tpi-back

martedì 30 giugno 2009

in attesa delle foto pruriginose...


Le famose cinquemila foto in possesso di Antonello Zappadu e vanamente ostacolate dai pretoriani togati in quota berlusconiana hanno fatto molto rumore. Ma forse nessuno ancora sa (anzi, un giornalista che conosco lo sa eccome...) che tra quelle foto vi è quella che potrei definire, senza retorica, la foto-bomba: quella che mostra (e ci vorrà dello stomaco per vederla!) Silvio B. completamente nudo, seduto nella sua magione in Sardegna. E non vi sto a dire quello che fa. Lo stesso Zappadu ha confidato di temere per la sua incolumità, sapendo l'effetto che potrebbe provocare l'uscita su qualche sito straniero di quella foto. Costretto a una vita blindata, quasi in fuga, il fotoreporter sardo che ha lavorato su Villa Certosa per tre lunghi anni, dal 2006 a oggi, avrebbe ammesso l'esistenza di due immagini fortemente hard. Un'altra immagine forte riguarderebbe l'ex premier ceco Mirek Topolanek, già immortalato in versione nature all'interno della residenza estiva del Cavaliere. Questa volta il premier dell'Est è stato beccato con una ragazza intenta in una pratica tipo Lewinsky, tanto per intenderci. Tornando al nostro premier, che sicuramente interessa più del suo omologo ceko, si può affermare che l'attesa (come l'estate del resto) è appena iniziata e c'è tutto il tempo per mostrare che il re è completamente nudo, in tutti i sensi. Sul fronte della satiriasi del Cavaliere e sul suo stile di vita (Veronica dixit: «Mio marito è un uomo malato che frequenta minorenni»), basta ricordarsi dei dettagli rivelati dalla escort barese che ha trascorso con lui una notte a Palazzo Grazioli tra il 4 e il 5 novembre del 2008. Al Sunday Times, edizione domenicale del quotidiano edito da Murdoch, e al quale la D'Addario aveva già rilasciato un'intervista, la quarantenne pugliese (presentata al premier dal manager indagato Tarantini) ha raccontato che lui «era instancabile, non ho mai dormito». Nella residenza romana di Silvio B. i due presero possesso del grande letto a tre piazze alle quattro di mattina. Stavolta D'Addario aggiunge altri particolari sul rituale dell'accappatoio bianco, che il Cavaliere indossa quando è in compagnia della prescelta. L'escort racconta che l'infoiato premier fece più di cinque docce fredde e che a un certo punto le chiese di raggiungerlo nel bagno, sotto l'acqua scrosciante. Non solo: durante l'amplesso, nel grande letto, «d'improvviso smise di muoversi e pensai fra me "grazie a Dio si è addormentato". Ma non fu così. E ricominciò». La escort, nel suo racconto, evidenzia altri due dettagli riferibili al Pifferaio di Arcore. Uno conferma la profonda sensibilità del Cavaliere in materia di odori e trucco femminile: alla escort, un'altra donna tolse lo smalto dalle unghie di mani e piedi. Non solo: il presidente del Consiglio, forse a causa dei farmaci assunti, si addormentò pure in un'altra occasione, che provocò grandissimo imbarazzo nella compagna di una notte. Tornando ai giorni nostri, per quanto riguarda l'inchiesta pugliese, ieri il procuratore capo di Bari Emilio Marzano ha tenuto una riunione di coordinamento con i suoi sostituti, titolari dei vari filoni d'indagine su appalti, sanità, sesso e festini. Alla vigilia del G8, Marzano ha spedito due messaggi ritenuti rassicuranti dagli ambienti del centrodestra. Dapprima, il magistrato ha specificato che «non si parla di cocaina» in nessuna delle quattro inchieste. Poi ha giudicato «un'ipotesi astratta» quella di ascoltare il presidente del Consiglio a Bari come «persona informata sui fatti». È come se anche i pm avessero stipulato una tregua. Magari in occasione del G8. E in attesa che escano da un momento all'altro queste benedette foto hard...

lunedì 29 giugno 2009

ecco chi complotta contro Silvio B.


Questa notte non ho chiuso occhio. Non sono riuscito a dormire perchè sono stato assalito dai sensi di colpa per aver scritto ieri un post in cui sostenevo che non dobbiamo complottare contro Silvio B. La mia coscienza mi ha messo di fronte ad un bivio: o dai un seguito comprobante di quello che scrivi o chiudi il tuo blog. Messo alle strette (e con l'angoscia di dover dire addio al mio blog) mi sono messo alla caccia dei cospiratori del nostro premier. E li ho scovati. La sorpresa è stata grande quando mi sono reso conto che i primi carbonari (anzi, per meglio dire, le prime carbonare) erano quattro professoresse universitarie. Sissignori, proprio delle donne che inopinatamente credevo immuni dall'avversione nei confronti del papi. E invece no, le quattro miss antiberlusconiane hanno redatto e firmato un appello (che è stato ripreso con clamore e visibilità dalla stampa inglese e spagnola) per far sì che le first ladies dei potenti che parteciperanno a L'Aquila al G8 si astengano e se ne stiano a casa. Il testo dell'appello è il seguente: Siamo profondamente indignate, come donne impegnate nel mondo dell’Università e della cultura, per il modo in cui il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, tratta le donne sulla scena pubblica e privata.
Non ci riferiamo solo alle vicende relazionali del premier, che trascendono la sfera personale e assumono un significato pubblico, ma soprattutto alle modalità di reclutamento del personale politico e ai comportamenti e discorsi sessisti che delegittimano con perversa e ilare sistematicità la presenza femminile sulla scena sociale e istituzionale. Questi comportamenti, gravi sul piano morale, civile, culturale, minano la dignità delle donne e incidono negativamente sui percorsi di autonomia e affermazione femminili.
Il controllo che Berlusconi esercita sulla grande maggioranza dei media italiani, in spregio a ogni regola democratica, limita pesantemente le possibilità di esprimere dissenso e critica. Risulta difficile, quindi, far emergere l’insofferenza di tante donne che non si riconoscono nell’immagine femminile trasmessa dal premier e da chi gli sta intorno.
Come cittadine italiane, europee e del mondo, rivolgiamo un appello alle first ladies dei paesi coinvolti nel prossimo G8 dell’Aquila perché disertino l’appuntamento italiano, per affermare con forza che la delegittimazione della donna in un Paese offende e colpisce le donne di tutti i Paesi.
CHIARA VOLPATO (Professore Ordinario – Università di Milano)
ANGELICA MUCCHI FAINA (Professore Ordinario – Università di Perugia)
ANNE MAASS (Professore Ordinario – Università di Padova)
MARCELLA RAVENNA (Professore Ordinario – Università di Ferrara). Non mi sono certo fermato qui. Ho scovato anche degli uomini che complottano contro il premier. Il primo è uno che si cela dietro lo pseudonimo di FanFibra e che addirittura dà del mafioso al nostro incensurato premier. La prova incontrovertibile è qui: http://www.youtube.com/watch?v=Bk7FyvotcKc&feature=related. Poi ci sono quelli di una sconosciuta televisione locale francese (mi pare si chiami Canal+...) che hanno mandato in onda un'inchiesta dove si dicono brutte cose sul conto del nostro presidente del Consiglio: http://www.youtube.com/watch?v=AQhetlMPerI. Ma non basta. C'è anche un blog che cospira contro Silvio B. e che si chiama Buzz Intercultura (http://buzzintercultura.blogspot.com/). Ha messo in Rete una sintesi di alcuni telegiornali spagnoli che trattavano lo scandalo dell'erotomane di Arcore e il risultato è stato una bella censura su Facebook e su altri siti di social network. Ma loro non hanno desistito ed ecco il risultato: http://www.youtube.com/watch?v=NydPfPnX_3E&feature=related. Ho raccolto altre prove contro i cospiratori di Re Silvio, ma credo sia sufficiente quello che ho già menzionato in questo mio post odierno. Che ne dite?

domenica 28 giugno 2009

smettiamola di complottare!


Non sto scherzando. Smettiamola di complottare contro il presidente del Consiglio o qui fra breve ci ritroviamo tutti con il bavaglio alla bocca (o alla tastiera, che fa lo stesso). Sento che la sua rabbia sta montando giorno dopo giorno, conferenza stampa dopo conferenza stampa, trombata dopo trombata (anche se francamente speravo in un effetto diverso...). «La nostra economia va e noi non dovremmo essere preoccupati o pessimisti. Piuttosto dovremmo essere ottimisti. Io dico sempre: "Sii ottimista e avrai prosperità!"». Sembrano le parole di Silvio B., perché tra tutti i leader mondiali solo lui (a un anno dall’esplosione della crisi che ha travolto l’economia globale) parlerebbe così. E invece dopo mesi di ricerche, s’è scovato in giro per il pianeta un altro che la pensa (quasi) come lui. E' uno sceicco, si chiama Mohammed Khalifa ed è il presidente degli Emirati Arabi. A differenza del Pifferaio di Arcore, però, Sua Altezza non arriva a teorizzare le veline stile Minculpop e la museruola ai mass media per puntellare l’ottimismo del popolo. Sì, la crisi c’è in tutto il mondo: ma c’è soltanto un leader occidentale, il Caimano per l'appunto, che vuole tappare la bocca ai giornalisti per nasconderla e togliere la pubblicità a chi sparge paura. Al tavolo con le parti sociali dei Paesi del G8, Silvio B. ha lasciato tutti sbigottiti: «La paura è la prima causa della crisi. Dobbiamo lavorare sul fattore psicologico, anche intervenendo sui media che sono fattori di crisi. Non c'è giorno che non ci siano previsioni negative e terrificanti. Bisogna interrompere tutti insieme questo circuito». Mi auguro proprio che l’idea del premier d’imbavagliare e pilotare l’informazione sulla crisi non avrà alcuna eco nel G8, salvo forse eccitare i russi, noti campioni della libertà di stampa. Meno ovvio che l’Italia sia ormai assuefatta alle lezioni di teoria della manipolazione dell’opinione pubblica del capo del governo. Un milionesimo delle dichiarazioni del Cavaliere fossero fatte da Obama, Sarkozy, dalla Merkel o da Brown scatenerebbero un putiferio in America, in Francia, in Germania e in Gran Bretagna. Da quando è presidente degli Stati Uniti l’unica critica che Obama ha rivolto alla stampa, in relazione alla situazione economica, è stata quella di una certa impazienza con cui si attende l’effetto degli interventi anti-crisi. Ma «un governo senza giornali, che siano forti e vitali, non è un'opzione per gli Stati Uniti», ha recentemente detto il presidente afro-americano parafrasando Jefferson. Né accuse, minacce o tentazioni di condizionare i media, in oltre un anno di crisi, si sono mai registrate tra gli altri leader dei Paesi democratici. I quali, peraltro, non hanno il peso mediatico del tycoon di Arcore, magnate della stampa, della tv privata e controllore di quasi tutta quella pubblica. Persino tra gli sceicchi i suoi progetti rischierebbero di essere considerati autoritari: gli Emirati hanno appena annunciato l’intenzione di porre fine alle carcerazioni collegate all’attività giornalistica e, sembra incredibile ma è vero, ha congelato il testo di nuova legge sulla stampa, che prevedeva pesanti ammende in caso di insulti al governo. Praticamente come qui da noi...

