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giovedì 31 dicembre 2009

auguri a tutti!


Un augurio di vero cuore a tutti i lettori di questo blog affinchè il 2010 sia l'anno perfetto tale da portare a tutti voi quel senso di pace e di felicità che ognuno si merita. AUGURONI!!

tornano i devoti del Cinghialone


Il prossimo 19 gennaio ricorrerà il decimo anniversario della morte di Bettino Craxi e sono annunciate varie iniziative per ricordarlo. La più importante si svolgerà in Senato. Forse ci sarà anche una sorta di riabilitazione politica da parte del Presidente della Repubblica. Ma intanto fa discutere la proposta di Letizia Moratti, sindaco di Milano, di dedicare allo scomparso leader socialista un giardino o una piazza nella città simbolo del craxismo imperante degli anni Ottanta, quelli famosi della Milano da bere. Per gli eventuali nostalgici un Tour Operator (Francorosso) organizza e mette in vendita un pacchetto Hammamet: volo Tunisair, Hotel Mehari (cinque stelle), pensione completa dal 15 al 17 gennaio, costo 450 euro. Sempre meglio di una gita al Tuscolo, ai Castelli romani. Detto ciò, ricordare con più o meno rispetto Craxi non è certo un delitto. Il problema è che siamo in piena operazione recupero senza però uno straccio di discussione sulla memoria politica italiana. Il giudizio su Craxi oscilla tra considerarlo il capro espiatorio di Tangentopoli (anche oggi parla di questo Piero Fassino, http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/200912articoli/50830girata.asp) o ritenerlo l'artefice di quella degenerazione della Repubblica dei partiti che deflagrò con Mani pulite. Di cosa furono davvero i governi presieduti da Craxi (agosto 1983-aprile 1987) si è persa cognizione, così come del Caf (il patto Craxi, Andreotti, Forlani) che reggeva le sorti dell'Italia. Si dice che Craxi tentò di modernizzare l'Italia con l'obiettivo di una grande riforma istituzionale, rimasta però «un inutile abbaiare alla luna» come riconobbe lui stesso, e che fu sconfitto dal conservatorismo che ora i ministri Renato Brunetta e Maurizio Sacconi, eredi della stagione craxiana come del resto Berlusconi, vorrebbero distruggere una volta per tutte. Si dimentica il craxismo come peculiare concezione della politica fondata sulla contrapposizione con il resto della sinistra, a iniziare dal vecchio PCI. E si preferisce glissare sul soprannome di Bokassa o di Cinghialone che gli fu affibbiato, per indicarne il modo ruvido e imperiale di gestire le cose della politica. Ne fu testimonianza il Congresso di Verona del 1984, dove Ghino di Tacco venne confermato segretario per acclamazione, in una cornice maestosa (ricorda quasi le sfarzose convention berlusconiane degli ultimi anni). In platea c'erano nomi dello spettacolo e del made in Italy ribattezzati da Rino Formica (mai sospettato di anticraxismo) «nani e ballerine». Del craxismo, sarebbe un errore dimenticarlo, fa parte anche il positivo sussulto di autonomia nazionale del 1985, quando il Cinghialone impedì agli aerei Usa di ripartire dalla base di Sigonella in Sicilia con a bordo i palestinesi che avevano sequestrato la nave Achille Lauro. Ma i punti neri della stagione craxiana restano innumerevoli. Come quando il 17 febbraio 1992 fu arrestato Mario Chiesa, dirigente socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio a Milano, Craxi pensò bene di poter archiviare il caso come «l'episodio isolato di un mariuolo». Ma era solo l'inizio della bufera. Tangentopoli non fu una rivoluzione, ma neppure un'invenzione. E Craxi non fu certo una meteora come si erano illusi le correnti di destra e di sinistra che lo elessero segretario nei saloni dell'Hotel Midas a Roma il 16 luglio 1976, pensando a un re travicello. E fa ancora discutere se i cinque anni passati ad Hammamet debbano essere considerati latitanza o esilio. Il rifiuto a farsi processare in Italia resta uno dei suoi errori politici più gravi. Non credo di dire un'eresia. E qualcuno al governo oggi mi ricorda proprio quel medesimo errore politico (non certo giudiziario). Ma la posizione più critica, nel vuoto a sinistra che si verifica anche in queste polemiche su riabilitazioni, giardini o piazze, è quella di Antonio Di Pietro. Tocca a lui ricordare che Craxi fu condannato in via definitiva a 5 anni e 6 mesi per corruzione nel processo Eni-Sai, oltre che a 4 anni e 6 mesi per finanziamento illecito. E un confronto sul craxismo sarebbe invece utile pure al PD, per ora silenzioso. Quando Craxi lanciò il progetto di unità socialista dopo il 1989 e fece scrivere quelle due parole nel simbolo del PSI, dettò al Partito Comunista la via della semplice confluenza. Se oggi non abbiamo in Italia neppure un partito socialista (come nel resto d'Europa), chissà che la colpa non sia almeno un po' anche del Cinghialone...

