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sabato 28 febbraio 2009

Brindani, Mentana & i non "organici" del presidente


Il primo ad evidenziare (maliziosamente) il termine "organico", con riferimenti vagamente sessuali, è stato il pluripresenzialista (nonchè bidirettore di Sorrisi e Canzoni e di Chi), Alfonso Signorini. Si parlava di organicità o meno in seno ad un'azienda (in particolar modo a Mediaset) e la polemica era scivolata sull'epurazione bulgara dell'ex direttore di Gente e attuale vicedirettore di Oggi, l'ottimo Umberto Brindani. Guarda caso chi sostuì l'epurato alla guida del più diffuso settimanale di casa Mondadori fu proprio l'immarcescibile Alfonso che ne era il suo vice a Chi prima di prenderne il posto sulla plancia di comando. In questi ultimi giorni, come se non bastasse, è scoppiata anche la grana riguardante il licenziamento in tronco di Enrico Mentana che, da quando non è più direttore editoriale di Canale 5, non aveva più messo piede in tv. Ha fatto due eccezioni: lunedì scorso da Gad Lerner (http://www.la7.it/approfondimento/dettaglio.asp?prop=infedele) e giovedì da Michele Santoro (http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-b8df1c31-3eae-4adf-af93-07ed1123561b.html). A parere di chi scrive la parola organico ha diversi significati, sia in giornalismo che in politica. Ma è un dato di fatto che in questi giorni se ne sta abusando. Ha aperto la strada Brindani etichettando come organico Signorini. Questi ha fatto finta di non capire e ha buttato la palla in corner cercando di deviare il colpo con riferimenti più o meno apprezzabili a icone maschili del genere porno tipo Rocco Siffredi. Ma con un minimo di intelligenza si capiva benissimo a che cosa Brindani si riferisse con quel termine: organico a un progetto, organico a un modo di vedere dei vertici di Mediaset e quindi di Mondadori. Brindani si era dimostrato non organico, ed è stato fatto fuori dalla sera alla mattina. Adesso ci sono gli avvocati a cercare di dirimere la questione sul piano legale (a proposito della liceità del suo licenziamento). Poi la parola organico l’ha ripresa anche Walter Veltroni in riferimento a Enrico Mentana e, più in generale, a proposito della linea di azione del Pifferaio di Arcore nei confronti di chi non si adegua alle sue direttive politiche. E’ vero, anche Mentana evidentemente non era più organico a Mediaset (e il riccioluto giornalista non si è astenuto dal ribadirlo). Come è accaduto per Brindani. E lui è stato liquidato non dalla sera alla mattina, ma nella stessa serata in cui ha annunciato le sue dimissioni per il mancato speciale sul la morte di Eluana Englaro. Due giornalisti, uno direttore della corazzata periodici Mondadori, l’altro direttore editoriale dei programmi giornalistici di Mediaset, messi in disparte non appena non sono più risultati organici a qualcuno. Brindani ancor oggi con un certo alone di mistero, Mentana un pò più chiaramente. E’ un segnale che tutti i giornalisti non dovranno troppo sottovalutare, perchè è indicativo di un certo modo di fare editoria, sia pure giustificando il tutto dietro la trincea del commerciale. Tv commerciale, ergo editoria commerciale organica alla tv commerciale. E l’informazione? Anche quella deve essere evidentemente organica, cominciando dal disegno di legge Alfano sulle intercettazioni, per finire chissà dove. In questo momento, soprattutto in questo momento, è auspicabile un livello di massima attenzione nel mondo dell'informazione libera, pluralista e democratica. Nel loro piccolo anche i bloggers (ed io con loro) dovranno attenzionare di più quello che li circonda, in particolar modo quello che il Palazzo propina a piene mani attraverso i vari portatori sani della disinformazione (Fede, Giordano, Arditti e en passant Feltri). Facciamo dunque attenzione, cari lettori, prima che sia davvero troppo tardi.

