watch?v=NH1yv3jlSdw&feature=related) non poteva non provocare la giusta e sacrosanta decisione di espellerlo dalla casa adottata ieri sera dagli autori del GF, già memori dei precedenti di Guido Genovesi nella quinta edizione (http://www.youtube.com/watch?v=fZGrVV37e1Q) e di Mirko Sozio nell'ottava (http://www.youtube.com/watch?v=XcamBm7cUE0). Non è una questione di essere cattolici o credenti, non è neanche quella di urtare la sensibilità cristiana di chicchessia. E' semplicemente un caposaldo del genere umano, quello dell'educazione e del rispetto nei confronti del prossimo. In particolar modo quando si bestemmia di fronte alle innumerevoli telecamere di un reality seguito da milioni di telespettatori (ieri sera erano addirittura in sette milioni e mezzo), con anziani o bambini, uomini o donne delle più disparate estrazioni sociali. Ma tutti, indubbiamente, potenzialmente lesi e offesi da un intercalare blasfemo usato come fosse un condimento per la pasta. Non è possibile transigere su di un comportamento che ogni concorrente di un reality (basti ricordare gli esempi di Ceccherini all'Isola e di Roberto Da Crema alla Fattoria) sa, al momento della sottoscrizione di un contratto per la sua partecipazione, che dovrà inevitabilmente adottare. In nome della buona educazione e della civile convivenza e non in quello del menefreghismo e dell'altrui dileggio. Credendo di far passare gli altri per chigghioni. E non sapendo di essere loro i veri e stupidi chigghioni.

domenica 24 gennaio 2010

politici inquisiti, nuovi martiri del millennio


Una volta c'era l'avviso di garanzia come spauracchio per gli uomini (e le donne) della politica italiana. Adesso basta un esilio come conseguenza di un provvedimento di un tribunale per assurgere a nuovi martiri del millennio. Forse non a tutti è stata portata a conoscenza la struggente lettera scritta al Capo dello Stato dalla inquisita signora Sandra Lonardo in Mastella (http://www.agi.it/politica/notizie/201001211821-pol-rt10264-giustizia_lonardo_scrive_a_napolitano_non_voglio_fare_fine_craxi) per strappare, forse, qualche lacrima e qualche genere di conforto. La signora spiega nella missiva di sentirsi vittima in relazione ai procedimenti che la vedono indagata nell'inchiesta sull'ARPAC campana; la consorte dell'ex ministro della Giustizia avverte addosso un accanimento giudiziario e una sorta di condanna preventiva, lesive della sua vita, della sua onorabilità e della sua carriera politica. In buona sostanza prevede che sarà costretta (come fece Craxi in Tunisia) a una lontananza dolorosa dalla sua terra e dai suoi affetti. Ora, per quanto possa essermi indifferente (sul piano politico) la signora Lonardo, non posso evitare di notare una sorta di aura mediatica che va circondando la sua figura, unitamente a una sensazione di forzatura della genesi del dolore che questa vicenda (con il richiamo alla vicenda Craxi, approfittando del decennale della morte di quest'ultimo) sta provocando. Un'altra considerazione mi sovviene, gettando anche una leggera occhiata alla metastasi giudiziaria berlusconiana: c'è la concreta possibilità che si vada sedimentando un senso comune, in una parte della popolazione italiana, per cui un politico inquisito può (anzi deve) essere parametrato, in virtù di una battente denuncia dell'ingiustizia dei procedimenti aperti a suo carico, a una sorta di martire. Va da sè che esiste anche l'effetto contrario: quello per cui un semplice avviso di garanzia può valere come una squalifica sine die dalla vita pubblica e politica. Fino a oggi ero convinto che la beatificazione per catarsi giudiziaria era un'esclusiva dell'attuale presidente del Consiglio; ora ci si mette anche la signora Lonardo a reclamare un posto nell'elenco dei martiri del terzo millennio. La sensazione è netta: credo che qualcosa stia cambiando, che si sia oramai messo a punto un meccanismo retorico di agevole spendibilità che equipara l'azione inquirente della magistratura alle congiure di una nuova Inquisizione. Una delle meraviglie del bipolarismo nell'era del Pifferaio di Arcore è proprio questa: un Paese in cui un politico inquisito è un perseguitato o un malandrino della peggior specie. Mai un semplice presunto colpevole.