teniamoci pronti, ma per davvero


Debbo ammettere che è sempre uno spasso seguire le funamboliche conferenze stampe di Silvio B., uno che al ridicolo non mette mai fine, uno che persevera ostinatamente nel suo personalissimo show dell'uno contro tutti (pur non trovandosi al Teatro Parioli...), del parlo io e tu, giornalista di sinistra, stai zitto. Altrimenti mi alzo e me ne vado. Come dire, viva la libertà di espressione e il diritto alla cronaca e all'informazione. Ma nemmeno ai tempi di Bokassa c'era una libertà come questa! Ecco, questo mio incipit credo sia propedeutico per far capire (anche per quei quattro a cui ancora non fosse chiaro il quadro generale) che il nostro premier ama usare un linguaggio semplice che impedisce anche agli stolti e agli ingenui di (far finta di) non capire: «Bisogna chiudere la bocca a chi parla di crisi». Chiudere la bocca, proprio così si esprime il presidente del Consiglio (per opportuna verifica guardare il video, http://tv.repubblica.it/dossier/10-domande/non-date-pubblicita-a-chi/34383?video). Tapparla. Coi proclami e con le intimidazioni, certo, ma soprattutto col mezzo principale, quello con cui da sempre Silvio B. ha costruito (fin dai tempi dello stalliere Mangano e della loggia P2) il suo impero e poi la sua fortuna: il potere del ricatto e del denaro. Comprando, ricattando, affiliandosi e corrompendo con allegria e con lo smagliante sorriso che lo contraddistingue, l'attuale premier è diventato prima imprenditore e poi politico: migliaia di carte processuali, quintali di faldoni resi inutili da leggi su misura, oltre agli atti parlamentari sulla P2, testimoniano della sua attività di allora e di oggi. Poi, si sa, gli anni passano, la gente dimentica, certe debolezze della carne, certi stravizi senili insomma occupano le cronache e la scena e si perde di vista, a forza di parlare di minorenni di mignotte e di cocaina, l'oggetto principale: la smisurata capacità di comprare chiunque a qualsiasi prezzo o di cancellarlo, in alternativa. Se non lo si può comprare gli si tappa la bocca. Così vorrebbe fare il nuovo ducetto del ventunesimo secolo con chi parla di crisi del tutto incurante del fatto che il problema non è chi ne parla ma è l'esistenza stessa della crisi. Non basta bandire dal Paese i termometri per eliminare la febbre, non serve proibire le calcolatrici per cancellare il deficit. Quindi con chi ce l'ha, l'uomo che dovrebbe mettere tutta la sua eventuale sapienza al servizio del Paese, del benessere diffuso e collettivo, del futuro di ciascuno? Ce l'ha con chi gli rovina le serate delle sue feste in villa. Non solo quindi con giudici eversivi e giornalisti comunisti ma anche con Draghi, per esempio, che mostra i dati di bilancio del Paese. Ma soprattutto ce l'ha con i giornali che ancora resistono a raccontare le cose come stanno: pochissimi per la verità, visto e considerato che gli altri sono suoi o in suo potere. Dunque, a questi giornali bisogna spezzare le reni, dice Al Tappone (come l'ha soprannominato Marco Travaglio) e togliere loro la pubblicità, prima fonte di sostentamento. Azzopparli, zittirli: tappare la bocca. Questo, signori miei, è il delirio di onnipotenza di Silvio B. al quale bisognerebbe rimediare immediatamente. In che modo? Facendosi trovare pronti, nel caso in cui il delirio risultasse evidente anche ai suoi stessi alleati (qualche sintomo lo si intravede), a governare il Paese comunque. Fini si sta allenando, nel PdL sono in molti a scaldarsi a bordo campo. Ma quello che più interessa a chi vi scrive è l'opposizione. Il Partito Democratico, che ne è il perno, si prepara al Congresso di ottobre con manovre che spero tanto non siano lesive o autolesioniste del principio comune di tutti gli uomini della sinistra. Il mio auspicio è che non si perda di vista ancora una volta l'obiettivo comune, che non si sacrifichi alla battaglia interna la posta in palio, gigantesca: il residuo di credibilità di cui la politica può contare nel Paese. In specie in quella porzione di Paese rassegnata e sfinita il cui credito (per il PD) è quasi scaduto. Per fortuna che ci sono i trentenni e i quarantenni dai quali mi attendo che pervenga un segno. Già questo sarebbe l'inizio di un progetto, un orizzonte a cui tendere.

sabato 27 giugno 2009

le Silvio's Angels


Navigando qua e là, nei momenti di relax mentale, mi sono imbattuto stamane in un bel sito pieno di notizie e di commenti, alcuni dei quali riferibili all'ultimo scandalo di Palazzo (e non soltanto Grazioli) che sto seguendo con una certa curiosità e attenzione. Su questo sito (http://www.blitzquotidiano.it/) ho letto un lunghissimo articolo riepilogativo, a firma Federico Mello, che è una sorta di manifesto sic et simpliciter sulle numerose ragazze-satellite gravitanti da tempo intorno al riconosciuto Re Sole della patonza, l'unico ed indiscusso assertore del celodurismo di inizio millennio, altro che l'oramai pensionato Umberto Bossi. Per chi volesse spulciare, con dovizia di particolari e con riferimenti attendibilissimi, sulle imprese e non solo delle Silvio's Angels si accomodi pure: questo è il link di riferimento (http://www.blitzquotidiano.it/politica-italiana/berlusconi-da-angela-a-virginia-via-noemi-all-the-presidents-girls-46817/) per una vera e sana cultura del gossip. Buona lettura a tutti.

giovedì 25 giugno 2009

Silvio B., la vera piaga d'Italia


Ce ne sono di cose che non vanno in Italia, e non certo da oggi. Non fa più notizia (o quasi) il tasso di disoccupazione, non intenerisce più il cuore di nessuno sapere che c'è gente che con 500 euro di pensione al mese non ce la fa più, non induce certo alla lacrimuccia sapere che il lavoro rimane una chimera per milioni di giovani (e di over 50enni). Ma c'è una cosa che fa imbestialire l'italiano, almeno quello assennato e deberlusconizzato, fino quasi a fargli perdere il sonno: constatare che Silvio continua ogni giorno a fare finta di niente, a infischiarsene delle continue critiche, anzi lui è sempre più convinto di essere nelle grazie dei suoi connazionali e forse crede anche di essere indispensabile alla sopravvivenza degli stessi, come l'aria, forse di più. Ma non sa, e questa è la cosa più importante, Silvio B. che oramai può essere catalogato come e più di una piaga mortale, per il Paese e per l'Europa tutta (non sto esagerando, basta sapere come la pensano i suoi omologhi continentali). Una piaga dolorosa, simile a una spina conficcata nel cuore vivo dell'Italia e degli italiani che non si riconoscono (fortunatamente, aggiungo io) in lui. Una piaga mortale in questo nostro Paese governato da un signore-padrone che non ha avuto bisogno di olio di ricino e manganello, ma ha usato quell’arma del video per conquistare il potere. Potere politico su un Paese da anni telestupefatto, alienato dai messaggi di volgarità e di stupidità. Da quindici anni il Paese ha vissuto sotto questo potere. Ma oggi, quell’arma in mano a quell’uomo, imprevedibilmente e paradossalmente, si è rivoltata contro di lui, fino a ferirlo e forse a stenderlo. Le cronache di giovani fanciulle, aspiranti veline o aspiranti parlamentari, fanciulle che a pagamento frequentano le magioni urbane e vacanziere del Capo (basta leggersi l'ottimo articolo di Marco Lillo, http://espresso.repubblica.it/dettaglio/le-candidate-di-papi/2102885&ref=hpsp), fanciulle che hanno cominciato a parlare, a rivelare. E poi le foto. Foto che fissano le immagini di quelle allegre squadre di squinzie (e non solo...) che entrano e dimorano in quelle magioni, stanno facendo traballare la poltrona suprema di quel Capo. Una considerazione mi viene in questo momento da fare: dal dopo guerra abbiamo avuto la democrazia, abbiamo avuto gli anni bui, abbiamo avuto la crisi del 1973, ma certo ora un capo di Governo come questo di oggi non lo avrei mai e poi mai immaginato. La stampa internazionale parla di lui con meraviglia e ironia. Sembra che ora forse la sua poltrona traballi. E allora che ne sarà di questo Paese? I cittadini appaiono smarriti. Le percentuali di astensioni alle elezioni comunali, provinciali e soprattutto al referendum sono un segno di questo smarrimento. E il segno che, come sottolinea Renato Mannheimer sul Corriere della Sera, domandando a un campione rappresentativo degli elettori «qual è la prima cosa che viene in mente parlando di politica?», il segno è questo: «disgusto», oppure «rabbia». E il riferimento alle gesta pseudoporno di Silvio B. mi sembra iù che appropriato. Certo, sono insorte, e non da ora, in questo Paese i localismi, le nuove vandee, la Lega Nord e il siciliano Movimento per l'Autonomia. Purtroppo c'è ancora molta corruzione, molto menefreghismo, ma c’è anche una sinistra (e spero di non illudermi) che per fortuna ancora resiste, una sinistra che dovrebbe però tutta unirsi per ridare dignità democratica a questa nostra Italia. E come dice anche Giuliano Amato, sarebbe bello che al prossimo congresso del PD le due anime incarnate da Franceschini e da Bersani si uniscano per permettere ad un partito più forte, più coeso, di debellare una volta per tutte la piaga mortale rappresentata da Silvio B.

mercoledì 24 giugno 2009

decadenza di un premier malato (di gnocca)