mercoledì 30 dicembre 2009

ricostruzione, casette & oro nero


A distanza di quasi 9 mesi dal terremoto il centro storico dell'Aquila è ancora territorio off limits. La tempistica prevista (dal governo dell'uomo dell'amore) per la ricostruzione si aggira intorno ai dieci-quindici anni. E forse non tutti lo sanno ma tra le risorse abruzzesi di sicuro interesse c'è ben altro che il patrimonio storico e naturalistico. Quello che realmente fa gola è l'oro nero: quel preziosissimo petrolio che è presente davanti alle coste abruzzesi. E la politica non si opporrà di certo agli interessi delle compagnie petrolifere. Ci mancherebbe altro. Soprattutto quando chi comanda è animato dall'evangelico senso dell'amore. E così sistemati gli aquilotti in villeggiatura o nelle casette in tempo per il Natale, ecco la carcassa della mamma Aquila che giace ferita e abbandonata al centro delle nidiate. Ora che i re magi Berlusconi e Bertolaso hanno recato il loro dono emergenziale, la povera città, anima della vita sociale e scrigno di patrimoni storici e artistici, è ancora territorio off limits. Tra quelli che se ne sono accorti, o hanno voluto accorgersene, c’è nientepopodimenoche il New York Times (http://www.nytimes.com/2009/12/24/arts/24abroad.html?_r=1&scp=1&sq=l'aquila&st=cse) che una settimana fa pubblicava un allarmante articolo al riguardo. Si sottolineava, facendo giusti paragoni con catastrofi del genere capitate in Italia nello scorso secolo, come un centro storico disabitato per dieci o quindici anni (questa la tempistica prevista dal governo per la ricostruzione) sia destinato a morte certa. Migliaia di beni di rilevanza culturale da salvaguardare, sperperi immotivati, fondi prosciugati, incartamenti burocratici, approssimazioni e assurdità: questi i freni alla ricostruzione individuati e messi in fila dal giornale statunitense, che ha ripreso anche le tristi parole del sindaco aquilano Massimo Cialente: «Temo una nuova Pompei». Calcolatrice alla mano (e seguendo il precedente di Onna, scelta come passerella naturale a favore di telecamera), trasformare L’Aquila in un suggestivo itinerario deserto che faccia spettacolo delle proprie rovine è forse l’ultima spiaggia rimasta, ora che la Corte dei conti ha anche bocciato Win for Life, la lotteria istantanea ideata come metodo per finanziare i lavori di ricostruzione. Tutto è possibile se chi governa (parlo sempre dell'uomo pieno d'amore) è un affarista interessato, per sua natura, più allo stato patrimoniale che al patrimonio storico e umano, e immagina che qualunque altro individuo sia sulla sua stessa lunghezza d’onda. La sbrigativa e costosa soluzione della new town fa pensare che la cura scelta per L’Aquila ferita sia volutamente palliativa, proprio perché ricostruire è infruttuoso nel breve termine, aureo spazio di tempo in cui il ritorno d’immagine è assicurato, mentre il ritorno di risorse un po’ meno. Come detto tra le risorse abruzzesi di sicuro interesse c’è ben altro che l’orso marsicano o una chiesa medievale, e non si trova sulla terra che trema, ma in alto mare: lo sanno bene i petrolieri in coda pronti a trivellare e costruire piattaforme a ridosso della costa, pochi chilometri a largo di San Vito e di Ortona. Solo i comitati locali e gli ambientalisti si stanno opponendo. La politica e il governo dell'amore invece no: l’Abruzzo petrolifero fa gola. E la roulette della ricostruzione continua a girare a vuoto. Con la benedizione dei re magi Berlusconi & Bertolaso.

giovedì 24 dicembre 2009

Buon Natale


Auguri di cuore a tutti i lettori di questo blog affinchè possano trascorrere un sereno Natale insieme alle proprie famiglie.

mercoledì 23 dicembre 2009

una lettera scritta con il cuore


Nel giorno che precede la vigilia del Santo Natale mi sono imbattuto nella lettura di una struggente e significativa missiva inviata al classico Babbo con la slitta trainata dalle renne. Già il titolo è altamente indicativo: "Torno bimba"; chi la scrive è la blogger Anna (http://miskappa.blogspot.com/) che seguo da quando in aprile decise di dare voce sul web alla tragedia aquilana del post-terremoto. Tra le tante lettere che in questo periodo si scrivono (lo stanno facendo i reclusi del GF 10, l'ha fatto anche l'onorevole Di Pietro: http://www.antoniodipietro.com/2009/12/auguri_di_un_buon_natale.html), quella di Anna mi sembra la più meritevole di considerazione e di visibilità e per questo ve la ripropongo integralmente non prima di aver colto l'occasione per farvi i miei più sinceri auguri per un sereno Natale. Caro Babbo Natale,
mai ti ho scritto, neanche quando ero bambina. Ai miei tempi scrivevo alla Befana. E chiedevo cose utili. L'inutile non poteva essere persino desiderato. E allora erano libri, e quaderni. E quel maglioncino caldo. O le scarpe, perché le vecchie erano rotte. E si prometteva, in cambio, di essere buoni. Non si chiedevano cose impossibili da ricevere. Non voglio chiederle a te. Neanche oggi che sono grande. Non ti chiedo di ridarmi la mia città come era, so che non puoi farlo. So che non posso chiederti di svegliarmi, il 25 mattina, e di trovare tutto come prima. La mia casa calda ed accogliente. La mia città fredda e meravigliosa. Tutti che dormono ancora ed io a ravviare le ceneri ancora vive ed a rassettare i fasti del cenone. I regali scartati sotto l'albero e la vita che scorre tranquilla. Guardare dalla vetrata la fuga dei tetti intatti. E la città che si sveglia pigramente nel giorno di festa. E sentire i rumori. E le voci. Uscire con la spazzatura da gettare e far scivolare lo sguardo sui selci della mia L'Aquila. E assaporare l'aria carica dell'odore dei camini . E le luci della notte ancora accese. E le prime campane. E poi la gente. E la vita. Voglio, invece, chiederti una cosa possibile, ma difficile. Vorrei che gli Aquilani alzassero il capo. E scoprissero di essere quel popolo fiero che ci dicono di essere. Vorrei che sentissero che possono farcela. Non chiudendosi in se stessi. Individualmente. Nella disperazione. E nella rassegnazione di fronte a qualcosa che sentono più grande di loro. O, peggio ancora, nella ristretta visuale del proprio orticello da coltivare. Senza pensare a quello degli altri. Senza sentire che l'ingiustizia perpetrata sul vicino è un'ingiustizia perpetrata su tutti.Vorrei che capissero che solo insieme si può rinascere. Facendo progetti. Ed avendo sogni. Nei quali credere tenacemente. Credere che uniti si possa vincere su chi pretende di decidere per noi. Indicare vie di uscita, condivise. Partecipare. Ecco, Babbo Natale, ti chiedo di infondere negli Aquilani il desiderio profondo di partecipazione. Partendo dalle piccole cose. Anche dai bisogni primari. Partendo dal privato che diventa momento di condivisione. E preziosa esperienza da aggiungere a quella degli altri. Incontrarsi e parlare. E progettare. E crederci. E allargare pian piano le ali. Per poi, non importa quando, anche fra tanto, iniziare a volare.