sabato 23 gennaio 2010

un Narciso al Ministero (degli Affari Esteri)


Partiamo da una considerazione: che il ministro degli Esteri Franco Frattini non sia propriamente il George Clooney della Farnesina è alquanto scontato. Che non sia la copia mal riuscita di Brad Pitt è altrettanto acclarato. Ma che sia un vanitoso e che abbia una notevole considerazione del proprio fascino lo si può facilmente evincere dalla notizia pubblicata ieri sul sito di Repubblica (http://www.repubblica.it/politica/2010/01/22/foto/frattini_foto_private-2040601/1/). Ora, che un ministro della Repubblica utilizzi il sito della Farnesina (http://www.esteri.it/MAE/IT/Ministero/Ministro/AlbumFotografico/) quasi come una bacheca personale stile Flickr, o peggio ancora Facebook, mi suona tanto da uso improprio del mandato governativo e da stravolgimento dei doveri politici e istituzionali relativi a chi rappresenta il nostro Paese nel mondo. Non credo proprio che sia utile e mediaticamente vincente far sapere a tutti gli abitanti del nostro pianeta che un ministro (per quanto fascinoso e dalla chioma sempre inappuntabile) sfoggi un repertorio fotografico (http://www.esteri.it/MAE/IT/Ministero/Ministro/AlbumFotografico/FotoPrivate/) degno di una mostra curata da Henri Cartier-Bresson. Che si trovi in vacanza al mare, ai laghi o che si diletti sulle piste di Sestriere al fianco di Alberto Tomba francamente poco me ne cala. Che sia invece ritratto sull'automobilina scoperta al G8 in Abruzzo o in posa plastica al tavolo importante di Bruxelles è legittimamente scontato, dato il suo ruolo. Ho trovato quindi di cattivo gusto questo suo smodato e reiterato modo di specchiarsi quasi come un Narciso al cospetto di una macchina fotografica, reflex o digitale che sia, creando forse un pericoloso precedente per altri titolari di dicasteri italiani. Rabbrividisco al solo pensiero di poter vedere un domani la bacheca fotografica del ministero della Funzione pubblica con un Brunetta cristallizzato sulla gondola, in quel di Venezia, mentre cerca a fatica di accostarsi all'imbarcadero di Piazza San Marco o magari intento a scalare la parete nord del Monte Kinabalu in Malaysia. E che pensare allora di una eventuale bacheca fotografica sul sito del Ministero per le Pari Opportunità ove scovare una Carfagna stile calendario intenta a raccontare fiabe ai bambini poveri del Bangladesh oppure ritratta da un'istantanea della tv a circuito chiuso dei bagni di Palazzo Grazioli mentre si trastulla con quanto rimasto della virilità del nostro presidente del Consiglio. Che dire, spero proprio che tutto ciò non si materializzi in un prossimo futuro. Anzi, spero che il Pifferaio di Arcore anticipi tutti e ci faccia dono della sua galleria fotografica personale stile Topolanek, con relative didascalie illuminanti, in modo da far partecipi i suoi adoranti elettori su come l'Italia sia in buone mani al grido di "più Cialis per tutti".