Ogni giorno che passa spero che arrivi la buona notizia, che molti italiani attendono. Non è certo quella dell'aumento delle pensioni o dei posti di lavoro, men che meno quella della Carfagna che si è fatta suora o di Calderoli beccato in atteggiamenti inequivocabili con Alfonso Signorini. No, niente di tutto questo: la notizia attesa da molti è quella delle dimissioni del premier Silvio Berlusconi. Ecco, oggi lo voglio chiamare per nome e per cognome, senza soprannomi e senza appellativi ironici. La questione è tremendamente seria e va trattata con la dovuta serietà. A questo punto, francamente, suggerirei al presidente del Consiglio di attendere l'inizio del G8 abruzzese e di annunciare in mondovisione le sue dimissioni irrevocabili: sarebbe lo scoop del secolo, veramente. In questi giorni mi è capitato di discutere con colleghi di lavoro e con vecchi amici. Parecchi di loro mi hanno rivolto la medesima domanda: Silvio Berlusconi ce la farà a reggere di fronte agli attacchi che gli piovono addosso dai giornali e dai partiti dell’opposizione? Verrà costretto a dimettersi o sarà in grado di superare la bufera? Chi me lo chiedeva, cercava da me una risposta chiara. Dico subito che non sono stato capace di darla. Adesso provo a mettere in ordine quello che ho tentato di dire. E soprattutto quel che ho sentito. Cominciando dall’elenco delle armi che il Cavaliere ha per resistere a un’offensiva sempre più incalzante. L’arma più forte sono i tantissimi voti raccolti nelle ultime elezioni politiche. Questi voti hanno prodotto una maggioranza molto solida che gli consente di governare con sicurezza. Accanto a lui c’è un alleato, la Lega, che ha più pretese di un tempo, ma non sembra tentato di lasciarlo. Inoltre, Silvio possiede un carisma che nessun altro leader politico può vantare. Molti dei suoi elettori non si limitano a stimarlo: lo amano, lo considerano un alieno rispetto alla nauseante casta dei partiti, lo ritengono l’unico in grado di curare i mali del Paese e di cambiarlo in meglio. Infine il Cavaliere ha dalla sua la Costituzione. Non sarebbe possibile obbligarlo a dimettersi per cedere il passo a un governo di tecnici o fondato su una maggioranza diversa. Se lui decidesse di gettare la spugna, si dovrebbe formare un altro ministero di centrodestra. Come estrema possibilità ci sarebbe soltanto lo scioglimento delle Camere, seguito da nuove elezioni. Messa in questo modo, la faccenda è di una chiarezza solare. Silvio si trova in una botte di ferro. Difeso da una corazza infrangibile. Nessun complotto può abbatterlo. I poteri forti, i partiti e i giornali che gli sono ostili cercano in tutti i modi di abbatterlo. Possono intossicare l’aria, avvelenare i pozzi, scovare dieci, cento, mille squinzie disposte a raccontare i festini erotici di Palazzo Grazioli o del villone in Sardegna. Ma non riusciranno a mandarlo al tappeto. Però potrebbero vincere ai punti questa estenuante partita. A questo punto debbo confessare che mi sovviene una legittima domanda: Berlusconi è ancora in grado di essere questa guida, questo comandante, questo faro per questo Paese? La mia risposta è netta: temo di no. Lo dico senza infilarmi nella giungla dei retroscena. E senza affrontare il tema se la colpa sia sua o di chi guida da mesi la campagna contro di lui. Si può essere distrutti da un tir che t’investe senza che tu abbia fatto nulla per essere travolto. L’unico fatto a contare è che, dopo l’urto del tir, tu non sei più quello di prima. È questa la condizione odierna del nostro premier. I fucili dei cacciatori lo hanno colpito. E il tiro al piccione continuerà. Neppure Silvio sa quel che può accadere. A essere nel mirino è la sua vita privata. E nelle vite private di tutti ci sono angoli nascosti dove si cela il diavolo. Ma non tutti sono presidenti del Consiglio. In ogni nazione, di premier ce n’è soltanto uno alla volta. Se a fare il piccione è lui, il rischio si espande e riguarda l’intero Paese. Per questo la mia conclusione è quella naturale di chiedere al presidente del Consiglio di dimettersi, anche per sottrarsi alla pioggia di fango che prevedo gli continuerà a cadere addosso. Oggi questo mio consiglio credo sia diventato quasi un imperativo. Berlusconi deve preparare l’inevitabile transizione. Non ha mai voluto scegliersi un delfino, un successore. Vittima anche lui del complesso dei migliori , che di solito viene attribuito alle sinistre, non ha costruito una gerarchia di vice-leader in grado di prendere il suo posto. Un errore pesante, dovuto alla convinzione di essere l’unico grande della politica italiana. E anche di essere immortale, pur avendo paura della vecchiaia e della morte, come tutti del resto. Insomma, il Cavaliere deve lasciare Palazzo Chigi di sua volontà. Senza aspettare le calende greche. Soltanto così non distruggerà il Paese e il suo partito. Obbligando i milioni di elettori che l’hanno votato a pentirsi di averlo scelto come premier.

martedì 23 giugno 2009

la risibile autodifesa del papi


Anche il papi oramai ha scelto il suo canale ufficiale per le ridicole smentite e per i volgari contrattacchi nei confronti di chi lo ha messo palesemente in difficoltà. Quando non va a sedersi sulle comode poltrone bianche di Bruno Vespa alza il telefono e chiama un altro dei suoi molteplici leccaculi dell'informazione, sempre pronto e sempre a disposizione: Alfonso Signorini. E così questa volta, per cercare di minare la credibilità della sua accusatrice barese dalle tariffe non proprio a buon mercato, affida alle pagine del settimanale Chi (di sua proprietà, fra le altre cose) il vergognoso attacco contro Patrizia D'Addario (http://www.repubblica.it/2009/06/sezioni/politica/berlusconi-divorzio-10/berlusconi-divorzio-10/berlusconi-divorzio-10.html) rendendosi ancora una volta ridicolo agli occhi del Paese. Non sono bastati gli inviti del quotidiano dei vescovi l'Avvenire a fare autocritica nonchè ammissione di colpa; non lo ha scalfito nemmeno il recente attacco (e non è certo una novità) del settimanale paolino Famiglia Cristiana. Figuriamoci poi se lo possono adombrare i giudizi della stampa estera. Al Pifferaio di Arcore non gliene può fregare di meno. Però una domanda bisogna farla: con questo attacco denigratorio alla D'Addario cosa pensa di ottenere? Di oscurare e penalizzare l'immagine della 42enne signora pugliese? Cosa può dire il beato Silvio a chi, tanto per ricordarlo, gliel'ha data in cambio di 2.000 euro? Che forse è una mignotta? Ma lo sanno tutti! Tutt'al più, l'unico modo per ferirla veramente è quello di dirle che è una baldracca comunista! Ma tanto oramai non ne esistono più nemmeno in Uzbekistan...

lunedì 22 giugno 2009

la linea editoriale di Augusto Minchiolini


Alla fine ce l'ha fatta. Dopo una settimana di silenzio, di black-out mediatico sul pornoromanzo berlusconiano, il neo direttore del TG1 ha sentito (bontà sua!) questa sera di dovere delle spiegazioni ai telespettatori, rimasti un pò interdetti per questa nuova linea editoriale del telegiornale più seguito d'Italia. L'ex notista politico del quotidiano torinese La Stampa ha detto la sua (per chi si fosse perso l'evento ecco il replay: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-9eb63108-3797-4d72-9f13-2f23269e245d.html), ma a ben guardare e ascoltate le sue dotte spiegazioni forse era meglio se continuava con il black-out. Perlomeno non faceva la figura del cretinetti (come direbbe la meravigliosa Franca Valeri), di quello che quasi tirato per i capelli (e qui mi astengo da battute scontate) è stato costretto a bofonchiare parole senza senso pur di giustificare l'assurdo oscuramento dei fatti e delle ripercussioni a livello di immagine internazionale che il suo caro padrone di Arcore ha provocato per far vedere che il suo randello non era da meno di quello di Topolanek, immortalato negli scatti di Zappadu. Ora, va bene che il direttore del TG ha voluto attendere la chiusura delle urne (manco si trattasse della vendita di una società quotata in Borsa) per non influenzare non si sa cosa, va bene che per lui non ci sono elementi rilevanti per dare la notizia sul Pifferaio piuttosto che quella sulle vacanze degli italiani o sull'ultimo sondaggio circa la nouvelle cuisine preferita dal vip di turno o dal cassamortaro più conosciuto in Valtellina. Va bene tutto. Ma se questa dunque è la nuova linea editoriale del neo direttore del TG1 (che ha conquistato l'ambita poltrona, lo sanno tutti, per meriti prettamente giornalistici e non certo perchè è un altro leccaculo del premier), sapete che vi dico, miei cari lettori? Che preferisco guardare la linea editoriale del TG4 di Emilio Fede. Almeno mi faccio delle belle e grasse risate!

domenica 21 giugno 2009

l'autogol dell'avvocato Niccolò "Mavalà" Ghedini


Ebbene sì, questa volta l'avvocato Mavalà Ghedini l'ha combinata grossa. Anzi, per meglio dire, è scivolato sulla classica buccia di banana evidentemente da lui sottovalutata. La famosa dichiarazione in cui classificava il suo illustre cliente come un utilizzatore finale nell'affare puttanesco al centro dell'inchiesta barese ha di fatto sancito la fine dell'idillio, personale e professionale, tra lui e il Pifferaio di Arcore. Visto da lontano, comunque, il cinquantenne avvocato padovano ha l'aria delicata, il viso sottile, lo sguardo mite: un tipo, oserei dire, alla Fassino (con tutto il rispetto per il politico torinese). Invece, visto da molto vicino, Niccolò ha i denti d'acciaio. Sposato con un figlio e con una gran carriera alle spalle, Ghedini sembrava inarrestabile fino almeno al giorno della dichiarazione oramai passata alla storia. Li aveva fatti fuori tutti i suoi simili, cioè gli altri avvocati preferiti dal Cavaliere: da Ennio Amodio a Gaetano Pecorella, da Piero Longo a Michele Saponara, da Cesare Previti a Elio Siggìa. Una vera e propria strage professionale compiuta da questo gelido alfiere del berlusconismo giudiziario, l'agit prop delle leggi ad personam secondo necessità, che è riuscito in poco tempo ad entrare nel cerchio riservato dei più alti papaveri della piramide berlusconiana e a diventare praticamente l'ombra del Cavaliere. Così nel pubblico come nel privato. Dai lodi legislativi al lodo Veronica. Il Number One, almeno fino a ieri. Sempre presente, diligente, sgobbone, preparato, articoli e comma sulla punta delle dita, sempre pronto alla bisogna. Inventivo, alacre, instancabile. Uno che lavora di codice e di toga praticamente a tempo pieno, con saltuari impegni parlamentari. Eletto con Forza Italia alla Camera nel 2001, nell'aprile del 2006 vince un seggio al Senato e nel 2008 è riconfermato a Montecitorio. Qualcuno ha notato che in Senato l'avvocato Ghedini si è visto pochissimo, ma non si può certo dire che nelle aule giudiziarie, a modo suo, non sia prodigato. Un avvocato unico e ad personam (e che persona). Il suo prodigarsi è notevole lì, dietro le scartoffie eccellenti dei casi giudiziari che tirano dentro il premier. Casi giudiziari che sono tanti, intricati, pubblici, privati e di vario genere. Un tour de force che è oramai decennale. Senza tregua: ci vuole fiato e un fisico bestiale. E lui, Niccolò, così esile all'apparenza, ce l'ha. Un duro, anche se non sembra. Una carogna, come una volta si è definito lui stesso. Uno scafato, uno di lunga lena, uno con un grosso background professionale alle spalle. Figlio di quell'avvocato Nini dal grande studio molto noto e molto affermato a Padova, con sede nei quartieri alti del generone cittadino: in quella via Altinate dove hanno dimora, in lussuosi palazzi d'epoca, industriali e legali di grido, gente piena di sghei, come i Bedeschi, i Fiacco, i Casellati, i Riccoboni. Qui, in questa via altisonante, nello studio paterno dalla targa prestigiosa e dai mobiloni scuri, il giovane Niccolò si fa le ossa appena conseguita la laurea in giurisprudenza. Con lui lavorano due formidabili sorelle, che non sono le Sorelle Materassi ma le Sorelle Ghedini: los Ghedinos, come qualcuno le chiama. Ippolita, detta Ippi, considerata la vera mente giuridica della casa che è anche un'ottima cavallerizza, e Nicoletta al cui attivo sono da segnalare patrocinii di rango quali quelli di Galan e dei fratelli Brass. Il vero fenomeno di casa è pero lui, Niccolò. E lo è diventato da quando la sua vita forense si è intrecciata con quella politica, passando da coordinatore regionale veneto di Forza Italia a legale principe del premier (peraltro impagabile elargitore di prebende avvocatesche, quasi un caso unico nell'italica storia), fino a diventare deputato e senatore (quasi una debita appendice voluta dal premier). Mai più senza Ghedini, amava dire il Pifferaio. Dal caso Mills all'inchiesta di Bari l'avvocato Mavalà Niccolò è sempre a guardia del suo mentore. La sua manina c'è sempre stata, in ogni norma salvaprocessi di ogni pacchetto sicurezza, come pure nel disegno di legge sulle intercettazioni o come nel Lodo Alfano (qualcuno insinua che sia lui, l'esile carognetta di Padova, il vero ministro della Giustizia). Il Cavaliere gli ha dato molto, forse troppo. Nell'ultimo anno l'avvocato ha dichiarato un reddito di un milione e duecentomila euro, ma bisogna pur dire che è anche ricco di suo (la famiglia ha una villa fantastica nel padovano e una tenuta di 256 ettari in Toscana, a Montalcino). Insomma, avrà tanto ma si dà anche tanto da fare. Nell'ultimo anno il suo lavoro è diventato frenetico, quasi senza respiro. In un pauroso intreccio di pubblico e privato da far rizzare i capelli. Villa Certosa, le feste con nani e ballerine e puttane, i voli di Stato, il Noemigate, le auto blu con i vetri oscurati che vanno e vengono da Palazzo Grazioli con dentro donnine dai facili costumi e dai lauti guadagni, e chi più ne ha più ne metta. Corri, Ghedini, corri: quel puttaniere di premier una ne pensa e cento ne fa, non lo tiene più nessuno. C'è da far cadere a terra anche un maratoneta pronto a tutto come l'esile Niccolò, uno comunque pronto a cavarsela con i suoi celebri "mavalà" e "mi faccia il piacere" di natura televisiva. E difatti, alla fine, è caduto. Su quella tremenda frase. E anche su quell'altra: "Il premier? Mai pagato donne. Potrebbe averne grandi quantitativi gratis, andiamo!". Narrano che il Pifferaio sia andato su tutte le furie: "Ma quello è diventato pazzo!". La casa del Pifferaio brucia. Corri, Ghedini, corri.