domenica 20 dicembre 2009

il perfetto leghista della bassa bresciana


Se per assurdo a qualche lettore di questo blog dovesse mancare l'esternazione di un Bossi che invita ad imbracciare i fucili oppure avesse nostalgia delle magliette anti Islam targate Calderoli, vorrei invitarlo a rivedersi la puntata di giovedì sera di Annozero. O meglio, a focalizzare la sua attenzione su quei dieci minuti del servizio curato da Corrado Formigli (http://www.annozero.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-43a9c2dd-b3eb-4912-86c8-5e2b7f18f6cf.html) nel quale emerge la figura del perfetto leghista di Trenzano (paesone di cinquemila anime della bassa bresciana) il cui principale desiderio è quello di farsi baciare il culo dall'inviato della trasmissione di Michele Santoro. Incredibile ma vero. Una volta era il Senatùr che invitava i suoi adepti a pulirsi il culo con la bandiera italiana; adesso c'è il consigliere comunale con la barbetta e con la faccia da pirla che ama sentire lo schioccar delle labbra sulle proprie terga. Come dire, tutto cambia, tutto si evolve e tutto si rinnova. Meno il fondoschiena. Ma a parte questo (de gustibus...) mi ha dato molto da pensare il vedere come i consiglieri e gli assessori di Trenzano si siano scagliati (con inaudito rancore verbale) contro quei poveretti dei cittadini di origine musulmana che volevano un luogo per pregare. Ma i signori leghisti (affiancati dai pidiellini), con tanto di delibera amministrativa, negano la riapertura della moschea, calpestando impunemente il naturale diritto di pregare secondo i dettami della religione islamica. Sembrano ritornati i tempi (forse non sono mai finiti) di quando i proprietari di case al Nord non affittavano ai meridionali; di quando sulla porta di molti locali era scritto "vietato l'ingresso ai cani e ai meridionali". Quelle immagini della bassa bresciana, evidenziate dal servizio di Formigli, hanno disvelato uno spaccato sociale inquietante, fatto di disumana protervia, di acclarata ignoranza e di gratuita prepotenza, prossime a convertirsi in aperta violenza (fisica e morale). Più che la provincia di una regione che ama definirsi fra i motori d'Europa del terzo millennio, sembrava di essere proiettati nell'Alabama degli anni Trenta del secolo scorso, fra negrieri e Kunta Kinte in versione coranica. Persino il pidiellino Maurizio Lupi, ospite della trasmissione di Santoro, per un momento ne è parso scosso da tanta imbecillità culturale e pseudopolitica; anche lui avrà pensato che, purtroppo, i leghisti (soprattutto coloro che amano farsi baciare il culo dagli inviati di Annozero) dominano in quasi tutto il Nord e stanno (con funzioni e peso determinanti) nel governo berlusconiano e continuano imperterriti ad imprimere il marchio inconfondibile del razzismo e dei suoi relativi veleni. Credo sia giunto il tempo di dare lo stop a questo immondo e sottosviluppato nucleo leghista. E' ora di comprendere bene che stiamo superando la soglia morale e materiale oltre la quale non c'è ritorno, ma soltanto barbarie. Fermiamoci (o meglio, fermiamoli) finchè siamo in tempo.

mercoledì 16 dicembre 2009

promemoria per il piduista Cicchitto


Non è di certo la prima volta che l'ex socialista e piduista (tessera n. 2232) Fabrizio Cicchitto si trova al centro di una bufera mediatica e politica a causa delle sue dichiarazioni da frequentatore di centri di igiene mentale. Il suo vergognoso attacco di ieri pomeriggio contro il gruppo Espresso-Repubblica e contro il suo acerrimo nemico Di Pietro non è altro che una sorta di continuazione replicante della famosa lista di proscrizione (giornalisti e programmi tv da eliminare) da lui elencata qualche tempo fa, all'indomani di una non gradita trasmissione di Santoro su Berlusconi. Senza voler ricordare il suo passato da voltagabbana politico (l'unico che gli può tenere testa è Sandro Bondi), evidenziandone i suoi antichi e per certi versi incredibili lecchinaggi da socialista marxista nei riguardi del compromesso storico, e senza infierire ulteriormente sul suo trascorso da servizievole e viscido cantore dell'umana bellezza politica craxiana, credo sia sufficiente oggi (con questo mio post) mettere in risalto uno splendido articolo scritto (per il Fatto Quotidiano) da Marco Travaglio e da Peter Gomez con il quale si rammentano, all'attuale capogruppo alla camera del PdL, le infinite esternazioni del suo padrone di Arcore nei confronti di quanti non la pensano (e non la penseranno mai) nel modo uniformato e bulgaro di mister B.: una sorta di pratico promemoria atto a far rimembrare ai deboli di ricordi e di dignità quanta scellerata e copiosa volontà di istigazione vi era nelle parole del Pifferaio. Buona lettura, caro onorevole piduista Fabrizio Cicchitto.
Il bon ton con gli avversari
"Veltroni è un coglione" (Berlusconi, 3/9/95). "Veltroni è un miserabile" (Berlusconi, 4/4/2000). "Giuliano Amato, l'utile idiota che siede a Palazzo Chigi" (Berlusconi, 21/4/2000). "Prodi? Un leader d'accatto (Berlusconi, 22/2/95). "La Bindi e Prodi sono come i ladri di Pisa: litigano di giorno per rubare di notte" (Berlusconi, 29/9/96). "Prodi è la maschera dei comunisti" (Berlusconi, 22/5/2003). "Prodi è un gran bugiardo pericoloso per tutti noi" (Berlusconi, 21/10/2006). "Prima delle elezioni ho potuto incontrare due sole volte in tv il mio avversario, e con soli due minuti e mezzo per rispondere alle domande del giornalista e alle stronzate che diceva Prodi". (Berlusconi alla scuola di formazione politica di Forza Italia, 2 luglio 2007)."Con Prodi a Palazzo Chigi è giusto dire: piove governo ladro" (Berlusconi, 10/4/2008). “Il centrosinistra? Mentecatti, miserabili alla canna del gas” (Berlusconi, 4/4/2000)."Signor Schulz, so che in Italia c’è un produttore che sta montando un film sui campi di concentramento nazisti. La suggerirò per il ruolo di kapò" (inaugurando la presidenza italiana dell’Unione europea e rispondendo a una domanda del capogruppo socialdemocratico, il tedesco Martin Schulz, sul conflitto d’interessi, 2 luglio 2003). "Sono in politica perché il Bene prevalga sul Male. Se la sinistra andasse al governo l’esito sarebbe questo: miseria, terrore, morte. Così come avviene ovunque governi il comunismo (Berlusconi, 17/1/2005).
Il rispetto per gli elettori
“Lei ha una bella faccia da stronza!” (alla signora riminese Anna Galli, che lo contestava, 24/7/ 2003).“Non credo che gli elettori siano così stupidi da affidarsi a gente come D’Alema e Fassino, a chi ha una complicità morale con chi ha fatto i più gravi crimini come il compagno Pol Pot” (Berlusconi, 14 dicembre 2005). "Ho troppa stima dell'intelligenza degli italiani per pensare che ci siano in giro così tanti coglioni che possano votare facendo il proprio disinteresse" (discorso di Berlusconi davanti alla Confcommercio il 4/4/2006). “Le nostre tre “I”: inglese, Internet, imprese. Quelle dell’Ulivo: insulto, insulto e insulto” (27/5/2004).
L'armonia con gli alleati Berlusconi
“Parliamo della par condicio: se non abbiamo vinto le elezioni, caro Follini, è colpa tua che non l’hai voluta abolire”. Follini: “Io trasecolo. Credevo che dovessimo parlare dei problemi della maggioranza e del governo”. Berlusconi: “Non far finta di non capire, la par condicio è fondamentale. Capisco che tu non te ne renda conto, visto che sei già molto presente sulle reti Rai e Mediaset”. Follini: “Sulle reti Mediaset ho avuto 42 secondi in un mese”. Berlusconi: “Non dire sciocchezze, la verità è che su Mediaset nessuno ti attacca mai”. Follini: “Ci mancherebbe pure che mi attacchino”. Berlusconi: “Se continui così, te ne accorgerai. Vedrai come ti tratteranno le mie tv”. Follini: “Voglio che sia chiaro a tutti che sono stato minacciato” (Discussione con l’Udc Marco Follini, secondo i quotidiani dell’11 luglio 2004).
La sacralità delle toghe
“I giudici sono matti, antropologicamente diversi dal resto della razza umana... Se fai quel mestiere, devi essere affetto da turbe psichiche” (Berlusconi, The Spectator, 10/9 2003). “In tutti i settori ci possono essere corpi deviati. Io ho una grandissima stima per la magistratura, ma ci sono toghe che operano per fini politici. Sono come la banda della Uno bianca” (Berlusconi, dopo l’arresto del giudice Renato Squillante, 14/5/96. Ma il riferimento è per quelli che l’hanno arrestato). “I Ds sono i mandanti delle toghe rosse. Noi non attacchiamo la magistratura, ma pochi giudici che si sono fatti braccio armato della sinistra per spianare a questa la conquista del potere” (Berlusconi, 1/12/99). “I giudici di Mani Pulite vanno arrestati, sono un’associazione a delinquere con licenza di uccidere che mira al sovvertimento dell’ordine democratico” (Vittorio Sgarbi, “Sgarbi quotidiani”, Canale5, 16/9/94).“Gian Carlo Caselli è una vergogna della magistratura italiana, siamo ormai in pieno fascismo: si comporta come un colonnello greco, in modo dittatoriale, arbitrario, intollerante. I suoi atti giudiziari hanno portato alla morte” (Vittorio Sgarbi, 8/12/94). “Nelle mie televisioni private non ci sono mai state trasmissioni con attacchi, perchè noi siamo liberali” (Berlusconi, 21/ 5/2006). "Silvio Berlusconi, durante l'ufficio di presidenza del Pdl ancora in corso, secondo quanto riferito da alcuni partecipanti, ha parlato di una vera e propria persecuzione giudiziaria nei suoi confronti , che porta il paese sull'orlo della guerra civile" (Ansa, 29/11/09).
La fiducia nella democrazia
"Si è messo mano all’arma dei processi politici per eliminare l’opposizione democratica. Non siamo più una democrazia, ma un regime. Da oggi la nostra opposizione cessa di essere opposizione a un governo e diventa opposizione a un regime" (Berlusconi, dopo una condanna in primo grado tangenti, 8/8/98). “La libertà non si può più conquistare in Parlamento, ma con uomini lanciati in una lotta di liberazione. Senza la devoluzione, da qui possono partire ordini di attacco dal Nord. Io sono certo di avere dieci milioni di lombardi e veneti pronti a lottare per la libertà” (Umberto Bossi al “parlamento padano”, presente Berlusconi, Ansa, 29/9/2007). "Boicotteremo il Parlamento, abbandoneremo l’aula, se necessario daremo vita a una resistenza per riconquistare la libertà e la democrazia” (Berlusconi, 3/3/95). "In Italia c’è uno Stato manifesto, costituito dal governo e dalla sua maggioranza in Parlamento, e c’è uno Stato parallelo: quello organizzato in forma di potere dalla sinistra nelle scuole e nelle università, nel giornalismo e nelle tv, nei sindacati e nella magistratura, nel Csm e nei Tar, fino alla Consulta. Se si consentirà a questo Stato occulto di unirsi allo Stato palese, avremo in Italia un regime vendicativo e giustizialista, mascherato di legalità e ostile a tutto ciò che è privato" (Berlusconi, 5/4/2005). "Adesso diranno che offendo il Parlamento ma questa é la pura realtà: le assemblee pletoriche sono assolutamente inutili e addirittura controproducenti".(Berlusconi, 21/5/2009).
Il galateo istituzionale