lunedì 18 gennaio 2010

la lettera di scuse (ai giudici) del Pifferaio


Se non fossero avvenimenti giuridici di notevole portata verrebbe anche da ridere. Oggi a Milano, davanti ai giudici della prima sezione penale, era in agenda la prima udienza post-lodo Alfano del processo per la compravendita dei diritti tv di Mediaset con il presidente del Consiglio nella scomoda veste di imputato. Cosa ti combina allora il Pifferaio di Arcore? Pensa che ti ripensa, alla fine decide di inviare ai giudici, che lo attendevano con comprensibile impazienza, una bella letterina di scuse per la sua assenza (http://www.repubblica.it/politica/2010/01/18/news/processo_mediaset-1989491/), dovuta ai soliti, improcrastinabili impegni istituzionali. Come si sa, il premier (da quando si è alleggerito di bende e cerotti) è tornato in piena attività, incontra Fini e la Polverini, Casini e affini: tutte scuse per non dover andare all'incontro più sgradito e pericoloso, quello con i pm milanesi. Ma la sceneggiata (parte meneghina e parte-nopea) della letterina di scuse è stata una trovata magistrale, da consumato frequentatore di palcoscenici teatrali. Nessun giudice avrebbe mai pensato che l'imputato principale del processo potesse inviare una sorta di giustificazione scritta, un pò come si faceva a scuola gabbando professori e genitori. Ma solo un principe del Foro, come Mavalà Ghedini, poteva suggerire al suo assistito un bel coup de thèatre come quello odierno. A ben vedere questa scelta epistolare del Cavaliere potrebbe creare un pericoloso quanto usuale precedente. Quello di indurre capimafia e di camorra (perchè no di 'ndrangheta) a inviare, dai loro rispettivi rifugi dorati di latitanti, altrettante letterine di scuse ai giudici impegnati in processi più o meno maxi contro le organizzazioni criminali, adducendo motivazioni non certamente istituzionali ma necessariamente più prosaiche e consequenziali. Quelle, ad esempio, di essere momentaneamente indaffarati in qualche gravoso sbarco di cocaina da navi o da container, oppure di essere rintanati nei caveau di qualche superbanca estera intenti a svaligiare cassette di sicurezza. E sulla base dell'odierno precedente berlusconiano, mi dite come i giudici potrebbero non accettare la lettera di scuse? Non soltanto per il Pifferaio esiste il legittimo impedimento. Anche per i boss. Ci mancherebbe altro.

giovedì 14 gennaio 2010

la Repubblica, il Corriere & gli aumenti ingiustificati


Proprio nel giorno del trentaquattresimo anniversario della fondazione del quotidiano attualmente diretto da Ezio Mauro e di cui parlai in un mio post di due anni fa (http://tpi-back.blogspot.com/2008/01/buon-compleanno.html), spiegando come il giornale voluto da Eugenio Scalfari (e da altri) abbia accompagnato trent'anni della mia vita, contribuendo in maniera ineluttabile alla formazione dei miei convincimenti politici e alla inevitabile apertura mentale nei confronti di avvenimenti e persone, mi ritrovo (in modo alquanto singolare) a dedicare questo mio scritto all'inopinata decisione della RCS di aumentare, dal 2 gennaio scorso, il prezzo del Corriere da 1 euro a 1,20. Una scelta che ho trovato totalmente ingiustificabile e in controtendenza, in un momento particolarmente difficile per l'economia del nostro Paese, aggravata dalla crisi globale di cui noi tutti siamo purtroppo testimoni e vittime. Per fortuna già dall'interno del Corriere stesso ci sono state voci critiche, come quelle all'unisono di Sergio Rizzo e di Gian Antonio Stella, firme autorevoli e prestigiose della redazione di via Solferino, che con un articolo al vetriolo (http://www.corriere.it/cronache/10_gennaio_07/rizzo-stella-gesto-necessario_055e138c-fb58-11de-a955-00144f02aabe.shtml) hanno giustamente stigmatizzato l'inopportuna disposizione della RCS Editori. Il quotidiano milanese ha cercato, inutilmente, di arginare la protesta aprendo una sorta di filo diretto dei lettori con il direttore Ferruccio De Bortoli per un confronto dalla forte connotazione di scontro e di feroce critica. Anche Beppe Severgnini (altro noto e sagace columnist) si è trovato leggermente in difficoltà nel rispondere ad una mail di un lettore (http://www.corriere.it/solferino/severgnini/10-01-05/11.spm), come immagino del resto si troverebbe qualunque giornalista del Corriere in un momento come questo, non propriamente felice per le finanze del maggior quotidiano italiano. La mia sensazione è che l'aumento di 20 centesimi sia una sorta di inconsapevole e inconscio regalo editoriale fatto a la Repubblica che, furbescamente, ha deciso di far rimanere invariato il costo in edicola del giornale. A sostegno di questa mia tesi sono venuti in soccorso alcuni edicolanti da me interpellati i quali hanno riferito che le vendite del Corriere, almeno in questi primi dieci giorni dell'anno, sono diminuite e che vecchi e fedeli lettori sono passati ad acquistare la concorrenza (Repubblica). Segnali in tal senso erano precedentemente venuti dai dati di diffusione dell'ADS e ripresi qualche giorno fa dal sito Affaritaliani (http://www.affaritaliani.it/mediatech/ads070110.html), primo e non trascurabile campanello d'allarme per il colosso di via Solferino. A conti fatti forse era meglio seguire il consiglio di Stella e Rizzo: "Caro direttore, siamo convinti che sarebbe stato meglio aspettare prima di alzare il prezzo del giornale". Parole inascoltate.