sabato 20 giugno 2009

l'Italia sta andando a puttane, altro che il papi


Questa volta l'argomento dell'odierno mio post è alquanto serio, altro che mignotte di lusso e vizi inconfessabili del Pifferaio. Qui la situazione sta andando veramente in malora, e lo dico dopo i dati forniti ieri dall'ISTAT (http://www.istat.it/salastampa/comunicati/in_calendario/forzelav/20090619_00/) sui 204 mila posti di lavoro letteralmente evaporati rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Ci stiamo preoccupando se il papi copula con o senza l'ausilio del Viagra e non ci piange il cuore se centinaia di migliaia di italiani stanno a casa rispetto allo scorso anno di questi tempi? Mavalà, come direbbe Ghedini, siamo seri. La prima fotografia dell’occupazione a crisi economica ormai deflagrata restituisce infatti l’istantanea di un apparato produttivo congelato, nel quale le macchine sono spente e la gran parte dei lavoratori stanno a braccia conserte, ma sono ancora lì, nelle aziende, grazie alle massicce dosi di cassa integrazione, allargata e finanziata dall’intervento governativo. Poi (a mano a mano che si ingrandisce l’immagine) ci si accorge dei particolari che segnano la differenza. Il primo già la dice lunga: il saldo di 204mila posti in meno è in realtà la differenza tra le 222mila assunzioni in più di stranieri e la perdita di ben 426mila occupati italiani. Gli immigrati certo sopperiscono al calo demografico italiano e quindi il trend del loro inserimento nel nostro mercato del lavoro sarà una costante per lungo tempo. Non possiamo nasconderci, però, che il dato del loro crescente impiego conferma come essi accettino una serie di lavori di minore qualificazione (e con salari inferiori) rifiutati da molti di noi in settori quali i servizi alla persona, le pulizie, i trasporti, l’edilizia. Non si tratta di scatenare una concorrenza al ribasso ma essere coscienti che in tempi difficili deve aumentare la disponibilità a cogliere le occasioni d’impiego. Tutte, giacché ogni lavoro ha una propria dignità intrinseca. Il secondo particolare a risaltare è che sono i giovani le vittime più numerose. Mentre le regole più stringenti sui pensionamenti hanno protetto gli ultracinquantenni, infatti, nella fascia di età fra i 15 e i 34 anni gli occupati sono calati di ben 408mila unità e il tasso di occupazione è drammaticamente sceso al di sotto della metà, al 47,9%. D’altro canto, mentre i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato tengono, anzi aumentano in cifra assoluta (+219mila), il conto della crisi è stato lasciato sul tavolo delle figure meno tutelate: contrattisti a termine (- 154mila), collaboratori (–107mila), artigiani, negozianti e partite Iva (–163mila). Riaprire ancora il dibattito sulle disuguaglianze del nostro welfare (e se fosse stato più opportuno creare subito un assegno unico di disoccupazione) appare oggi francamente un esercizio teorico inutile. Senza il finanziamento della cassa integrazione e con la copertura di un più consistente sussidio di disoccupazione, le imprese avrebbero licenziato un numero assai maggiore di dipendenti. Ci saremmo trovati a dover fronteggiare una massa di uomini e donne di mezza età, per la gran parte con figli a carico, senza più lavoro e con prospettive di reingresso assai ridotte. Non per questo possiamo assistere inerti all’ennesimo colpo che fiacca un’intera generazione di 20-30enni. È pur vero che le forme contrattuali flessibili saranno le prime ad essere riattivate non appena la ripresa farà capolino, ma fino ad allora andrebbe assicurato, coinvolgendo le Regioni, un contributo straordinario all’intera platea di coloro che oggi ne sono privi, come si è fatto recentemente per commercianti e artigiani colpiti dal terremoto. Gli ammortizzatori sociali sono solo un aspetto della strategia anti-crisi. Occorre soprattutto ricreare il lavoro. Essenziali saranno dunque le riforme strutturali più volte richiamate anche dagli industriali, ma è non meno necessario l’impegno degli stessi imprenditori a sostenere redditi e domanda interna attraverso adeguati livelli salariali. I margini ci sono se è vero, come calcolava l’altro ieri Mediobanca, che negli ultimi 10 anni gli stipendi sono aumentati meno della metà rispetto all’incremento della produttività. Il rinnovo dei contratti, con le nuove regole e le relative agevolazioni fiscali, sono una prima occasione da cogliere. Altro che le agevolazioni delle Patrizie di turno...

mi sa che il trans c'è davvero!


Nel post di ieri, tra il serio e il faceto, ipotizzavo anche la presenza di un trans nelle porno avventure del nostro presidente del Consiglio. In una intervista esclusiva alla Gazzetta del Mezzogiorno (http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/GdM_dallapuglia_NOTIZIA_01.php?IDCategoria=273&IDNotizia=245054) una certa (o certo, fate voi) Manila Gorio si dichiara trans e conferma la sua amicizia con Patrizia D'Addario, la disinvolta mignotta d'alto bordo (e dalle tariffe inavvicinabili) che oramai sembra confermato aver trascorso una notte nel lettone della camera da letto della residenza romana del Pifferaio di Arcore (anzi, c'è anche la conferma di una seconda amica della D'Addario, http://tv.repubblica.it/copertina/cosi-ci-reclutava-berlusconi/34132?video). Qui l'affare s'ingrossa, direbbe qualcuno. Ci sarebbe da ridere se non fosse che il nostro capo del governo sta dando di sè un'immagine non proprio educativa (e qui ritorna la famosa frase di Dario Franceschini a Ballarò) anzi, diciamolo pure, da puttaniere incallito e forse anche da culattone. Ora chi ci dice che il trans non abbia accompagnato di soppiatto la sua amica Patrizia, magari a Villa Certosa, e si sia infilato/a nel letto del Cavaliere per fargli provare quelle sensazioni tanto care a Lapo Elkann? Nessuno, almeno per ora. Ma io sono fiducioso...

venerdì 19 giugno 2009

ci manca solo il trans


A questo punto mi aspetto di tutto. Il girone dantesco in cui si è infilato inopinatamente il Pifferaio di Arcore sembra non finire mai. Dal filone tangentizio si è passati al filone delle veline e dei festini, con coca e sesso. Ci manca solo che venga collocato nel girone dei sodomiti, ovvero di quelli che hanno rapporti contro natura (stile Lapo, tanto per intenderci). Non per niente è stato lo stesso presidente del Consiglio a dire che è l’unica esperienza cui non è avvezzo. Magari verrà fuori una Patrizia qualsiasi, logicamente trans, che dirà (in un'intervista esclusiva a La Stampa di Torino, tanto per la par condicio editoriale...) di aver passato serate folli con il Cavaliere. E così il girone dantesco sarà completo. Ma a parte tutto la vicenda D'Addario sta assumendo contorni preoccupanti. Il nuovo filone giudiziario, partito da un'inchiesta sulle tangenti sanitarie pugliesi, sta facendo andare fuori dalla grazia di Dio il nostro presidente del Consiglio che oggi a Bruxelles è stato "intercettato" dalle telecamere di SKY mentre smoccolava al telefono con Niccolò "Mavalà" Ghedini. L'imprenditore pugliese (che tanto per gradire ha in Sardegna una villetta accanto alla magione del premier) al centro dell'inchiesta avrebbe parlato di belle ragazze ingaggiate per rallegrare le serate del Pifferaio di Arcore e del suo entourage nella residenza romana di Palazzo Grazioli. Le fanciulle sentite dai magistrati avrebbero confermato i fatti. In questo momento, certo, difendere il premier è impresa alquanto faticosa ed improba perfino per uno avvezzo al peggio sulla piazza, come appunto Ghedini. Tutto questo infuocato girone dantesco mi porta ad accarezzare l'idea che ci sia in atto un tentativo per togliere il Caimano di mezzo, per piazzare al suo posto un tecnico, come ai tempi di Ciampi e Dini, provenienti da Bankitalia. E questo diktat potrebbe essere partito come al solito dai poteri forti, multinazionali e grande finanza in primo luogo. Intanto, a fronte della nuova inchiesta barese che rischia di travolgerlo, il presidente del Consiglio ha tenuto una riunione con i suoi collaboratori più stretti. "Il Presidente - ha precisato l’avvocato Ghedini - è un uomo ricco di denari, di simpatia e di voglia di vivere. Certamente non ha bisogno che qualcuno gli porti le donne. Pensare che il Presidente abbia bisogno di pagare 2.000 euro una ragazza perchè vada con lui mi sembra un pò troppo. Ritengo che di donne potrebbe averne in grandi quantità, ma gratuitamente". Insomma, dall’affaire delle attricette raccomandate all’ex direttore di Rai fiction Agostino Saccà, alla vicenda Noemi, per finire al filone di ragazze-squillo sembrerebbe che il presidente del Consiglio si occupi solo dei suoi sollazzi e dei suoi cortigiani di corte. Invece, a sentire i suoi fidati collaboratori, pare che si applichi molto, anche se con poco costrutto. Ora si potrà dire di tutto contro il Cavaliere ma che non dimostri grande movimentismo questo è innegabile. Dorme poco e quando è in volo è sempre pronto a vagliare i tanti problemi sul tappeto magari non riuscendo a trovare la soluzione. Però rispetto ai suoi predecessori (da Ciampi a Dini, da Amato a D’Alema, per finire a Prodi) dimostra un maggiore attivismo, almeno a livello sessuale. Questo è innegabile. Certo, se poi uscisse pure l'intervista di Patrizia (il trans intendo) allora sì che ci sarebbe da divertirsi...