lettera di una precaria


Dedicare un ulteriore post all'argomento principe delle discussioni attuali degli italiani (la precarietà, il senso di povertà, la crisi economica globale) mi sembra un atto dovuto e rispettoso nei confronti dell'intelligenza e della sensibilità che presumo abbiano tutti i lettori di questo blog. Ma questo post lo scrive integralmente una persona che non sono io, bensì una nuova precaria dello sterminato universo dei senza lavoro o dei candidati alla disoccupazione (il risultato non cambia). Lei si chiama Amalia Perfetti e questa è la sua storia raccontata in presa diretta. Dal prossimo primo settembre sarò, con buone probabilità, non più insegnante precaria, ma semplicemente disoccupata! A giorni compio 46 anni e dopo 10 anni di precariato nell'Università e 11 nella scuola, a mia figlia dovrò dire che forse dovrò rinunciare a parecchie cose, visto che in casa entrerà uno stipendio in meno. Sarò infatti una delle vittime del taglio drastico delle cattedre d'Italiano, Storia e Geografia alle medie. Molto drastico, perché si tratta, grazie ai provvedimenti Gelmini/Tremonti, del 25% delle cattedre, che sugli alunni avranno l'effetto di 2 ore in meno d'Italiano la settimana (le ore scenderanno a 5, lo stesso numero propongono per Inglese). Quest'anno non sono diventata di ruolo per tre posizioni in graduatoria e questo perché mentre per tutti gli altri insegnamenti sono state fatte immissioni in ruolo pari al 48% dei posti vacanti, per la mia classe di concorso si sono limitati al 24% in previsione dei tagli. E tutto questo nel silenzio più assoluto. In tutto siamo stati 2000 a condividere la stessa sorte. 2000 persone destinate per quest'anno ancora alla precarietà e per il prossimo, insieme purtroppo a tante altre (svariate migliaia), alla non occupazione. Ho passato un'estate nello sconforto, con mia figlia che vedendomi piangere (sono una donna risoluta e pratica, ma sono stata presa da una disperazione che mi ha disarmato) mi ripeteva «ma dai mamma, vedrai che le cose andranno meglio». In una di queste giornate nere mi sono decisa a presentare la domanda come collaboratrice scolastica, bidella per capirci. E due settimane fa sono uscite le graduatorie definitive e ho ricevuto moltissime chiamate per incarichi annuali fino al 30 giugno. Ho risposto che per quest'anno ancora facevo la prof, ma di tenermi in considerazione per il prossimo anno. Da una scuola mi hanno risposto «Mi scusi, ma non pensa che una laureata dovrebbe avere altre aspirazioni?», da un'altra «Poverina ha ragione, abbiamo appena verificato che qui l'anno prossimo si perderanno 4 posti della sua classe di concorso». Una possibilità di occupazione? No, neanche su questo posso farmi illusioni, la iattura dei tagli sarà terrificante anche per il personale Ata e quindi, neanche la bidella mi faranno fare.Sono stanca, molto stanca... Nel frattempo mia figlia cresce e da grande vuole fare la professoressa come me, ma ormai aggiunge «se me la faranno fare». L'anno prossimo inizierà il liceo. Verrebbe da chiedere se fosse possibile farle ereditare la mia posizione in graduatoria, almeno il mio infinito precariato avrebbe un senso. Tutte queste vicende mi hanno anche allontanato dal sindacato, il "Mai più precari" è stato uno slogan che non ha trovato seguito. Siamo utili come bandiera, ma difficili da gestire. Quest'estate poi non ho trovato nemmeno una riga sulla sorte di 2000 insegnanti di Italiano, ovviamente la cosa avrebbe meritato una qualche iniziativa di protesta, ma mi sarei accontentata anche di un qualche comunicato. Quello che però mi ha più ferito è stato il fatto che le persone con cui in sindacato collaboravo più direttamente, non si sono degnate di farmi una telefonata, almeno di solidarietà... E questo dopo tanto lavoro fatto con passione e sacrificio, iniziative, assemblee, consulenza. Pazienza, la mia tessera è lì, nel borsellino. Ogni tanto ho voglia di ritirare la delega e anche qui mia figlia ha un ruolo fondamentale. È fiera, nonostante abbia solo 13 anni, di far parte di una famiglia di sinistra ed è affezionata alla Cgil, che con passione vede come una condivisione di ideali alla quale non si può rinunciare. So di essere stata prolissa, ma so anche di essermi limitata all'essenziale, o per meglio dire al personale. Precariato a parte, cosa vogliono fare della scuola italiana? Ci lamentiamo delle carenze in italiano dei nostri giovani e cosa facciamo per risolvere il problema, diminuiamo le ore dedicate alla nostra lingua? E ancora, chi farà l'ora alternativa all'insegnamento della religione cattolica? Questa era affidata agli insegnanti di italiano nelle loro ore a disposizione, sacrificate sull'altare dei tagli. Metteremo i ragazzi che non si avvalgono dell'insegnamento della religione cattolica in attesa sui corridoi? Sembra che la cosa non riguardi nessuno, nemmeno la Cgil, che su questo argomento potrebbe costruire una bella battaglia. Una di quelle che però, a quanto pare, nessuno vuole più combattere!Amalia Perfetti