“Il presidente Scalfaro è un serpente, un traditore, un golpista” (Berlusconi, La Stampa, 16/1/95). "Altro che impeachment! Scalfaro andrebbe processato davanti all’Alta Corte per attentato alla Costituzione. E di noi due chi ha maneggiato fondi neri non sono certo io. D’altra parte, Scalfaro da magistrato ha fatto fucilare una persona invocandone contemporaneamente il perdono cristiano. Bè, l’uomo è questo! Ha instaurato un regime misto di monarchia e aristocrazia” (Berlusconi 18/1/95). "Io non sono in contrasto con il capo dello Stato, non ne ho nessun motivo, anzi sono un suo sostenitore convinto. Ho con lui un rapporto molto cordiale" (Berlusconi, 28/2/95). "Ma vaffanculo!" (Berlusconi, accompagnando l’insulto con un gesto della mano, mentre il presidente emerito Scalfaro denuncia in Senato il «servilismo» della politica estera del suo governo nei confronti degli Usa sull’Iraq, 27/9/2002). "Italia vaffanculo" (Tre eurodeputati leghisti, commentando in aula a Strasburgo l'intevento del presidente Carlo Azeglio Ciampi, 5/7/05). "Questi signori, che hanno vinto delle elezioni taroccate, hanno arrogantemente messo le mani sulle istituzioni: il presidente della Repubblica è uno di loro" (Berlusconi, riferendosi al presidente, Giorgio Napolitano, 21/10/06).

lunedì 14 dicembre 2009

chi semina vento raccoglie tempesta (e statuine sui denti)