Minzolini & l'oscuramento pro Caimano


Ho aspettato qualche settimana dall'insediamento a direttore del TG1 dell'ex notista politico de La Stampa di Torino per esprimere un giudizio di merito, ma oggi sono costretto a scrivere quello che penso della nuova strategia informativa del berlusconiano di ferro (quasi un concorrente diretto di Bruno Vespa ed Emilio Fede) e retroscenista acquisito, vale a dire Augusto Minzolini. Vedendo quasi ininterrottamente, nelle ultime due settimane, il nuovo (si fa per dire) telegiornale della rete ammiraglia della RAI ho capito anche perchè molti italiani decidono di non pagare il canone. Ho compreso altresì le motivazioni che sono state alla base dell'interrogazione parlamentare di ieri del senatore dell'Italia dei Valori Francesco "Pancho" Pardi, preoccupato per l'oscuramento delle notizie a favore del Caimano messo in atto da Minzolini e dal suo staff, soprattutto in occasione dell'ultima puntata del pornoromanzo berlusconiano che ha visto per protagonista la signora D'Addario. "Evidentemente il direttore del TG1 si sta specializzando - afferma il senatore Pardi in una nota diffusa dall'agenzia ASCA - nell'esercizio della sua professione al servizio del monopolio della disinformazione. Dopo l'incredibile sequenza di notiziari del più seguito telegiornale italiano, finalizzata ad oscurare il più possibile le circostanze ed i fatti inerenti l'inchiesta dei giudici di Bari su un possibile coinvolgimento del presidente del Consiglio, ci proponiamo di monitorare minuto per minuto l'operato del TG1, prevedendo misure per salvaguardare il diritto dei cittadini ad essere informati da telegiornali liberi e non da portavoce servili del presidente del Consiglio''. Ecco, prendendo spunto da questa dichiarazione di Pardi mi piacerebbe, da semplice blogger ma anche da cittadino nel pieno dei propri diritti, rivolgermi al neo direttore Minzolini senza polemica affinché quello che penso non venga interpretato come una critica dovuta ad un pregiudizio. Il TG1 è il più importante e il più visto telegiornale del Paese. Ogni giorno più di 17 milioni di italiani si informano su cosa succede in Italia e nel mondo attraverso le dieci edizioni quotidiane di quel telegiornale. Una media di sei milioni di telespettatori (tanti quante sono le copie vendute da tutti i quotidiani nazionali e locali) aspetta per informarsi la storica edizione delle ore 20. Questo significa che per milioni di cittadini la conoscenza dei fatti dipende esclusivamente da quel telegiornale, che trae forza e prestigio anche da un ascolto così alto e fidelizzato nel tempo. Ora, ammesso e non concesso che Minzolini sia un giornalista intelligente, preparato e di lunga esperienza professionale, mi verrebbe voglia di invitarlo a rivedere le edizioni di questi ultimi giorni del telegiornale da lui diretto e a rispondere, con onestà e sincerità, a questa domanda: secondo lui i suoi telespettatori sulle rivelazioni pubblicate dal Corriere della Sera che stanno coinvolgendo l’immagine del presidente del Consiglio ci hanno capito qualcosa? Sono certo che anche lui risponderebbe di no. Semplicemente perché è sempre stata assente la notizia. Nel giorno del suo insediamento il neo direttore del TG1, con un editoriale fortemente critico nei confronti della carta stampata (dove aveva però lavorato da protagonista del retroscenismo sino al giorno prima), aveva rassicurato gli italiani annunciando che a differenza dei giornali ormai vittime dei gossip di giornata, il suo telegiornale si sarebbe occupato soltanto dei fatti. È per questo che i quotidiani perdono copie e vi sono in Italia così pochi lettori, aveva sostenuto con nettezza! Parole sante, certo, ma un pochino retoriche a mio giudizio: stia attento allora, perché il suo ragionamento può in futuro valere anche per il suo TG1. Se i fatti non vengono raccontati e si passa subito al chiacchiericcio su un fatto che il pubblico però non conosce, la tentazione di cambiare canale potrebbe essere fortissima, soprattutto se altri telegiornali (penso a quelli de La7 e del TG3), quotidiani, radio, siti internet e blog quei fatti, invece, li raccontano. Sono anche per deformazione professionale un consumatore attento di quotidiani e tg (sino a recuperare sul web la visione di quelli che mi perdo in diretta) e, pertanto, mi ritengo un privilegiato, ma se fossi semplicemente un telespettatore del TG1, come lo sono milioni di italiani, in questi giorni avrei soltanto saputo: 1) che a Bari è stata aperta un’inchiesta giudiziaria sulla sanità, 2) che a condurla è un sostituto procuratore, aderente però a Magistratura democratica, che è evidentemente un’associazione eversiva e pertanto va segnalata, 3) che l’inchiesta, e le notizie sull’inchiesta riportate dai giornali, sono state giudicate spazzatura dal presidente del Consiglio e dai suoi collaboratori politici, 4) che il responsabile, infine, del nuovo polverone, se non addirittura di un vero e proprio complotto, è l’onorevole Massimo D’Alema. Di quella tal Patrizia, invece, pagata duemila euro per una notte a Roma, delle altre ragazzotte interrogate su presunti festini nella Capitale o in Sardegna, dell’infelice frase dell’onorevole Niccolò Ghedini («In ogni caso il premier sarebbe solo l'utilizzatore finale e quindi mai penalmente punibile ») il povero telespettatore del TG1 nulla invece ha saputo. Per questi motivi a Minzolini non rivolgo un rilievo politico ma più semplicemente un rilievo professionale che sono convinto accetterà sportivamente, come sono convinto che, adesso che dirige il maggior telegiornale del servizio pubblico, lascerà alle sue spalle le simpatie del passato, quando ci raccontava dalle colonne del quotidiano torinese le mirabolanti gesta del «premier-comandante dei pompieri », del «premier-direttore dei lavori », «del premier-ingegnere», «del premier-psicologo», insomma del «premier-mille mestieri». Se poi, ma spero di no, proprio non ci riuscirà a nascondere professionalmente il suo smodato amore per il Pifferaio di Arcore, vorrà dire che lo metteremo nell'olimpo dei giornalisti tendenzialmente in odore di santità (come del resto lo è il premier) alla stregua dei veterani Fede, Giordano, Vespa e qualche volta Feltri. Una gran bella compagnia, vero Augusto? Post Scriptum: per chi si fosse persa la chicca dell'altra sera rimedio subito: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a48a9241-f059-45c6-b774-4ef5b438e97c.html?p=9

giovedì 18 giugno 2009

spendereste 2.000 euro per una notte con questa donna?


Questa è la semplice domanda che mi è venuta in mente stasera da porre a qualche mio lettore. Mi piacerebbe raccogliere qualche commento, a mò di piccolo sondaggio (niente a che vedere naturalmente con quelli del presidente del Consiglio) per capire se una donna come la D'Addario, ritratta in autoreggenti nell'unico calendario fatto cinque anni fa (quando dunque ne aveva 37), ha le carte in regola per solleticare il gusto erotico di qualche italiano con il portafoglio gonfio (e anche qualcos'altro immagino...) e non solo la vis erotica del nostro più che facoltoso premier. Vi invito apertamente, cari lettori, a dire la vostra.

malato (terminale) di gnocca


Oramai non so più come comportarmi. Se non scrivo delle pulsioni erotiche del Pifferaio mi sento inadeguato e fuori tema, se dedico la maggioranza dei miei post alle sue avventure (politiche o boccaccesche) mi sento quasi come un cane segugio che lo segue passo passo. Che ci posso fare! Anche oggi mi tocca la razione testosteronica del presidente del Consiglio brillantemente evocata su alcune (non tutte, per sua fortuna) pagine di siti e quotidiani nazionali. Certo, i miei lettori più attenti si saranno accorti che non ho aspettato l'avvento della signora D'Addario (in arte Brummel) per lanciare una sorta di allarme politico-sociale: il Pifferaio di Arcore è un uomo sotto ricatto. L'ho scritto in passato (sia qui che su l'Antipatico), quando D’Alema non se n’era ancora uscito con quell’ipotesi della scossa (sfortunatamente per il premier niente a che vedere con quella famosa televisiva di Giovanna Civitillo ai tempi de L'Eredità di Amadeus). E poi bastava sapere dei cinquemila scatti fatti dal fotografo d'assalto Zappeddu e depositati da qualche parte nel mondo. Ora arrivano anche il registratore nella borsetta e la foto col telefonino. Francamente farei volentieri a meno di occuparmi di tutto questo questo festival della gnocca, ma come si può? Il nostro caro Silvio è il classico caso da studiare con la massima attenzione. I sintomi ci sono tutti: è proprio malato di gnocca. Veronica Lario diceva che era malato, senza scendere nei particolari. Adesso tutta l'Italia (anche quella devotamente berlusconiana) ha capito a cosa si riferiva. E forse proprio per questo tipo di malattia terminale (della gnocca, s'intende) che il premier è (o è stato) sotto ricatto: perché è ricattabile e perché al suo costume di vita non si applica nessuna delle regole di sicurezza e prudenza che accompagnano la vita di qualsiasi uomo di Stato, anche di rango molto inferiore al suo. I suoi estimatori lo amano proprio per questa sua allegra generosità e dissipazione di sé. Forse non hanno mai valutato i rischi, e lui s’è ritenuto erroneamente al di sopra di essi. Data la grande quantità e varietà delle ragazze invitate alle feste private del Pifferaio, era inevitabile che prima o poi qualcuna avrebbe tirato fuori particolari e racconti: la più smaliziata di loro, la più furba, la più stupida o la più bugiarda, lo sapremo presto. Che questa storia della D'Addario esca poi sulle pagine del Corriere della Sera cambia naturalmente tutto il quadro, vista la grande prudenza con la quale il direttore Ferruccio De Bortoli aveva affrontato il caso Noemi. Cade lo schema del PdL e del beato Silvio, secondo i quali tutta la vicenda sarebbe un complotto ordito da la Repubblica e dal Partito Democratico con l’appoggio di Murdoch (e una volta Libero mise nel gruppo perfino Barack Obama). Qui i complottardi cominciano a essere un po’ troppi, né l’inchiesta barese sul giro di prostituzione l’hanno inventata i giornali. L’ipotesi del Pifferaio utilizzatore finale di prostitute (infelice espressione discolpatrice del suo avvocato Niccolò "Mavalà" Ghedini) appare un tantinello azzardata, ma come diceva il buon vecchio Divo Giulio a pensar male si fa peccato....Ci fosse veramente l’evidenza dei riscontri (della cui esistenza ieri i Palazzi erano alquanto convinti), non rimarrebbe che lasciar libero il signore di Arcore di occuparsi dell’unica cosa che evidentemente gli interessa davvero. La gnocca!