mercoledì 25 febbraio 2009

Luca, i gay & i genitori spiazzati


Come promesso a Rossaura eccomi a scrivere un post su una tematica di cui la mia più illustre e prolifica commentatrice ha candidamente ammesso di non capire una "emerita cippa". L'argomento è quello che ha tenuto banco prima, durante e dopo il 59° Festival della canzone italiana di Sanremo. È meglio dire "Luca era gay" o, più onestamente, che ha amato un uomo? Se diciamo che era gay intendiamo dire che non lo è più. L'orientamento sessuale non si può collocare sbrigativamente nel passato. Chi lo fa vuole deformare la realtà per suggerire che l'omosessualità è una deviazione dalla retta via, da accantonare il prima possibile. L'omosessualità è un modo di amare legato all'identità di un individuo che si sente completato da una persona dello stesso sesso e che con lei vuole costruire la propria vita. Al pari dell'eterosessualità non si smette come un vestito logoro, né si cura come una malattia. Poiché dai microfoni sanremesi è stata diffusa, con la canzone di Povia, una versione deformata della realtà (e migliaia di famiglie l'hanno ascoltata), occorre descrivere cosa succede davvero quando Luca dice "sono gay". Ebbene, niente è più come prima. Quando in una famiglia diventa palese che un figlio o una figlia sono omosessuali, le relazioni cambiano. I genitori sono chiamati a ridefinirsi, a riflettere su ciò che hanno dato per scontato; i figli a cercare la forza per pensarsi fuori dalla cornice delle aspettative che fino a quel momento padri e madri hanno nutrito. È un momento di verità, ora traumatico ora capace di innescare svelamenti a catena. Come se l'autenticità, fino a quel momento trattenuta dalla diga del non detto, fluisse con meno intoppi e liberasse i rapporti da una buona dose di finzione. Per una persona omosessuale dire "sono lesbica, sono gay", cioè fare coming out, è fondamentale per acquisire forza e fronteggiare la violenza omofobica. A farlo è il 65% dei giovani che vive in famiglia. Lo rivela la ricerca Family Matters, la più ampia svolta in Europa, condotta dall'Università del Piemonte Orientale, in collaborazione con diverse associazioni tra cui l'Agedo (http://www.agedo.org/), attraverso interviste e domande rivolte a 200 familiari di giovani lesbiche e gay (tra i 14 e i 22 anni). Del restante 35% si sa per una lettera o un diario lasciati incustoditi o perché sono altre persone a dirlo. Nel 68% dei casi, fratelli e sorelle sono i primi a sapere ed è con loro che i genitori iniziano ad aprirsi. Non mancano i segni premonitori, non tanto amori in corso, quanto forme di isolamento dal gruppo dei coetanei. Quando tutti lo sanno va in scena il momento clou: il passaggio dal non detto al colloquio aperto. Le reazioni sono forti, ma solo in rari casi travolgono il riconoscimento del legame: "è comunque mio figlio, resta sempre mia figlia". La metà dei padri e delle madri si sente fallito come genitore, il 54% tenta di smentire il coming out. Ma altri (un quinto circa) rifiutano, provano rabbia e vergogna. Un altro 17% cerca di patteggiare: "almeno che non si sappia in giro". E la malattia? Il fantasma che si tratti di un comportamento da curare affiora nel 40% dei genitori cattolici praticanti, frutto del capillare lavaggio del cervello in atto da qualche anno. Il confronto è aspro, le parole possono ferire. Eppure, come una ineludibile musica di sottofondo, la rivelazione dei figli porta del bene: i genitori si sentono destinatari e custodi di ciò che i giovani hanno capito di loro stessi. Il colloquio aperto ha un sapore dolce e amaro, perché è vero che la realtà è imprevista e si annuncia dura, soprattutto per il contesto italiano in cui i ragazzi dovranno farsi strada, ma almeno "loro ce ne hanno parlato". E' dinanzi al vero che i ragazzi trovano il coraggio di mostrare, l'estraneità si sfarina. Si riducono lo sfuggirsi, gli occhi bassi, il fastidio per il genitore. Resta il timore della precarietà affettiva, soprattutto in riferimento ai figli maschi, dovuto all'ignoranza dei comportamenti. C'è il punto interrogativo sui nipoti, ma spesso è l'intelligenza dei sentimenti a vincere le barriere. I genitori, guardando al futuro, sperano che i figli abbiano una relazione di coppia (nel 96% dei casi), meno della metà crede che potranno sposarsi, il 19% scommette che i nipoti nasceranno, e il 38% dà per certo che i giovani andranno all'estero, preparandosi a una separazione dolorosa che trova motivo solo nell'arretratezza del nostro Paese. Tra i tanti dubbi, i papà e le mamme cercano risposte nel web, leggono e purtroppo il 39% accende la tv. Con il Festival di Sanremo e con Povia sono stati catapultati nell'era del coming out, invitati a mettere lo scheletro dell'omosessualità nell'armadio e a preparare il posto a tavola per un Luca prevedibile, lontano, finto. Cari genitori, meglio aprire gli occhi, confrontarsi, riflettere. E ritrovarsi.