Ammetto senza indugi e senza reticenze che questa notte non ho chiuso occhio. La notizia del gravissimo, esecrabile, allucinante attentato senza precedenti (escludendo un treppiedi scagliato da Del Bosco a piazza Navona) alla persona di Silvio Berlusconi mi ha lasciato in un profondo stato di prostrazione fisica e morale. Mi sento anch'io colpito nell'animo (e fortunatamente non sull'arcata dentaria), violentato da quel senso di odio e di contrapposizione ideologica che il lancio della statuina da parte di Tartaglia ha voluto significare. Immagino i pensieri partoriti ieri sera dall'abbrutita mente di Emilio Fede, non appena messo al corrente del tragico attentato (stile Beppe Braida pensiero) nei confronti del suo santo protettore politico. Non oso immaginare il senso di costernazione e di sgomento avviluppatosi intorno ai cuori e alle menti dei vari Bonaiuti, Bondi, Cicchitto, Capezzone e compagnia bella. Una tragica e funesta sensazione di impotenza e di rabbia si sarà sicuramente sviluppata lungo la colonna vertebrale del Popolo della Libertà nel momento in cui le agenzie di stampa e i mezzi di informazione dell'intero pianeta hanno ieri sera diramato la catastrofica notizia del criminoso atto terrostico messo in scena vicino al Duomo di Milano. Fortunatamente a tutto ciò ho notato quel senso di solidarietà nazionale, di vicinanza umana e politica, di fratellanza quasi mistica che hanno accompagnato le fibrillanti ore seguite al casus belli berlusconiano. E' bello sapere che ieri sera milioni di italiani hanno intimamente pianto e sofferto per il dolore fisico e morale del premier; è altamente gratificante constatare che tanti miei connazionali in queste ore si sono stretti idealmente accanto al capezzale del presidente del Consiglio, ricoverato in quella angusta stanzetta del settimo piano del San Raffaele; è immensamente appagante il pensiero che tutti quelli che nell'aprile dello scorso anno non hanno votato per Berlusconi ora come ora sono in fila (seppur idealmente) davanti all'ingresso dell'ospedale meneghino per poter portare un fiore, un sentimento di vicinanza o un semplice attestato di tenera amicizia all'uomo che da sempre predica il bene e la pace, la comprensione e l'amore fraterno tra i popoli. Un uomo che ha sempre espletato, nel suo percorso di vita, gli evangelici dettami del porgi l'altra guancia (se poi ci sono fratture del setto nasale o escoriazioni sul labbro poco importa), del volemose bene, del non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Insomma, un uomo (per non dire uno in odore di santità) che ha speso la propria esistenza nel fare del bene a tutto e a tutti, prodigandosi affinchè l'intera nazione potesse trovarsi nella condizione di benessere e di totale efficienza tipica di uno Stato guidato dal classico unto del Signore. E che fortunatamente tra una ventina di giorni potrà tornare tra di noi, non prima di averci fatto segno della sua benevolenza e del suo perdono. Magari affacciandosi dalla finestra di piazza San Pietro, non già da quella del settimo piano del San Raffaele. Tanto sempre di santi stiamo parlando...

domenica 13 dicembre 2009

una pericolosa crisi di identità nazionale


A volte faccio finta di niente, cerco di non pensarci. Ma la realtà dei fatti è purtroppo impietosamente sotto i miei occhi. La situazione sociale e reale (per non parlare di quella politica) del mio Paese in questo momento è terribilmente preoccupante, oserei dire angosciante. Le arcinote conseguenze della crisi globale sulla nostra vita sono lì a testimoniare (seppur ammortizzate dal senso festivo delle giornate che ci stanno proiettando verso la fine di questo 2009) quanto sia davvero difficile per milioni di famiglie italiane riuscire ad arrivare a far quadrare i conti, i bilanci sempre più in rosso, l'ossessione di poter arrivare alla fine del mese senza quel senso di strangolamento economico e personale. E tutto questo, a mio modesto avviso, può avere anche una sorprendente e ulteriore lettura socio-economica: quella delle inaspettate conseguenze che questa crisi potrà avere su una identità collettiva come la nostra, che da tempo molti osservatori giudicano sempre più fragile e incerta. Da questo punto di vista esiste una rimarcata assenza di un qualunque pensiero collettivo capace di andare oltre la quotidianità e di percepire la reale portata delle cose. In questo momento, secondo me, sono in crisi le tre grandi culture che in passato avevano strutturato e diretto la nostra vita pubblica: la cultura di tradizione risorgimentale, quella riformista dell'impegno socio-politico e quella che si fonda sulla difesa del mercato e della competizione individuale. Si potrà sicuramente discutere la sintesi di questa mia diagnosi ma è pur certo che, qualora il nostro Paese si tirerà completamente fuori da questa crisi, ci troveremo di fronte ad un prevedibile effetto: l'Italia sarà inevitabilmente meno unita dal punto di vista delle sue strutture comportamentali profonde, dei suoi valori collettivi condivisi, del suo modo di guardare al futuro. Un effetto dovuto, principalmente, alla grave assenza (nella èlite politica) di una qualunque idea forte del Paese e delle prospettive tipiche di una comunità nazionale, che determinano un pericoloso senso di stallo, di immobilismo sociale ed economico indirizzato verso una paurosa involuzione che, alla fin fine, va a braccetto con una stomachevole sensazione politica di restaurazione, di regime cartonato e ridipinto dall'assolutismo dispotico del Pifferaio di Arcore. E l'intera politica italiana, fatte le debite e rare eccezioni, sembra poco interessata a interrogarsi su ciò che realmente rappresenta oggi l'essere italiani, l'appartenenza civica e morale raffigurata da una bandiera tricolore e dalla solidarietà nazionale. La politica, in realtà, si mostra sempre più eviscerata e priva di qualsiasi progetto per il nostro Paese ad eccezione di quello circoscritto all'orizzonte dei mesi che, volta per volta, la separa dalla più vicina consultazione elettorale. Anzi, per essere ancora più precisi, una parte del mondo politico appare interessata non già a capire cosa tenga assieme un Paese ma ad accentuare ancora di più le divisioni: sia che si tratti di denunciare il complotto giustizialista sia che si tratti di paventare il pericolo berlusconiano (autoritarismo e populismo innaffiato da una bella dose di mafiosità), una bella fetta di politica sembra unicamente interessata a vincere lo scontro esistente tra le due Italie che oramai va avanti da quindici anni. Come se una volta che una di queste Italie (e non importa quale) avesse vinto, automaticamente l'Italia vera (quella di tutti) potesse esistere ancora. Con la consapevolezza che tutto ciò non potrà mai essere.