mercoledì 17 giugno 2009

caccia al lenone


Avete letto bene. Nel titolo del post non c'è una enne in più messa lì per errore di battitura. No, non si tratta di caccia grossa nel safari di qualche rinomato tour operator specializzato per gli amanti del genere, ma semplicemente di un altro tipo di caccia: quella alla ricerca del misterioso lenone che ha il vizietto di commissionare a svariati amici il reclutamento di signorine dalle belle forme e dalle disponibili prestazioni (anche a pagamento, si capisce) per allietare le serate noiose del lenone all'interno della sua residenza romana, ubicata nelle vicinanze di Piazza Venezia, o anche nella magione estiva in un'isola non distante dalla Corsica. Le voci di corridoio sussurrano che il lenone (per chi non avesse dimestichezza con il termine viene in soccorso il dizionario, http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/L/lenone.shtml) paga bene e offre anche un'interessante carriera politica (o anche televisiva, come forma di ripiego comunque ben retribuita) alle sue giovani e appariscenti prede, siano esse che provengano dalla Campania che dalla Puglia. Non si ammettono reclami nè rimostranze del giorno dopo, per la serie chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Non sono ammesse altresì piccate interviste sui maggiori quotidiani nazionali per lagnanze o insofferenti esternazioni impregnate di latenti rancori ancorchè legittimi e comprensibili. Il lenone non ama che si faccia troppa pubblicità (necessariamente negativa visti i risultati) alle sue non proprio castigate abitudini. Il suo lavoro e la sua posizione sociale non consentono spiacevoli scivolate sulle insidiose bucce di banana mediatiche volutamente lasciate cadere dalla stampa comunista a lui notoriamente ostile. Si prega cortesemente anche i signori blogger di non dare troppo risalto alle falsità e alle notizie spazzatura (a meno che non siano direttamente correlate con Napoli e Palermo) che hanno il solo obiettivo di destabilizzare e far cadere il lenone. Che comunque fa sapere di non essere per nulla intimorito e che continuerà a lavorare (il lenocinio è pur sempre un lavoro) per il bene del Paese.

forti e gentili sì, fessi no!


"Forti e gentili sì, fessi no!". E' stato questo l’efficace slogan con cui ieri circa un migliaio di aquilani arrivati a Roma hanno protestato contro le bugie del governo e del Pifferaio di Arcore in particolare. La frase racchiude bene uno stato d’animo che, come un’epidemia, sta rapidamente contagiando la popolazione colpita dal terremoto dello scorso sei aprile. Un misto di indomita voglia di lottare, riconoscenza per tutti quelli che in Abruzzo ci stanno mettendo l’anima e soprattutto tanta indignazione per un esecutivo che promette e promette ma i soldi alla fine se li tiene ben stretti. Si sono svegliati presto ieri i tanti aquilani desiderosi di far sentire al premier la loro voce non proprio flautata. Hanno preso il pullman, sono arrivati a piazza Venezia e da lì hanno fatto un pezzo di via del Corso per arrivare davanti a Montecitorio verso le due di pomeriggio, dove hanno dato vita a un coraggioso sit-in sfidando un impietoso solleone e una canicola a livelli agostani. Lì hanno potuto finalmente dare sfogo a tutta la frustrazione e la rabbia accumulate negli ultimi giorni. Hanno gridato al Parlamento la paura di non veder più rinascere la propria città, il timore di non uscire più dalle tende. Hanno chiesto il salvataggio del centro storico, la ricostruzione anche delle case dei non residenti. E hanno preteso trasparenza nella gestione dei soldi pubblici: ogni centesimo che passa in Abruzzo deve essere rendicontato. Tutto però con dignità e soprattutto con una legittima speranza. La speranza di poter ancora cambiare le carte in tavola, convincere la maggioranza di governo a modificare il decreto Abruzzo. Perché, come si legge in uno dei volantini distribuiti, «verba volant, sisma manent». Lì a pochi metri di distanza l’aula della Camera dei Deputati poteva tendere una mano a gente fiaccata da due mesi e più di difficoltà. Poteva. I parlamentari della maggioranza a metà pomeriggio bocciano con una raffica di no ogni emendamento migliorativo presentato dall’opposizione (tanto per fare una cosa nuova...). Quindi niente contributo statale al cento per cento per le seconde case e niente tassa di scopo per finanziare la ricostruzione. Il decreto, per ora, non cambia. E non cambierà più, se anche nei prossimi giorni non passerà neanche una delle 130 modifiche presentate dai gruppi dell’opposizione. Cosa peraltro fortemente voluta sia da PdL e Lega che dallo stesso governo, per ammissione del sottosegretario Menia. Un muro invalicabile, che getta subito nello sconforto i tanti sindaci e amministratori locali che hanno accompagnato la loro gente nella trasferta romana. Il presidente della provincia, Stefania Pezzopane, urla tutta la sua delusione: «E' un vero schiaffo al territorio, un'offesa insanabile per tutti gli aquilani. Una doccia fredda per chi ha manifestato». I manifestanti appunto. Non ci stanno a essere trattati così, a essere snobbati dopo mesi di sfilate mediatiche. S’infuriano. Prima di tornare ai pullman bloccano via del Corso, si dirigono verso palazzo Grazioli, la residenza romana del Pifferaio, al grido «gli sfollati vi aspettano al G8». La polizia li blocca e loro vanno a piazza Venezia, dove fanno un ultimo girotondo di protesta. Una protesta contro un premier che a L’Aquila promette e a Roma se ne frega. Per la prima volta il Caimano rischia che il sisma abruzzese, gestito bene nella fase emergenziale, si ritorca contro di lui. Del resto sa bene che è finita la luna di miele, che è giunta l’ora di mettere i soldi (e pure tanti) in Abruzzo. Ma i soldi non ci sono. Tremonti è già alle prese con un bel rompicapo: come recuperare 4 miliardi in meno di entrate. Una cifra importante, tanto che si riparla di scudo fiscale. Ma se anche questo condono non servirà a reperire i fondi per L’Aquila, ai terremotati cosa andrà? Come verranno coperte le promesse berlusconiane? Oggi il premier sarà nel capoluogo abruzzese, per la solita visitina mediatica e propagandistica. E oggi forse si capirà quanto c’è di vero nel sogno che il Pifferaio di Arcore ha finora saputo abilmente vendere agli sfollati della terra d'Abruzzo. Sempre che ci sia qualcosa di vero...

martedì 16 giugno 2009

il Pifferaio afghano


Non vorrei etichettare il presidente del Consiglio (avendolo già fatto in passato) ma ho la netta impressione che il suo animo guerrafondaio stia venendo alla luce. Non so se per fare bella figura al cospetto del presidente americano abbronzato o per ribadire la sua accresciuta popolarità internazionale (dice lui...), fatto sta che il nostro caro Pifferaio di Arcore ha voluto regalare in terra di Afghanistan un consistente aumento del contingente italiano impegnato non certo nella raccolta dei papaveri. L’Italia non è certo in guerra, ma sa­rebbe ipocrita negare che almeno alcune centinaia di nostri soldati in Af­ghanistan sono al fronte e coinvolti or­amai con una certa continuità in combat­timenti contro gli insorti. Il bollettino dei feriti italiani (non delle vittime, per for­tuna) porta saltuariamente sotto i riflettori della cronaca le vicende del Paese asiati­co in cui siamo impegnati, ma anche nei periodi nei quali l’informazione è ridotta la decisiva partita per il futuro di Kabul si continua a giocare sul piano militare e su quello politico. Mentre dalla regione occidentale dov’è dislocato il contingente italiano arrivava la notizia dei tre paracadutisti della Folgore colpiti dai ribelli, a Bruxelles il ministro della Difesa afghano sollecitava i membri europei della Nato a farsi maggiormente carico dello sforzo bellico contro le mili­zie dei fondamentalisti islamici che cerca­no di prendere il controllo del territorio e, come obiettivo ultimo, di rovesciare il go­verno filo-occidentale di Karzai. Tanto per non farci mancare nulla il nostro ben conosciuto pacifista e figlio dei fiori, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, ha ricordato che l’escalation di scon­tri non cesserà almeno fino ad agosto, quando si svolgeranno le elezioni presi­denziali. Novantamila soldati americani e di na­zioni alleate sono schierati al fianco dei 160mila militari locali; tuttavia, a quasi ot­to anni dall’invasione del Paese per rove­sciare il regime dei talebani, la stabilizza­zione, per non dire la pacificazione, sem­bra ancora lontanissima. Inutile recrimi­nare sul tempo perso, sulla sottovaluta­zione Usa di questo fronte a favore di quel­lo iracheno, sulla difficoltà quasi insor­montabile di far convivere etnie e gruppi da secoli in lotta, nonché di introdurre re­gole e stili di vita per noi consueti. Né so­no tutti uomini di Al-Qaeda coloro che distruggono le scuole femminili e contrastano l’influenza di Karzai sui loro territori, a van­taggio dei traffici di droga. Tuttavia, se pre­valessero, creerebbero comunque terre­no fertile per i santuari del terrorismo in­ternazionale. È questa la posta in gioco, in un domino la cui altra tessera chiave è costituita dal vicino Pakistan, la cui frontiera con l’Af­ghanistan risulta tanto porosa quanto un crocevia di radicalismi pronti a sostener­si vicendevolmente. L’Amministrazione Obama ha da tempo dichiarato che que­sta sfida si deve assolutamente vincere. Non è un caso che il nuovo comandante delle truppe statuni­tensi abbia ottenuto maggiori poteri de­cisionali sul campo per compiere un sal­to di qualità nelle operazioni. E non è un caso che il Pifferaio di Arcore, presumo anche per recuperare un pò di posizioni perse nella considerazione generale internazionale, abbia dato il suo benestare a rimpinguare il numero dei nostri soldati in terra afghana facendo contento anche il presidente Obama. Quella che resta, alla fine, è che la missione Nato voluta dal potere a stelle e strisce ha compiuto innegabili errori di approccio e sta pagando pure l’uccisione di civili che ha troppo spesso accompagnato i raid anti-talebani, crean­do diffidenza, se non aperta ostilità, ver­so la presenza di truppe straniere. Il so­stegno della popolazione si può conqui­stare con aiuti e opere pubbliche in un Paese povero e costantemente riportato al punto di partenza dello sviluppo dalle guerre che lo hanno devastato. Non sarà comunque un’impresa facile o rapida. Di fronte alle pressioni di Washington, l’I­talia e l'Europa chinano la testa e dicono sempre di sì nell’impegno su uno scacchiere insanguinato e terribilmente appesantito da relativi costi (an­che umani, va purtroppo aggiunto) che ne precludono un ritorno alla normalità acclarata la netta intenzione di seguire l’America nel tentativo (non necessaria­mente destinato al successo) di evitare che l’Afghanistan ripiombi nel caos. E tutto ciò comporta nuovi invii di for­ze e accresciuti rischi. D’altra parte, rima­nere in mezzo al guado, in uno stillicidio di attentati, in un alternarsi di avanzate e di ripiegamenti, non gioverà né agli abi­tanti, cui generosamente stiamo cercando di portare sostegno, né all’obiettivo geo­strategico più ampio. Di Afghanistan sentiremo ancora parlare. Sarebbe quindi meglio affrontare la que­stione in modo più esplicito e ponderato. La politica, in particolare, non ha soltan­to il compito di esprimere solidarietà alle Forze armate. Deve discutere e decidere. Certo, non è detto che lo debba sempre fare in prima persona il Pifferaio di Arcore. Ci sarà sicuramente qualcuno che potrebbe farlo meglio...