martedì 24 febbraio 2009

la dura vita del signor B.


A volte mi viene in mente, riflettendo in quelle poche pause della mia giornata lavorativa, come sarebbe stata la mia vita se fossi nato nei panni del signor B. Tralasciando i problemi strettamente connessi alle varie disgrazie processuali e giudiziarie, pensavo a come avrei potuto organizzare la mia giornata tipo (e di conseguenza la settimana) dovendo tenere in debito conto sia gli obblighi derivanti dalla carica di primo ministro della Repubblica italiana, sia gli evidenti e non sempre procrastinabili impegni familiari. O per meglio dire, le chiamate nel talamo nuziale. Assodato il fatto che la mia mogliettina (sempre tenuto conto che in questo momento mi sto immaginando al posto del Pifferaio di Arcore) rientra ampiamente nei miei gusti femminili e di procacità tipicamente mediterranea (in particolar modo nella "esposizione" degli attributi mammari), mi viene da pensare che al termine di una giornata stressante e laboriosa fatta di incontri, summit internazionali, conferenze stampa, spostamenti con la mia scorta continui e faticosi, varie ed eventuali, l'unica idea ad accompagnarmi fin sulla soglia della mia non certo spartana camera da letto, sarebbe senza dubbio quella di una bella e meritata dormita. Ma non credo che la mia mogliettina apprezzerebbe più di tanto questa mia scelta, per quanto quasi obbligata anche in virtù del fatto che all'anagrafe risulta la mia non più giovane età che potrebbe rappresentare quasi un alibi. Rimanendo nel campo delle ipotesi e delle illazioni, non posso non evidenziare il fatto che molti potrebbero pensare che il sottoscritto trombi dalla mattina alla sera, magari nel chiuso di una stanza più o meno ovale (ho sempre ammirato Clinton) o nella toilette di un aereo, tra uno spostamento e l'altro in giro per l'Europa. Niente di più falso. Anche la mia cara amica Mara è rimasta a bocca asciutta (mi si passi l'allusione), mentre la Giorgia e la Stefania (per non parlare della Maria Stella) attendevano con rinnovata fiducia che il sottoscritto potesse dare, da un momento all'altro, il segnale di via libera per combinare qualche cosa. Speranze sistematicamente deluse. Il solo pensiero di dovermi presentare davanti alle mie beneamate telecamere con le occhiaie o con i segni di maratone erotiche no stop, beh, debbo confessarvelo, non mi farebbe chiudere occhio. No, no, cambierei volentieri il mio ruolo istituzionale con il blogger titolare di questa vetrina telematica: almeno non ci sarebbe il pericolo immediato rappresentato dall'assalto delle mie assatanate simpatizzanti (tra l'altro anche un pò tardone). Fine dell'immaginario e ritorno alla realtà. Ad ognuno il proprio ruolo, caro ed infaticabile (si fa per dire) signor B. Non la invidio affatto. Hic manebimus optime!