martedì 8 dicembre 2009

il Grande Fardello della tv commerciale


Approfitto di questa giornata festiva per scrivere un post alquanto leggero, o meglio dedicato ad un argomento non strettamente di politica o di economia nè tantomeno di cultura o di globalizzazione: molto più modestamente vorrei scrivere qualche riga per cercare di capire come possa ancora resistere, nei gradimenti del pubblico televisivo italiano del lunedì sera, un programma talmente inverosimile e finto come è la decima edizione del Grande Fratello targato Endemol Italia e fiore all'occhiello (o presunto tale) della Fininvest di Marina e Pier Silvio Berlusconi. Purtroppo i dati Auditel danno ancora ragione (commercialmente e pubblicitariamente parlando) all'ammiraglia di Cologno Monzese: anche ieri sera quasi 6 milioni di miei connazionali hanno seguito le (dis)avventure degli inquilini della casa di Cinecittà, con il 30% dei televisori sintonizzati su Canale 5. Non vorrei seguire il filo logico tracciato dall'ottimo Aldo Grasso sul Corriere della scorsa settimana (http://www.corriere.it/spettacoli/09_dicembre_02/grasso_3e7a8cc2-df1f-11de-9ac1-00144f02aabc.shtml) ma è alquanto inevitabile sottolineare quanto di falso e di programmato ci sia nell'impaginazione e nello svolgimento di quello che ancora viene ostinatamente chiamato un reality. L'episodio dell'osso di pollo citato nell'articolo di Grasso, unito alla censura televisiva applicata nella diretta notturna dell'episodio incriminato (che alla fin fine si è rivelato la classica tempesta in un biccher d'acqua), non hanno fatto altro che surrogare e confermare l'impressione di artefatto e di costruito a tavolino che, oramai dalla terza edizione del programma, gli autori e i registi del GF danno spudoratamente in dote a quegli infaticabili stakanovisti della diretta del lunedì. L'esperimento sociologico-televisivo espletato nella prima e più genuina edizione del Grande Fratello (osservare dal di fuori 24 ore su 24 le reazioni e le dinamiche personali di 10 sconosciuti costretti a vivere reclusi in una pur accogliente casa), andato in onda dal 14 settembre al 21 dicembre del 2000, sembra lontano anni luce da quello che purtroppo oggi è diventato: una semplice vetrina per ragazzotti muscolosi con il verme solitario e dal bon ton equiparabile a quello di un orango, efebici giovincelli sessualmente indecisi dall'ugola perennemente in fibrillazione, ragazze tatuate e dal piercing facile, riccioluti cattolici dall'astinenza prolungata (ma rinnegata platealmente alla vigilia dell'entrata nella casa) con la predisposizione alla Mrs. Doubtfire, ex anoressiche alla ricerca dell'uomo padre-padrone perduto con l'hobby della manicure e del trucco e parrucco, showman mancati con aspirazione a principi dei poveri da palcoscenico e via discorrendo. Insomma un campionario umano variamente vacuo e alquanto desolante da far impallidire i selezionatori di un casting per provetti survivors da scaraventare seduta stante su un'isola sperduta con volo di sola andata. Una girandola di amenità e di falsi pudori e di altrettanti falsi sentimenti corollati dalla lacrimuccia sgorgante a ogni piè sospinto (come da classico canovaccio con tanto di scaletta preconfezionata ad uso e consumo degli inserzionisti pubblicitari) che diventano stomachevoli quando cercano di trasmettere una sorta di realtà camuffata dal bisogno di raggiungere il picco d'ascolto e di share. In buona sostanza un programma televisivo (se ancora vogliamo rubricarlo così) fatto e cucito addosso, senza troppo sforzo o inventiva, per esemplari del genere umano per nulla interessanti ma solamente patetici, squallidi, violenti e tremendamente scontati a tal punto da farci rimpiangere la tartaruga addominale di un Taricone o le chiappe di una gatta morta come Marina La Rosa, fino a farci chiedere (in contropartita per una chiusura anticipata di questo GF 10) il ripristino delle urla spaccatimpani della coatta per eccellenza, rivista ieri sera nelle vesti di guest star: la mitica Floriana Secondi.

domenica 6 dicembre 2009

la piazza che fa paura a mister B.


Le dichiarazioni del giorno dopo hanno sempre il retrogusto del dèjà vu, o meglio del dèjà entendu. Avviene soprattutto all'indomani di una manifestazione del popolo del centrosinistra (con o senza trattino) rappresentato in questo caso dai giovani (e non) della Rete che hanno promosso il No B Day conclusosi nella meravigliosa piazza San Giovanni di Roma. I politici ostinatamente abbarbicati alle terga neanche troppo preziose di mister B. sostengono che è stato un flop, che non è successo niente, che le grida contro Berlusconi loro nemmeno le hanno udite. Solita patetica manfrina di chi nasconde invece il senso di paura e di incertezza tipico di chi si sente sfilare da sotto le chiappe il trono del comando e dell'assolutismo. Ieri ho seguito in diretta (tramite RAINEWS24) lo scorrere impetuoso ed elettrizzante del magnifico corteo abbagliante di viola, accompagnato dagli slogan e dai cori tutti indirizzati verso Berlusconi per fargli capire che è ora di togliere il disturbo. Ieri, per le vie di Roma, si è visto davvero qualcosa di nuovo, di inedito. E di promettente. Quella generazione che si è inseguita per settimane sulla Rete, che ha via via preso coscienza di sé, della possibilità di un agire politico diretto si è ritrovata in piazza, per dire che Berlusconi e con lui tutto il marcio che ammorba questo sderenato Paese se ne deve andare. Un corteo impressionante, per la quantità delle persone che hanno raccolto l'appello e, ancor più, per l'intensità di una partecipazione che emanava consapevolezza di una responsabilità collettiva. Tutto il contrario di quella passività rassegnata che abbiamo temuto potesse prendere il sopravvento nel clima di degenerazione che si sprigiona dai palazzi del potere. Chi abbia seguito il serpentone fin dentro una piazza San Giovanni per una volta troppo piccola non può non aver ricavato un'impressione profonda. Perché la protesta corale, la richiesta condivisa di giustizia, di uguaglianza, di pulizia, era declinata in mille modi diversi, come se ognuno volesse dirlo in un modo proprio, con un segno, un cartello, uno slogan, un drappo del vestito. C'era il viola, colore adottato dagli organizzatori della manifestazione. E c'era il rosso delle bandiere di una sinistra alla ricerca di una fondamentale unità e pluralità. E che ora è attesa al compito più impegnativo, quello di mettere radici in tutto il Paese e divenire (senza supponenza) interlocutrice dei movimenti, del variegato conflitto sociale, di una domanda di democrazia rimasta per troppo tempo inascoltata e men che meno rappresentata. La nottata non è certo passata. Ma forse qualcosa comincia a cambiare davvero.

martedì 1 dicembre 2009

Peter Gomez, una spina nel fianco del signor B.