domenica 14 giugno 2009

la tenda di Gheddafi e quella dei terremotati


Lo so, è un paragone che non regge: mettere a confronto o, peggio ancora, dover scegliere tra una mega tenda come quella che ha ospitato il dittatore libico a Roma, a Villa Pamphili, e quella molto meno ospitale di un terremotato d'Abruzzo è quasi imbarazzante. Figuriamoci per un presidente del Consiglio. E voi volete che quest'ultimo non sentisse il bisogno l'altro ieri sera, verso le ore 23, di andare a fare visita al suo amico Colonnello per rassicurarsi sulle sue condizioni fisiche (la digestione delle tagliatelle ingurgitate dal Bolognese a piazza del Popolo avevano per caso dato dei problemi?) e per verificare se la preghiera del venerdì, così sacra per gli islamici, era stata snocciolata tutta? Certo che sì! E il Pifferaio di Arcore ha potuto tirare un sospiro di sollievo assicurandosi di tutto ciò. E il rais libico è potuto tranquillamente ripartire il giorno dopo da Ciampino alla volta di Tripoli, con la panza piena e con la scorta delle sue amazzoni che avevano ancora attaccato sul di dietro della loro divisa lo sguardo testosteronico del Pifferaio infoiato, invidioso di doversi sentire spalleggiato da omoni della security piuttosto che da attraenti verginelle devote e attraenti. E intanto nelle tende dei terremotati la vita (se così la si può chiamare) continua. Scemata l'attenzione e digerite le visite del premier, le popolazioni colpite dall'emergenza fanno i conti con i silenzi e le incongruenze del Decreto Abruzzo, che la prossima settimana approda alla Camera per il via libera definitivo. Millecinquecento alloggi pronti e disponibili a L'Aquila e provincia. Offerti a prezzo politico per accogliere i terremotati. Erano i giorni immediatamente successivi alla grande scossa del 6 aprile e l'associazione dei costruttori edili abruzzese metteva sul piatto dell'emergenza la sua disponibilità: quelle case appena terminate potevano servire a ridurre il danno, offrendo un tetto, almeno provvisorio, ai 60 mila sfollati. Forse l'ANCE s'era fatto prendere la mano dall'afflato solidale che attraversava in quei giorni l'Italia (con donazioni, concerti, offerte e quant'altro). O forse aveva fatto male i conti. Fatto sta che quei 1.500 alloggi, che teoricamente avrebbero potuto ospitare dalle 3.000 alle 5.000 persone, sono progressivamente diminuiti di numero giorno dopo giorno, fino a sparire nel nulla. Contemporanemente, mentre si andava definendo la mappa dei danni e delle inagibilità (circa il 40% delle abitazioni private), lievitava il prezzo per gli affitti delle case rimaste intatte. Scemata l'attenzione, digerita l'emergenza, diradatesi le visite del presidente del Consiglio a L'Aquila, il campo è stato occupato interamente dalle tendopoli della protezione civile, dall'esodo verso gli alberghi della costa adriatica o, nel migliore dei casi, dal rifugiarsi presso qualche parente con una stanza in più. E il terremoto è rientrato nella normalità di un Paese in cui l'edilizia è uno dei più grandi business. Anche se a volte costruito su fragili fondamenta, come l'Abruzzo dimostra e l'ANCE ben sa, in attesa che la magistratura scopra i responsabili di ciò che è successo alla Casa degli studenti e dintorni. Ma è una ben strana normalità. Lo si nota nel deserto e immobile centro storico dell'Aquila, nella vita difficile delle tende e degli alberghi, nella frantumazione del tessuto economico e nel procedere a singhiozzo della pubblica amministrazione. Ma lo si legge anche nei passaggi istituzionali, a partire dal cosiddetto Decreto Abruzzo che, dopo il varo del Senato, la prossima settimana passerà alla Camera per il via libera definitivo. Anomali e inediti sono i criteri di gestione, gli obiettivi e le procedure seguite dal Pifferaio e dalle sue truppe che hanno declinato in chiave emergenziale le tre questioni di fondo: il quando (i tempi della ricostruzione), il quanto (i fondi messi a disposizione), il come (la filosofia e le modalità del lungo viaggio verso la normalità). Sapendo che un terremoto, come un crack economico, ridefinisce tutto e mai si torna allo stato quo ante. Nella migliore delle ipotesi potrebbe andare a finire come è successo per il dopo-terremoto in Umbria (un sogno per molti abruzzesi). Nella peggiore come l'Irpinia o il Belice (un incubo per tutti). L'alternativa ci sarebbe: trasferire tutti nella megatenda del Colonnello...

giovedì 11 giugno 2009

quanto ci manca Enrico!


Non potevo concludere la mia giornata senza l'omaggio personale alla memoria di Enrico Berlinguer, rievocando quello che accadde 25 anni fa a Padova. Con la morte nel cuore e con la nostalgia del ricordo rivivo quel tragico momento (http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=131). Sono immagini che non si dimenticano, sono fotogrammi scolpiti. La camicia bianca, il nodo della cravatta che si allenta, il ciuffo fuori posto sulla fronte madida. E quella voce che scandisce le parole con maggior puntiglio via via che i colpi del male incalzano, sempre più devastanti. A un certo punto qualcosa accade, ma non è subito evidente. Il comizio prosegue. Berlinguer resiste caparbiamente, lo sguardo concentrato nello sforzo di non cedere. E' una resistenza estrema, che pare un simbolo di lotta non solo individuale: la cifra di uno stile e di un costume, di un'esperienza collettiva. Quelle immagini strazianti sono anche l'icona di un'epoca. Venticinque anni e sembrano anni luce. Per certi versi sono anni luce. Il motivo? In genere si risponde sul terreno morale. Berlinguer incarna (incarnava già ai suoi tempi) un rigore incomparabile del comportamento e del tratto. La sua riservatezza, la sua sobrietà e la sua austerità (parola chiave del suo lessico politico) si imponevano a chiunque lo ascoltasse. Erano ragioni non secondarie dell'affetto che lo circondava e del rispetto che imponeva all'avversario. Anche per questa assoluta rettitudine fu amato dai comunisti italiani quanto era stato amato e ammirato, prima di lui, solo Palmiro Togliatti. Questo straordinario affetto si sciolse nella commozione di quel milione di donne e uomini che il giorno dei suoi funerali gremirono piazza San Giovanni per dirgli addio in un mare di bandiere rosse. Ed è naturale che oggi il ricordo spinga a tali considerazioni (e per ricordarlo meglio ripropongo questa puntata speciale de La Storia siamo noi, http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=975) oggi che in questo Paese la politica è nel fango, mestiere e affare di una pretesa classe dirigente che ostenta, fiera, i propri vizi e la propria immoralità (e non mi riferisco solo al Pifferaio di Arcore). Ma la distanza stellare da quel giugno del 1984 non chiama in causa solo comparazioni di ordine morale. O meglio. In quella diversità di costumi e princìpi etici vivevano anche ragioni politiche. E per ragioni squisitamente politiche questo quarto di secolo pesa come un macigno e narra di un passaggio d'epoca che va compreso in tutta la sua portata. Non intendo certo fare una sorta di apologìa di Enrico, ci mancherebbe. La segreteria di Enrico Berlinguer ha avuto luci e ombre. Anche di molte ombre, particolarmente fitte (a mio modesto avviso) negli anni del compromesso storico. Quello che avrebbe dovuto essere il dialogo tra il popolo comunista e le masse cattoliche (secondo una lettura della composizione sociale del Paese che fu già di Togliatti) si ridusse di fatto a una defatigante trattativa tra gli stati maggiori di PCI e DC. E non ne venne fuori l'impulso alle riforme né il consolidamento della democrazia partecipata che Berlinguer si attendeva (di questo nelle intenzioni si trattava, non già di un progetto organicistico incentrato sul protagonismo dei partiti). Fu, al contrario, una gabbia dentro cui il PCI si rinchiuse, consegnandosi all'egemonìa moderata del partito di Aldo Moro: sino allo scontro frontale con il movimento del 1977, preludio alla svolta dell'Eur e alla deriva compatibilista della CGIL; sino al governo delle astensioni e alla solidarietà nazionale. Non solo. Quegli anni Settanta (mentre l'Italia cambia, le lotte studentesche e operaie crescono impetuosamente, mentre la partecipazione diviene pratica diffusa, forma reale della democrazia di massa) vedono il PCI avvitarsi in una crisi profonda, figlia della sua stessa forza. Elefantiasi organizzativa, primato dell'amministrare sul trasformare, istituzionalismo. Cambia l'antropologia dei gruppi dirigenti, man mano che le generazioni forgiate dalla lotta clandestina e dalla Resistenza passano la mano ai quadri cresciuti nell'Italia già restituita alla democrazia. Berlinguer se ne avvede? Se ne preoccupa? Di certo non trova contromisure adeguate. L'impressione è che, pur di tenere insieme il partito, assecondi, medi, transiga. Ma questa storia cambia radicalmente nell'autunno del 1980. Lo sciopero dei 35 giorni alla Fiat è per Berlinguer un trauma e un'esperienza rivelatrice. Quella lotta operaia contro un padrone bulimico e arrogante che pretende di scaricare sui lavoratori (licenziandone in tronco 24mila) i costi di una crisi industriale e di mercato, causata dalla sua incapacità, quella lotta è agli occhi del segretario comunista un segno limpido della necessità di ricollocare il PCI nel cuore del conflitto. A sua volta, la risposta di Agnelli e Romiti (la cosiddetta marcia dei 40mila, organizzata per mettere in scena la colpa operaia e piegare la resistenza della FIOM) gli appare un campanello d'allarme sullo stato del Paese, sulla nuova costituzione materiale che prende piede in sintonia con la rivoluzione neoliberista di Reagan e della Thatcher. La svolta che in quelle settimane Berlinguer compie e imprime al PCI (anche contro vasti settori dell'organizzazione e del sindacato) è una cesura. Seguono anni in controtendenza rispetto al decennio precedente. Il partito comunista dell'ultima fase recupera esperienze di lotta abbandonate da tempo. Ricostruisce legami nella pratica del conflitto di classe. Restituisce soggettività e prospettive al movimento dei lavoratori. La reazione di Berlinguer contro il decreto sulla scala mobile è al riguardo emblematica. L'abolizione della scala mobile gli appare la sanzione più esplicita dello strapotere padronale e della subalternità di gran parte del ceto politico. Di più. Come ripete a Padova in quel fatidico 7 giugno 1984, durante il comizio a piazza dei Frutti, l'attacco al salario è parte integrante del disegno eversivo della P2. Gli schieramenti sono netti, non c'è spazio per compromessi. Il segretario del PCI è alla testa di un conflitto aspro, che attraversa anche il partito e che prelude a una ripresa in grande stile delle lotte operaie degli anni Sessanta. Berlinguer muore, se si può dire così, nel momento più delicato. Ha aperto una nuova fase nella storia del Partito Comunista ma non ha fatto in tempo a consolidarne il nuovo corso, e non lascia eredi. Quei suoi ultimi anni rimangono una parentesi incompiuta, e la seconda metà degli anni Ottanta segna il nuovo riflusso del partito della falce e martello. Un partito avviato, inesorabilmente, verso la regressione e la dissoluzione. Il resto è storia di poi, cioè nostra. Una storia che ha segnato in profondità le nostre vite. Venticinque anni fa si chiude un'epoca e ne comincia un'altra, sulla quale non occorre (almeno in questo post) spendere molte parole. Comincia a morire un grande partito comunista. Comincia una storia di regressione trasformistica di un vasto ceto politico e intellettuale. Comincia lo sfondamento della destra che di lì a poco (esattamente nei primi anni Novanta) troverà il proprio riferimento in un padrone allevato, guarda caso, alla corte di Craxi e di Gelli. Personalmente debbo confessare che le ultime parole di Enrico Berlinguer pronunciate a Padova, poco prima dell'ictus che lo colpì a tradimento, sono molto più che un semplice ricordo: «Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini». In questo momento (storico, sociale, politico) della mia personalissima battaglia contro il Pifferaio di Arcore (uno che non è nemmeno degno di pronunciare il nome di Enrico al contrario del presidente Fini), il discorso di Enrico Berlinguer tenuto a Padova e la famosa intervista a Scalfari sulla questione morale rappresentano indissolubilmente una sorta di testamento politico, l'indicazione preziosa della strada da percorrere. Per me e per molti altri (spero) che la pensano come me.