domenica 22 febbraio 2009

le ronde (in maschera) secondo Rossaura


Oramai lo so, è un pò come rimettere l'orologio a mezzogiorno quando dal Gianicolo di Roma il cannone spara a salve per segnalare il mezzodì. La mia commentatrice preferita, Rossaura, non aspetta altro che un mio post dedicato ad un argomento che la stimoli e la stuzzichi in modo particolare per inviarmi, a stretto giro di posta elettronica, un suo pepato commento che prontamente porgo ai miei lettori sotto forma di articolo. Anche le ronde padane non sfuggono alla caustica attenzione della Venexiana. Buona lettura. Caro Nomadus, metti a segno un colpo dietro l'altro. Anche le ronde dovevamo vedere. Che tristezza! Io sto, ormai si sa, in una delle isole felici: a Venezia le ronde farebbero ridere anche i piccioni di piazza San Marco. Il nostro Sindaco riceve in continuazione l'invito a munirsi di esercito e di ronde ma, per fortuna, il filosofo Cacciari almeno su questo riesce ad avere un certo spirito ludico e, senza veramente farlo vedere, mostra chiaramente il dito medio. Purtroppo nel giro di poco tempo perderemo sia la Provincia che il Comune, non chiedetemi il perchè. Non lo sapevo neanche quando abbiamo perduto l'Italia intera, figurarsi se potrò spiegarvi perchè perderemo queste due possibilità, seppur la nostra Provincia lavori veramente molto bene ed il Comune di Venezia è ancora all'avanguardia dal punto di vista culturale e anche sociale (o socio culturale che dir si voglia). Però non ce la faremo perchè anche nel Nord Est, isola felice, la paura attanaglia le menti. Faccio un esempio: ieri sera sono partita con un mezzo pubblico verso Padova, con molto ritardo, era ormai sera inoltrata, ma come si fa? a Venezia il carnevale impazza (beh insomma si fa per dire, anche qui la crisi si sente) e ad arrivare da una parte all'altra della città non è facile. Insomma partita tardi con un mezzo che ci ha messo un tempo lungo perchè il percorso che faceva era lungo. Quindi arrivo a Padova verso le 20,00. Chiedo all'autista la fermata più vicina al luogo dove dovevo andare. Mi spiega quale era e mi avverte che la zona è pericolosissima, che non ci si può transitare, sopratutto a piedi a quell'ora. Io, la Venexiana, che ho girato tutte le città del mondo (anche nelle zone a rischio) a piedi, e qualche volta anche sola, mi scappa un pò da ridere. Ma il tipo insiste: " Guardi io ci abitavo a Padova, ma adesso abito fuori, troppi pericoli. Si faccia venire a prendere! Perchè qui non ci sono ancora le ronde e i drogati e gli extracomunitari fanno quello che vogliono". Scendo, e ovviamente mi avvio a piedi verso la mia meta. Mi guardo in giro, non un'anima viva. Ma dove sarà il pericolo? Beh ho avuto un'immagine chiarissima: il pericolo non c'era ancora, ma ci sarà non appena quattro energumeni "rambombiti" scenderanno per le strade a cercare il crimine. Ne sono certa, ieri sera l'unica pericolosa in giro ero io e chissà, visto il mio carattere acceso, avrei trovato subito se ero fortunata la strada verso la gattabuia. Scusa caro amico se scherzo su questo, ma non posso fare altro che prendere in giro questa Italia spaventata e piccola, incapace di un grande respiro e inutilmente serrata in se stessa. E' dall'incapacità di recepire il mondo con la sua umanità varia, i suoi usi e costumi, le diversità, le qualità e i difetti, che nasce il provincialismo e il terrore di essere sopraffatti da chi è più strutturato di noi. Qui a Venezia ancora "rondò" per fortuna e ancora gente senza paura; da voi a Roma con mazze e tamburi, ma non mi pare che in quanto a sicurezza stiate meglio di noi, anzi...Un saluto musicale di violini e viole con tante frittelle e chiacchiere per gli amici. Rossaura.