Debbo confessare con assoluta naturalezza che a partire dal 23 settembre scorso sono diventato un fedele lettore de IL FATTO QUOTIDIANO e, in particolar modo, di un giornalista che a mio avviso risulta essere uno dei migliori nel comparto "inchieste". Si chiama PETER GOMEZ, ha fatto la gavetta nella fucina montanelliana de IL GIORNALE (quando Berlusconi nemmeno lo leggeva e non gli interessava comprarlo) e de LA VOCE, insieme ad un altro cacciatore di scoop che risponde al nome di MARCO TRAVAGLIO e che, prima di arrivare al quotidiano diretto da ANTONIO PADELLARO, è stato uno dei giornalisti di punta nella redazione de L'ESPRESSO. In questi giorni di roventi polemiche, seguite alle dichiarazioni del pentito SPATUZZA (e non solo) circa le eventuali implicazioni del signor B. nel calderone stragistico mafioso del bienno 1992-93, ho seguito buona parte delle prese di posizione a favore o contro la figura di presunto illibato (dal punto di vista mafioso) dell'attuale presidente del Consiglio e ho trovato questo lungo articolo di GOMEZ, pubblicato l'altro ieri, che riassume con puntualità e con dovizia di elementi quel periodo particolare. Ve lo ripropongo integralmente suggerendovi un'attenta e riflessiva lettura. Firenze, quella notte, c'era un ragazzo affacciato a una finestra. Chi l’ha visto racconta che “urlava”, ma che “a un certo punto ci fu una fiammata e sparì”. A Firenze, quella notte, c'era una bimba. Aveva solo sei mesi e si chiamava Caterina. Dalle macerie della Torre del Pulci la estrassero dopo tre ore. Era come avvoltolata in un materasso. Sul viso aveva solo un graffio e per qualche minuto il medico che la soccorreva pensò di poterla salvare. Ma si sbagliava.
A Firenze, in quella tiepida notte di maggio, morirono in cinque. E altri cinque se ne andarono esattamente due mesi dopo, il 27 luglio, a Milano. Uccisi da un'autobomba in via Palestro, mentre a Roma saltavano in aria due chiese e il presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, credeva che fosse in atto un colpo di Stato. Il centralino di Palazzo Chigi, forse perché sovraccarico di chiamate, non funzionava. I politici, fiaccati dalle indagini sulla loro corruzione e messi in ginocchio dagli avvisi di garanzia firmati dal pool di Mani Pulite, parlavano di terrorismo internazionale, di kommando arabi, di servizi segreti deviati. Solo l’ex segretario del Partito socialista Bettino Craxi sembrava capire. E ai giornalisti diceva: “Qualcuno vuole creare un clima di completa paura. Le bombe si propongono di aprire la strada a qualcosa, non di rovesciare qualcosa. Il potere politico è già stato rovesciato, o quasi”.
SCHEGGE E FRAMMENTI
Eccolo qui il racconto dell’estate del terrore. Eccoli qui quei fatti del 1993-94 ai quali, con “follia pura”, secondo il premier Silvio Berlusconi, “frammenti di procure guardano ancora”. Una lunga scia di sangue e tritolo che ufficialmente si apre nella Capitale 14 maggio ‘93 quando in via Fauro, il presentatore Fininvest, Maurizio Costanzo, sfugge per miracolo a un attentato dinamitardo. E che prosegue, dopo le bombe di Firenze, Milano e Roma, con l’assassinio di don Pino Puglisi a Palermo, con la mancata strage di carabinieri allo Stadio Olimpico (“i morti dovevano essere cento” ha ricordato il pentito Gaspare Spatuzza)e il tentativo di far fuori con la dinamite lo storico collaboratore di giustizia, Totuccio Contorno, il 14 aprile del 1994.
Come nasca la strategia stragista di Cosa Nostra ce lo dicono ormai decine di sentenze definitive. Intorno al 1991 il capo dei capi Totò Riina, capisce che, nonostante le garanzie ricevute da un pezzo di Democrazia cristiana, attraverso l’eurodeputato Salvo Lima, il maxiprocesso, in cui lui stesso è stato condannato all’ergastolo, andrà male.
In Cassazione il verdetto non sarà annullato perchè il giudice Giovanni Falcone, che adesso lavora al fianco del Guardasigilli socialista Claudio Martelli, sta per imporre la rotazione delle sezioni specializzate in fatti di mafia: Corrado Carnevale, il giudice che allora tutti chiamavano “ammazzasentenze” verrà tagliato fuori. In provincia di Enna tra il novembre del 1991 e il febbraio del 1992, si tengono così una serie di vertici tra boss per cercare di recuperare terreno.
«Durante gli incontri», ha raccontato il pentito Filippo Malvagna, «Riina fece presente che la pressione dello Stato contro Cosa Nostra si era fatta più rilevante e che comunque vi erano segnali del fatto che tradizionali alleanze con pezzi dello Stato non funzionavano più». Per questo l’allora capo dei capi decise «fare la guerra per poi fare la pace». Di sparare sempre più in alto per poi aprire una trattativa da una posizione di forza. Come in Colombia.
Vengono messi in calendario gli omicidi dei politici che la mafia considera traditori. Quello di Lima, quello del grande elettore democristiano e uomo d’onore Ignazio Salvo, più una lunga serie di leader di partito che verranno invece risparmiati: Martelli, Salvo Andò, Calogero Mannino e molti altri. Si discute dell’attentato a Falcone. Si parla della morte di personaggi dello spettacolo e della televisione come Maurizio Costanzo e Michele Santoro.
E intanto si ragiona di politica. Nel dicembre del ‘92, con due anni di anticipo rispetto alla creazione di Forza Italia, Leonardo Messina, ex braccio destro del boss della provincia di Caltanissetta, Piddu Madonia, racconta davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia, che “Cosa Nostra ha deciso di farsi Stato”. Riina infatti in quelle riunioni annuncia pure la nascita “di un partito nuovo”, formato da massoni e da colletti bianchi, con l’obiettivo di arrivare “alla creazione di uno Stato indipendente del Sud all’interno della separazione dell’Italia in tre Stati”.
IL CORTEGGIAMENTO DI CRAXI
Muore così Falcone e 57 giorni dopo tocca a Paolo Borsellino. Cosa Nostra è alla disperata ricerca di nuovi referenti politici. Attraverso l’ex sindaco Vito Ciancimino sono state inoltrate allo Stato una serie di richieste (il famoso papello), ma quello spiraglio di trattativa non ha portato a niente di concreto. E sta sfumando anche l’idea, coltivata almeno a partire dal 1987, di stringere un patto con Bettino Craxi. Il lungo corteggiamento avvenuto, secondo la sentenza che in primo grado ha condannato Marcello Dell’Utri, attraverso i vertici della Fininvest è rimasto senza risultati. Certo, con il gruppo del biscione i legami - antichi - si sono consolidati. Ogni anno, come racconta il processo Dell’Utri, a Riina arrivano 200 milioni di lire in regalo. Soldi di cui parlano molti pentiti e di cui è stata persino trovata una traccia documentale.