lunedì 11 gennaio 2010

riabilitare Del Turco, altro che Craxi...


Ci voleva proprio un bell'articolo sul quotidiano torinese diretto da Mario Calabresi(http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201001articoli/51043girata.asp) per accorgerci della notizia che ha fatto rumore negli ultimi giorni: le accuse a Ottaviano Del Turco (che nell’estate del 2008 gli valsero un mese di isolamento in carcere e poi gli arresti domiciliari e che fecero cadere anzitempo la sua giunta democraticamente eletta dai cittadini abruzzesi, consegnando di fatto la regione Abruzzo alla destra) si stanno rivelando clamorosamente infondate.
Tecnicamente, se confermato, sarebbe un golpe contro un’amministrazione regionale che avrebbe dovuto concludere in questi mesi il suo mandato. Non solo, dopo un anno e mezzo di indagini e un centinaio di rogatorie internazionali, non si trova traccia dei soldi che Del Turco avrebbe incassato da Vincenzo Angelini (il principale accusatore), re della sanità privata abruzzese, nascosti nel famoso sacchetto delle mele immortalato in una foto che doveva essere la prova regina (ma che in realtà ritraeva solo Angelini con un sacchetto in mano, ed era stata fatta scattare da Angelini stesso). Ma ci sono anche fondati motivi di ritenere che il presupposto per cui Angelini, già da tempo sotto indagine, prese improvvisamente a dirsi ricattato dai politici, fosse il rischio che correva lui di essere arrestato. Nonché il desiderio di liberarsi di un’amministrazione regionale che stava facendo pulizia nella gestione allegra della sanità privata abruzzese. Qualcuno l’aveva detto e scritto in epoca non sospetta, ma senza esito. Adesso toccherà naturalmente al processo stabilire la verità: gli atti depositati insieme alla richiesta di rinvio a giudizio sono una notizia gigantesca, che non può passare sotto silenzio e non può lasciare indifferente la politica democratica (con l’eccezione di Franco Marini, abruzzese doc, che è già uscito allo scoperto in difesa di Del Turco alla luce delle nuove acquisizioni dell’inchiesta). A suo tempo, e mi dispiace dirlo, nel Partito Democratico furono davvero in pochi a esprimere solidarietà a Del Turco nè tantomeno ad avanzare dubbi sull’inchiesta. Non è stata di certo una bella pagina di storia politica e giudiziaria quella riguardante l'ex Governatore d'Abruzzo. Non vorrei dire, ma credo sia scontato che contrastare la quotidiana aggressione berlusconiana al potere giudiziario non può significare rinunciare ai doveri di un partito, che comprendono anche un minimo di solidarietà interna, almeno fino a prova contraria.
Cerchiamo di ricordarcelo, quando si discute dei rapporti tra politica e giustizia, invece di celebrare esuli e latitanti in terra d'Africa pensando pure di dedicare loro una bella piazza milanese.