sabato 21 febbraio 2009

il Federale & il suo giornale


Come certamente i lettori di questo blog sapranno, il sottoscritto non è mai stato troppo tenero con Vittorio Feltri e il suo Libero, vuoi per certe prese di posizione oscenamente favorevoli al Pifferaio di Arcore e alla sua corte dei miracoli, vuoi per attacchi scriteriati e di dubbio gusto contro Prodi (nel passato) e contro Veltroni (nel presente). Ma quello di cui si è macchiato, professionalmente parlando, ieri ha dell'incredibile. Il suo illustratore preferito (una sorta di Walter Molino dei poveri) ha tratteggiato il premier in prima pagina con la mise da perfetto Federale fascista del Ventennio che fu. Ma la cosa più incredibile è che nessuno (tantomeno il caimano) abbia avuto una benchè minima reazione. Una prima pagina inquietante: dall'apologia all'elegia del fascismo. Il titolo: Marcia sulle banche. Catenaccio: "Berlusconi a sorpresa lancia la proposta di nazionalizzare gli istituti. Come fece Mussolini che salvò l'Italia...." Non bastasse, a corredo, c'è una vignetta in cui il capo del governo è rappresentato come un gerarca: maglia nera, fez con aquila appollaiata sul fascio, mascella volitiva. Insomma, il quotidiano di Feltri lo dice chiaro: Berlusconi è come il duce. Senza giri di parole. Naturalmente Palazzo Chigi non commenta, non smentisce. Segno che il paragone non disturba affatto il presidente del Consiglio. Che in effetti, dal Ventennio, non ha mai preso le distanze. Proviamo a immaginare cosa accadrebbe in Germania se il cancelliere in carica fosse rappresentato come Hitler. O cosa accadrebbe in Spagna se Zapatero fosse raffigurato nei panni del caudillo Francisco Franco. O in Argentina, o in Cile, o in qualunque Paese del mondo se il capo del governo democratico fosse raffigurato come il dittatore deposto. Di certo il capo del governo non gradirebbe. Probabilmente protesterebbe con la direzione di quel giornale di opposizione. Farebbe notare che la libertà di critica è sacrosanta, ma chi ha la responsabilità di informare l’opinione pubblica non può superare, anche nelle provocazioni, il limite del buon gusto. Ho detto giornale di opposizione. Perché solo un foglio fortemente ostile al governo potrebbe rappresentarne il capo come un dittatore sconfitto dalla storia. Parliamo ancora della Germania, della Spagna, dell’Argentina, del Cile. Ma Libero non è un giornale di opposizione. E’ un quotidiano di centrodestra che sostiene con passione la politica del governo in carica. Né ha, improvvisamente, cambiato linea politica. D’altra parte, Palazzo Chigi (che di solito reagisce prontamente agli attacchi al Pifferaio di Arcore) non ha diffuso alcuna nota di protesta. E allora dov’è la notizia? Domanderà qualcuno. Le idee del capo del governo italiano attorno al fascismo sono note. Si sa che ne parla con indulgenza. Tempo fa disse che Mussolini gli oppositori li mandava in villeggiatura, dove la villeggiatura era il confino politico. Inoltre si è sempre rifiutato di rispondere alla domanda: "Lei si considera antifascista?". E quando, durante un comizio a Napoli, la folla lo accolse al grido di "Duce, duce" rispose con un sorriso smagliante. Insomma, non c’è alcun motivo per sorprendersi del silenzio di Palazzo Chigi. Dov’è la notizia, dunque? E’ proprio in questo: nell’assenza di sorpresa. La prima pagina di Libero dimostra che l’accettazione del fascismo è entrata ormai nel senso comune. Mussolini è, per una parte della popolazione, una figura tutto sommato positiva. Tanto che la si può utilizzare per rappresentare il capo del governo italiano. Siamo oltre il revisionismo storico, oltre il dibattito accademico. Siamo alla perdita di un pezzo fondamentale della nostra memoria. Siamo a una cosa che in altri tempi, quando apparteneva a piccole e cupe minoranze, veniva chiamata neofascismo...Mala tempora currunt.

ronde padane? Meglio il rondò veneziano...