Un appunto nel libro mastro del pizzo della famiglia mafiosa di San Lorenzo in cui è annotato “1990 Canale 5,5 milioni regalo” (il denaro secondo i collaboratori di giustizia veniva diviso da Riina tra i diversi clan ndr). Ma Craxi sta per essere messo fuori gioco dalle inchieste di Mani Pulite. Per la mafia continuare a puntare su di lui non ha più senso. Che fare? L’unica speranza concreta è rappresentata dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i due giovanissimi boss di Brancaccio. Due ragazzi dalla faccia pulita che a Palermo controllano, attraverso prestanome, alcune delle più grandi imprese di costruzioni della città. A partire dai primi del ‘92 hanno cominciato ad andare spesso al Nord, o meglio a Roma e a Milano, dove hanno dei contatti importanti. Che parlino con Marcello Dell’Utri lo sostiene per primo davanti ai magistrati, già nel 1997, una loro testa di legno. L’ex funzionario della Dc, Tullio Cannella, e lo ribadisce adesso, con più chiarezza, il superpentito Gaspare Spatuzza. Si tratta però di dichiarazioni de relato. L’unico fatto certo è invece che Dell’Utri, a partire dal giugno del 1992, ha assoldato una serie di consulenti (lo dimostrano le carte sequestrate a Publitalia) per spiegare ai manager della concessionaria di pubblicità e a quelli di Programma Italia del banchiere socio di Berlusconi, Ennio Doris, i segreti della politica. Altrettanto incontestabili sono poi le continue telefonate e visite a Milano 2 di Gaetano Cinà, un uomo d’onore della famiglia di Malaspina (un clan vicinissimo a Provenzano), amico da una vita di Dell’Utri. Così mentre Dell’Utri ragiona di politica e, nel timore che le indagini di Mani Pulite portino al governo le sinistre, insiste sul Cavaliere perché scenda direttamente in campo, la mafia in Sicilia continua ad attaccare lo Stato. Il 15 gennaio del ‘93 accade però un imprevisto: Totò Riina finisce in manette. Suo cognato, Luchino Bagarella, raduna gli amici e dice: “Finché ci sarà un corleonese fuori si va avanti come prima”. La scelta è obbligata. Tra il popolo di Cosa Nostra c’è molta insofferenza. Adesso bisogna pure convincere lo Stato a chiudere i supercarceri di Pianosa e l’Asinara, appena riaperti, e a eliminare il 41 bis. Il problema è che con Mani Pulite che impazza mancano interlocutori affidabili.
IL “SEGNALATORE
Non è chiaro chi dia alla mafia l’idea di distruggere i monumenti con le bombe. Cioè di fare azioni eclatanti che però non colpiscono (in teoria) le persone, ma le cose.
Una delle piste battute dalla procura di Firenze negli anni ‘90, sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, portava sempre alla Fininvest. Ma, in assenza di riscontri indiscutibili, tutto è stato archiviato. Certi sono invece due fatti. A pretendere che le stragi avvenissero fuori dalla Sicilia è stato il grande protettore dei Graviano, il boss Bernardo Provenzano.
Mentre la riunione operativa che ha preceduto gli attentati è avvenuta il primo aprile del‘93, in un villino di Santa Flavia, vicino a Palermo, di proprietà di Giuseppe Vasile, un appassionato di cavalli, poi condannato per favoreggiamento dei Graviano. Vasile è un driver dilettante e corre in pista con Guglielmo Micciché, il fratello di Gianfranco, che sarà poi coordinatore di Forza Italia in Sicilia. Figlio di un vecchio uomo d’onore di Brancaccio, Vasile mette dunque a disposizione la sua abitazione per l’incontro in cui Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro - il giovane boss di Trapani fattore della famiglia del futuro sottosegretario agli Interni, Antonio D’Alì - ragionano di bombe. Durante il summit si decide che a colpire siano i Graviano, Matteo Messina Denaro e i loro uomini. Tutti loro partono per il continente e per mesi non hanno più contatti con Bagarella. Ma è a Palermo che avviene un fatto davvero strano. il 12 maggio, 48 ore prima dell’azione contro Costanzo, Vasile, con un amico titolare di una ricevitoria di totocalcio, entra nell’agenzia numero 27 del Banco di Sicilia, diretta da Guglielmo Micciché. I due chiedono a Micciché di cambiare 25 milioni in contanti in assegni circolari. L’operazione viene eseguita immediatamente. Gli assegni verranno poi utilizzati per tentare di affittare una villa in Versilia dove ospitare, presentandoli sotto falso nome, sia i fratelli Graviano che Matteo Messina Denaro. Una vacanza che proseguirà almeno fino a luglio, mentre l’Italia viene messa a ferro e fuoco. Poi i Graviano partono di nuovo. Si dirigono a Porto Rotondo, dove resteranno per tutto agosto, mentre a poche centinaia di metri, nel suo buen retiro di villa La Certosa, Berlusconi trascorre lunghi fine settimana mettendo a punto il suo nuovo partito.
Infine l’ultimo viaggio. La meta è Milano, dove i due fratelli verrano arrestati il 27 gennaio del ‘94. In quel periodo però si fa vedere in città anche l’ex fattore di Arcore, Vittorio Mangano.
Il boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, e il Luchino Bagarella, lo hanno infatti incaricato di contattare il Cavaliere. Brusca, una volta pentito, racconta che a fine settembre né lui, né Bagarella, avevano più notizie dei Graviano. Per questo Mangano viene convocato d’urgenza e gli viene chiesto di riallacciare i suoi antichi rapporti. Il 2 novembre,come risulta dalle agende sequestrate alla segretaria di Dell’Utri, l’ex fattore chiama il futuro senatore azzurro in quel momento impegnato negli ultimi preparativi di Forza Italia. Poi lo cerca di nuovo e spiega per telefono che tornerà a fine mese. Sulle agende si legge: «Mangano Vittorio sarà a Milano per parlare problema personale» e ancora: «Mangano verso 30-11 5 giorni prima convoca con precisione». L’incontro, come conferma Dell’Utri, avviene per davvero: “Di tanto in tanto”, dice il senatore, “Mangano mi veniva a trovare. Mi parlava della sua salute”. Non è chiaro invece, ma è altamente probabile, se a Milano il boss incontri anche i Graviano. Di sicuro in quei mesi tra la famiglia di Porta Nuova, capeggiata da Mangano, e quella di Brancaccio viene inaugurata una sorta di alleanza. Spatuzza ricorda che i Graviano gli chiesero di andare a Porta Nuova per risolvere un problema di ordine pubblico mafioso: punire dei ladri che si muovevano fuori dagli ordini del clan. Lui rimase sorpreso. Ma poi, quando nel gennaio del ‘94, Giuseppe Graviano gli disse di aver stretto un patto con Berlusconi e Dell’Utri, cominciò a capire.