sabato 9 gennaio 2010

il lavoro rende liberi (di sfruttarli)


Quella che sta vivendo Rosarno in questi giorni può definirsi una tragedia annunciata. Due balordi prendono di mira, a bordo di un’auto, alcuni immigrati con un fucile ad aria compressa, sparano e ne feriscono due. Era già successo un episodio del genere poco più di un anno fa. Il tutto ci riporta alle condizioni inumane e degradanti in cui vivono e lavorano gli immigrati dalla pelle scura. E loro, sentendosi bersagli inermi, si rivoltano e devastano innescando un clima incandescente. Provocando di conseguenza lo sdegno e la reazione degli abitanti locali e delle istituzioni. Però le ineleganti e inopportune sortite mediatiche del solito Maroni non contribuiscono di certo a rasserenare l'aria. Le sue dichiarazioni sono irresponsabili, oltre che ipocrite. Benzina sul fuoco al posto dell'impegno ad operare per riportare la calma, garantire la sicurezza di tutti (immigrati e cittadini di Rosarno), colpire i responsabili degli atti che hanno innescato l’escalation, intervenire subito per favorire condizioni di vita e di lavoro più dignitose. Anche perchè forse non tutti lo sanno ma gli immigrati di Rosarno sono doppiamente vittime: della 'ndrangheta che li sfrutta e delle leggi sull’immigrazione volute dal centrodestra che li condanna alla clandestinità, consegnandoli così ostaggio dei loro sfruttatori. Sono anni, infatti, che migliaia di immigrati vengono reclutati per la raccolta di agrumi nella Piana di Gioia Tauro per 20-25 euro al giorno dai caporali della zona, che sono ritornati ad un mestiere antico e che si sperava debellato per sempre. E così quelli dalla pelle diversa dalla nostra continuano la loro esistenza di clandestini, senza diritti e identità, invisibili per le istituzioni e abbandonati a se stessi. Si è preferito far finta di non vedere e non sapere, girare la testa dall’altra parte invece che affrontare la situazione. Risultato? Si raccoglie in queste ore, tra gli agrumi di Rosarno, uno dei frutti più avvelenati della politica sull'immigrazione voluta fortemente dal governo del Pifferaio, in particolar modo dai soliti leghisti. Rosarno, periferia d’Italia, fa tornare alla mente la rivolta delle banlieue di Parigi e i suoi sans papier. Ma proprio perché non è da oggi che gli immigrati si trovano a Rosarno bisogna ricordare che non è sempre stato così. Quando a Rosarno c’era il sindaco antimafia del centrosinistra, il Comune operava quotidianamente per l’integrazione e il dialogo, per l’accoglienza e la solidarietà. E la situazione non era mai arrivata ai livelli di gravità degli ultimi anni. Forse bisognerebbe incominciare a colpire gli sfruttatori del lavoro in nero (e per il nero) dei migranti presenti, colpire coloro i quali hanno fatto partire questa tragica spirale di violenza. E occorre forse porsi una domanda: come mai, tutto questo, è accaduto proprio ora che l’attenzione nazionale era concentrata su Reggio Calabria e sull’attentato messo in atto dalla 'ndrangheta alla Procura del capoluogo? Non so quanto insperato e inatteso ma di certo questa Soweto made in Calabria si è rivelato un aiuto prezioso per distogliere l’attenzione dalle cosche della provincia e dal malaffare della politica contigua.