Ho deciso di intitolare così questo mio post di fine settimana in onore della mia coautrice e commentatrice speciale Rossaura, che tutti sanno essere la Venexiana per eccellenza. L'ultima polemica italiana, scaturita dalla bizzarria (usiamo un eufemismo che è meglio) della Lega, è quella sull'istituzionalizzazione delle ronde (non armate) a tutela dei cittadini e del territorio, contro gli episodi recenti di violenza sulle donne. Per anni, e fino a non poco tempo fa, le sparate della Lega sono state lette, più o meno da tutti, da politica e istituzioni in particolare, come qualcosa di folkloristico. Le chiare e inequivocabili istigazioni alla violenza e al razzismo, anziché preoccupare, anziché essere fermate con forza, determinazione, venivano liquidate con un sorriso. Il risultato? Eccolo. Le ronde padane, quelle che fecero tanto ridere più di dieci anni fa, a Jesolo e dintorni, oggi sono istituzionali, riconosciute dalla legge. Non serve dirlo a voi lettori che il fascismo iniziò con molto meno. E inutile dire che, analizzando questa escalation, è evidente intuire dove arriveremo. Quel che più sconcerta è l'indifferenza e la rassegnazione di chi, invece di reagire urlando in piazza, se ne sta nelle stanze di partito a discutere di scemenze. Già, perché qualunque argomento, sia il nuovo segretario del PD, sia il destino della sinistra sparita, sono sciocchezze (seppur detto con il dovuto rispetto) di fronte a quel che sta accadendo sul territorio, assecondato e legalizzato da chi sta oggi al potere. E il peggio parte sempre da qui. Dal Nord Est, serbatoio della Lega. Le ultime isole, la provincia e il comune di Venezia, il comune di Padova, amministrate dal centro sinistra, è quasi certo che cambieranno colore la prossima primavera e in quella del 2010. Una deriva che mette i brividi, ma a cui sembra impossibile fare fronte. Ma del resto ce la siamo voluta. Ridevamo, quando l'allora sindaco sceriffo di Treviso, Giancarlo Gentilini, diceva che bisognava vestire da leprotti gli extra comunitari. Qualche magistrato, tiepidamente, ci provò, a fermare legalmente l'istigazione alla violenza, ma furono tentavi tiepidi e inutili. Oggi, siamo passati alle vie di fatto. Gentilini ha trovato emuli ben più feroci e determinati di lui, una dozzina di sindaci sparpagliati nel Veneto e privi di scrupoli. Istigano alla violenza nei loro comizi, nei loro comunicati stampa, nelle loro ordinanze. Usano un linguaggio che in qualunque altro Paese farebbe scattare una denuncia, se non addirittura le manette. E l'assuefazione a quel linguaggio è ormai dentro a tutti noi. Non ci si indigna più. Al massimo ci si rassegna. E siamo finiti in un Far West diffuso. Far West significa ovest lontano. Lo conosciamo bene, il Far West. Sta dentro il nostro immaginario, con le facce di Clint Eastwood e John Wayne, i film di Sergio Leone, i duelli sotto il sole a picco. Da quelle parti, la legge la facevano gli sceriffi, ed era una legge un po' così, spesso improvvisata: beccavi uno, lanciavi la fune attorno al ramo del primo albero, e il tizio, poco dopo, ci pendeva sotto, appeso per il collo. Nessun processo, nessuna difesa. Il nostro Nord Est è ben diverso dal Far West. È il suo opposto geografico, ci siamo pienamente dentro e, soprattutto, sono passati quasi un paio di secoli da quel Far West. Nel frattempo, credevamo che la società avesse fatto passi da gigante e quelle cose lì fossero relegate, appunto, a un immaginario del passato. Invece no. Ultimamente, nel nord est, succedono cose che pensavi di vedere soltanto al cinema. Le ronde, ad esempio, pensavi fossero cose da ventennio fascista, da vedere, appunto, al cinema. Chi ha qualche decina d'anni più di me, quelle ronde se le ricorda bene, e dovrebbe sentirsi scorrere addosso gli stessi brividi di allora, alla sola idea. Invece, in questo paese dal nome Italia le ronde sono già una realtà. Disarmate ma pur sempre inquietanti quelle a Jesolo e dintorni, terrificanti quelle armate di spranga e altro che imperversano ed entrano in azione nelle periferie di Roma. Non si parla d'altro, dalle parti del Nord Est, da qualche mese. Mentre il mondo sprofonda in una crisi di cui non si conoscono ancora gli esiti, mentre gli altri governi sono concentrati su ciò che di più serio esista oggi al mondo, qui si fa della demagogia. Una demagogia a uso e consumo di chi ha interesse che la gente si concentri su altro. Non solo. Perché poi tutto ciò va alimentato, la fiamma va tenuta alta e mica è facile. E allora le istituzioni, pur di ottenere il risultato prefissato, non badano a esagerazioni che travalicano ben più che il buon senso e la legge stessa. Sì, perché quando ascolti un sindaco (sedicente sceriffo) dire in pubblico che è un peccato che la polizia sia arrivata in tempo per salvare dal linciaggio un rumeno appena fermato, questa non è altro che istigazione alla violenza. E tutti sappiamo che è inconcepibile che un sindaco possa fare affermazioni del genere. Lo sappiamo, così come sappiamo anche che menti sprovvedute e incoscienti, davanti a parole simili che piovono dall'alto di un'istituzione, possono tranquillamente farsi prendere la mano con l'idea che, tanto, l'ha detto pure il sindaco. E così il Nord Est, ma anche l'Italia tutta, rischia di diventare ben peggio di quel lontano Far West. Un paese incarognito e sempre più isolato dal resto del mondo. Ma con le spranghe a portata di mano.