martedì 9 giugno 2009

una bella e sana autocritica


Ho volutamente atteso qualche ora prima di dire la mia su questo insuccesso elettorale. La delusione era tanta, la voglia di scrivere sciocchezze forse ancor di più. Ma, serenamente, pacatamente (oddio, mi sembra di parlare come qualcuno di mia conoscenza...) e intelligentemente, almeno spero, ho dato tempo al tempo ed eccomi qui a scrivere questo post inevitabilmente infarcito di sana autocritica. Senza giri di parole, bisognerà pur dire che le elezioni europee sono andate male. E molto, per quanto alcune carte si siano mischiate. Ma, in generale, è lo schieramento conservatore a vincere, incamerando voti e aumentando i propri seggi nel Parlamento europeo. Non solo, nella destra si affermano le componenti più estreme e apertamente razziste. Avviene in Inghilterra come in Ungheria, in Austria come in Italia. Il Parlamento europeo muta, dunque, fisionomia politica. Cresce la componente euroscettica. Quella sua parte, per capirci, che è tale non perché contesta l'inclinazione monetarista e liberista dell'Unione, ma perché rincula dentro logiche di gretto nazionalismo, autistico e antisolidale. La prima e fondamentale considerazione che ne ricavo è dunque che la crisi economica e finanziaria (che ha travolto le illusioni liberiste, ridicolizzato gli idolatri del mercato, generato disoccupazione ed impoverimento sociale) non ha suscitato, nelle larghe masse, una reazione di rigetto del sistema vigente. O meglio, la possibile reazione, in assenza di risposte alternative e convincenti a sinistra, si è espressa come paura ed è divenuta il combustibile di cui si sono nutrite le classi dominanti, più mobili e duttili nel rappezzare il tessuto lacerato e nel riproporsi come le più adatte a governare la crisi. Manipolando, nel contempo, un'opinione pubblica spaventata e disorientata. Quanto all'Italia, posso affermare (e non mi sembra di essere il solo oggi) che Silvio Berlusconi non ha sfondato. Anzi, che la sua forza e le sue velleità totalitarie subiscono una seria battuta d'arresto. E che lo stesso ridimensionamento del Partito Democratico sembra far tramontare l'idea di una metamorfosi non solo bipolare ma, addirittura, bipartitica del quadro politico italiano. Si può anche ragionevolmente ritenere che il referendum, attraverso il quale i due partiti più grandi hanno tentato una semplificazione autoritaria ed uno snaturamento della democrazia costituzionale, è destinato ad eclissarsi entro un paio di settimane. E tuttavia, non c'è chi non veda come questo esito sia il risultato, simultaneo, dell'astensionismo da un lato, e, dall'altro, dello strepitoso successo, in latitudine e in longitudine, della Lega Nord e dell'Italia dei Valori che raddoppia in un solo anno i suoi consensi e incassa molti voti da chi ha creduto di vedere in essa, più che in qualsiasi altra formazione politica, l'antidoto a Berlusconi e al suo sistema di potere. La sinistra, in tutte le sue articolazioni, resta sostanzialmente fuori dal gioco. E non solo perché non raggiungendo la soglia critica del 4% non avrà accesso al Parlamento europeo. Ma perché si conferma, malgrado qualche segnale di ripresa, una sua sostanziale marginalità. Della quale è assolutamente necessario prendere atto per riaprire una discussione che non si riduca nel puro e semplice scambio ritorsivo di accuse fra le parti. Ho le mie idee, al riguardo, e non mi sfugge certo la totale sconsideratezza dell'atto scissionistico che ha generato un micidiale contraccolpo, non soltanto nelle parti in contesa, uscite entrambe indebolite e impoverite da quello scontro fratricida. E, soprattutto, in quella vasta porzione dell'elettorato di sinistra che, semplicemente, ha abbandonato entrambi i contendenti. Neppure mi sfuggono gli elementi di sostanza, vale a dire i nodi politici legati ad uno scontro che solo un'estrema semplificazione può attribuire alle biografie personali. Il fatto è che non si può continuare così, perché l'olio che alimenta la fiammella rischia di finire rapidamente. Cominciamo allora ad afferrare per le corna il toro, ovvero i problemi. A partire dalla questione dell'unità a sinistra. Ho letto, nei giorni immediatamente precedenti le elezioni, su un giornale di nuovo conio, che bisognerebbe dedicarsi (a consultazione conclusa) alla ricostruzione della sinistra: mai più divisi, si leggeva. Ma poi, proseguendo nella lettura, si scopriva che alla nuova sinistra unitaria immaginata ed evocata era già imposto un preciso confine, un perimetro politicamente ben delineato: una parte rilevante del PD, Sinistra e libertà e i Radicali. Punto e basta. Gli altri, semplicemente, non entravano nel conto, non esistevano. Che questo atteggiamento non faccia che alimentare speculari idiosincrasie è del tutto evidente. Solo che mentre i capponi di Renzo si strappano le penne, la pentola nella quale rischia di esaurirsi la loro singolare tenzone è già sul fuoco. Dopodiché, di tanta centrifuga, rischia di non rimanere altro che il riflusso (più o meno dorato) di qualche notabile, in qualche generoso ospizio politico. Forse, con maggiore umiltà e riguadagnando un reciproco rispetto, occorrerebbe che tutti si interrogassero sulle ragioni di uno scollamento così persistente fra sinistra e società. Una sinistra di opinione, eclettica, chiacchierona e autoreferenziale, congenitamente malata di istituzionalismo, del tutto avulsa dal sociale, incapace di riselezionare il suo gruppo dirigente nelle lotte e nel conflitto, non va da nessuna parte. O meglio, va a destra. E può farlo persino mantenendo con tutta tranquillità un linguaggio aggressivo. Ma, come diceva Marx, attraverso le frasi si possono cambiare le frasi del mondo, ma non il mondo reale. Che non ti ascolta, se gli operai del Nord votano più che mai la Lega; se chi si batte per la laicità trova più convincente il messaggio dei Radicali; se le giovani generazioni si dividono fra quanti esauriscono il loro protagonismo nel carsico mondo dei movimenti e quanti (fuori da qualsiasi impegno politico e civile) consumano la loro esistenza e il loro sistema di relazioni in una dimensione esclusivamente privata. Ho scritto e detto in passato che la politica o è fatta per immersione nel sociale o non è. Eppure, benché nessuno contraddica apertamente questa tesi, il lavoro di inchiesta, la capacità di interrogare la realtà per trarne indicazioni, strategie utili a produrre azione diretta, langue. Peccato, perché dove invece lo si fa con continuità, i risultati si vedono. Attenzione, non si tratta di resettare tutto. Personalmente, diffido di tutti coloro che con stucchevole spocchia (altra virtù diffusa a sinistra) spiegano che bisogna azzerare tutto. Sono i costruttori di soffitte che, non volendo affrontare soverchie difficoltà, inventano ad ogni pié sospinto nuovi luoghi e nuovi contenitori. E' una storia che si ripete da vent'anni e non ha detto nulla di buono. Le scorciatoie, tutte incrostate di politicismo, portano inevitabilmente al riformismo incolore o all'implosione settaria. Luciana Castellina (che personalmente reputo una donna estremamente intelligente) ha detto che all'origine delle disgrazie della politica italiana c'è la sciagurata decisione di sciogliere il vecchio PCI. Non ci sarà tutto, ma c'è molta verità in questa affermazione. Che se non vuole rimanere un impotente grido nostalgico deve indurci a qualche riflessione non superficiale, sul passato e sul presente. Sempre che non si ritenga che ciò che è stato dovesse necessariamente accadere. La discussione è aperta. Anzi, deve riaprirsi. Questo, perlomeno, è il mio auspicio.