giovedì 7 gennaio 2010

barattare la privacy con la sicurezza


Quello che è successo (o per meglio dire, che non è successo) il giorno di Natale sul volo Delta Airlines da Amsterdam a Detroit è stato l'ultimo anello di una catena della paura, dell'ossessione dell'attacco terroristico che oramai ci sta accompagnando da quel lontano 11 settembre 2001.
La falla che il tentativo stragista dell'adepto di Al-Qaeda ha messo in luce nel sistema di vigilanza sta mandando in fibrillazione l’intero apparato. Rallentamenti, disagi e costi per compagnie, viaggiatori e Paesi si sono immediatamente impennati, costringendo a una veloce corsa ai ripari per sventare altri possibili attacchi. Inutile sottolineare che quando rende strutturale la paura, quando costringe a modificare stili e abitudini di vita, il terrorismo ha già riportato una vittoria parziale. Con la nuova minaccia nei cieli Al-Qaeda sta obbligandoci a ricalibrare il difficilissimo equilibrio tra sicurezza da una parte, libertà e privacy dall’altra. L’introduzione dei cosiddetti body scanner negli scali internazionali, compresi Malpensa e Fiumicino, solleva dibattiti e comprensibili perplessità, ma appare un metodo avanzato per scongiurare l’introduzione di armi ed esplosivo a bordo degli aerei. Eppure, la messa a nudo davanti all’operatore di polizia, che comporta il passare attraverso la macchina, può essere certamente vissuta come una violazione della propria riservatezza e persino come un’umiliazione. In Gran Bretagna si paventa che, nel caso dei bambini, possa confliggere con le norme anti-pedofilia. Altri sottolineano l’imbarazzo di chi abbia subito o debba ancora subire alcuni tipi di operazioni chirurgiche. Si può anche pensare al disagio dei religiosi e di coloro che del pudore hanno ancora particolare considerazione. Si tratta, è chiaro, soltanto dell’esempio più recente e neppure del più eclatante. Al "body scanner" potremo pure assuefarci, diverso è il caso di più invasive limitazioni che discendono dal mutare il bilanciamento tra diritti e misure di protezione. Divieti e controlli motivati dalle minacce di attentati rappresentano sempre un travaso di potere, introducono un’ulteriore asimmetria tra cittadini e responsabili della sicurezza, aprono uno spiraglio per abusi e atti di arbitrio. In buona sostanza, peggiorano in qualche misura la nostra esistenza. Certo, sono il prezzo da pagare per proteggere la nostra vita. E saremmo i primi a dolerci e a protestare se non si assumessero le misure ritenute necessarie e praticabili a difesa di passeggeri inermi.
Sicché non vi è una regola che possa fissare il giusto mezzo fra libertà e sicurezza. Né, tuttavia, bisogna cedere all’emozione del momento. Alzare muri indiscriminati, bollare tutti i viaggiatori provenienti da Paesi musulmani come soggetti a rischio, blindare le frontiere non servirà a dare garanzie assolute e, anzi, rischia di offrire strumenti alla stessa Al-Qaeda, pronta a soffiare su tutto ciò che è capace di gettare diffidenza ed ostilità tra nazioni occidentali e mondo islamico. Il terrorismo dei kamikaze non può vincere nessuna guerra. Ha però un obiettivo che è in grado di conseguire: innescare quei conflitti di civiltà spesso evocati, temuti e deprecati, che nei fatti non esistono. Almeno finora. Le colombe, coloro che tentano il dialogo, su un fronte o sull’altro, per i fautori dello scontro sono nemici peggiori dei falchi.
Tenere basso il livello della paura e del sospetto, non alterare le nostre routine, avere una linea di fermezza senza generalizzare, per quanto risulta possibile e ragionevole fare, rimane la strada maestra contro i piani dei terroristi. Che possono uccidere qualcuno, ma vogliono spaventare tutti, in modo da avere campo libero per la propria strategia di sottomissione di un modo di vita che disprezzano perché non capiscono. La libertà rimane la nostra frontiera. Da non sacrificare troppo alla sicurezza.

lunedì 4 gennaio 2010

sarà l'anno delle riforme?


Questo inizio di 2010 mi porta a pensare che (forse) questo sarà l'anno buono per le riforme tanto decantate e inutilmente (almeno fino ad oggi) auspicate. Questo 2010, anzi, è forse l’ultima chiamata utile per dare una sistemata al nostro Paese e alle sue istituzioni. Soprattutto credo sia giunto il tempo delle riforme condivise. Le uniche ( lo dimostra, oramai, la storia recente) in grado di reggere e di funzionare all’urto del dibattito politico, delle alternanze di governo, delle campagne elettorali permanenti. La bella notizia è che ora sono, più o meno, tutti d’accordo. A partire dal PdL e dal suo leader. Miracolo di inizio anno, e siamo contenti. Siamo contenti davvero, perché l’approdo a una nuova stagione costituente non è mai uscito dalle aspettative di chi scrive.
Adesso credo proprio sia giunto il momento di passare dalle parole ai fatti, dalle intenzioni alle proposte. L' ha chiesto anche, ancora una volta, il presidente Napolitano nel suo messaggio di fine anno. Riforme da fare con responsabilità e con amore. E mi fa veramente piacere vedere riabilitata una parola come amore, sacrificata troppo a lungo sull’altare del cinismo imperante, del cattivismo di maniera, dei troppi Machiavelli nostrani per cui "...tanto la politica è sporca, tanto è lo specchio dell'Italia e se l'Italia è così non colpa nostra...". Ecco, se davvero ci fosse più amore nella politica, ma anche più in generale nel Paese, le cose andrebbero certamente meglio. O almeno non andrebbero peggio. D’altronde la scelta è quella: o l’amore o l’odio (c’è anche l’indifferenza, è vero, ma non è un buon investimento neanche quello). E amore significa anche amore per l’Italia. Ecco, è questo il punto nodale. Ripensare, riformare, riaggiustare le istituzioni e calibrarne meglio i meccanismi, altro non è che un atto d’amore per il nostro Paese. Un atto dovuto, oltretutto, dopo un quindicennio di trascuratezza in nome di una quotidiana lotta all’ultimo sangue, in cui le istituzioni (e i poteri dello Stato) sono state usati al contempo come arma e come campo di battaglia. Una violenza che ha lasciato ferite profonde e che non si curerà da sola. Per questo, non si può che festeggiare questo nuovo anno con la fiducia e la speranza che il 2010 sia davvero un anno di svolta, l’anno in cui, finita la sbronza (per qualcuno, più intossicato degli altri, che ancora vede la politica come lotta fra Dio e il diavolo sarà più difficile, se non impossibile, ma pazienza) si aprono gli occhi e si inizia a costruire davvero il futuro. Che sia, insomma, l’inizio di un percorso nazionale di dialogo, di confronto e di accordo sui fondamentali. In poche parole un anno di politica vera. Anche perché nel 2011 l’Italia festeggerà i suoi primi 150 anni. E monumenti, feste di piazza, mostre e rassegne serviranno a poco, se a mancare sarà la festeggiata. Nel nostro caso, la festeggiata manca ancora: non c’è un’idea di Italia condivisa, abbiamo qualche problema con la parola patria e abbiamo un po’ di difficoltà ad accettarne in pieno i simboli e le ritualità civili (chiedere in merito alla Lega...). E allora al di là delle parate, il miglior regalo per celebrare l’Unità d’Italia, sarebbe proprio arrivarci con un’Italia ritrovata, rinnovata da uno sforzo convinto e comune, partorita da questa tanto attesa stagione di riforme. Un’Italia che non si limiti a funzionare meglio, ma che sia un’idea condivisa, un sentimento diffuso, un progetto di tutti. Questa sì che sarebbe una festa vera.