venerdì 20 febbraio 2009

Walter "visto" da Rossaura...


Non potevo certo farmi scappare l'attesissimo (almeno per me) commento della mia migliore amica commentatrice e blogger Rossaura, a proposito delle dimissioni di Walter Veltroni da segretario del Partito Democratico. Ed ecco quindi le sue valutazioni e considerazioni, come sempre schiette e non filtrate, sulla figura e sullo spessore politico dell'ex sindaco di Roma. Buona lettura. E buona riflessione. Come vedi, commento solo ora il tuo post, per il semplice fatto che ho dovuto lasciarlo decantare un pò. Come sai io sono sostenitrice delle dimissioni di Walter, seppur come essere umano (e anche non trascurabilmente come scrittore) io lo apprezzi. Veltroni è il leader (in questo caso lo è stato) che ha traghettato la sinistra dallo sconforto al tracollo e la colpa, purtroppo, non è di Berlusconi. Non potevamo essere legati evidentemente all'antiberlusconismo, come si è fatto durante il governo Prodi, ma questo cambio di rotta è stato troppo poco motivato, troppo gentile e garbato. Ha reso la sinistra un ammasso di cuori infranti e disarmati. Di chi è la colpa? A chi dare la colpa di non aver capito che la politica non si fa a Roma e che non deve essere salottiera o solo di pertinenza dei dirigenti? Come non capire che il popolo aveva bisogno di risposte forti e di opposizione forte alle politiche del "rappresentante della parte avversa"? Chi ha usato il fair play contro il bulldozer che tutto schiaccia, compresa la democrazia? Siamo stati noi, quelli dei circoli che si sono fatti il mazzo sia per le primarie che per le elezioni, pagando anche la cancelleria di tasca propria. Siamo stati noi che usciamo ancor prima dei casi limite, con documenti per sostenere una (degna) legge sul testamento biologico, o sulle correnti del PD o sulla lenta ed inesorabile sottrazione della democrazia. Mi spiace per Walter, per l'uomo; mi dispiace anche per il sognatore, in fin dei conti credo che lo sia, ma non mi spiace per quello che la sua presenza politica ha significato in questo momento storico. Ma ancor di più, se posso aggiungere, non è solo lui che deve mettersi da parte. La dirigenza continua a non capire che quel "posto" di segretario che si libera non è di nessuno di loro. Nessuno saprà fare meglio, nessuno se lo merita, nessuno è senza colpe, anzi a volte ne ha molte di più; gli errori sono stati moltissimi e distruttivi, per questo partito che (purtroppo) partito non è mai stato. Aveva la carta dei valori, aveva il suo manifesto morale, aveva gente che ci credeva, persone pronte a dare ogni energia. E come è stato utilizzato tutto questo? Non mi sembra purtroppo ora il tempo delle analisi. Non ho ascoltato il discorso di Walter in questo frangente perchè mi avrebbe fatto male, ma io ero tra il popolo del Circo Massimo, che applaudiva Veltroni, ed ero lì per far capire che le cose dovevano cambiare, ma non per farle capire all'Italia, bensì al partito. Ma lui, di queste richieste, quante ne ha tenuto in conto? Lui, che doveva essere l'anima e la voce del partito democratico, quanto ha recepito delle nostre istanze? Inutile chiederlo, il seguito è stata la discesa verso gli inferi. Walter, mi dispiace ma avresti potuto girare di più tra la gente. Avresti dovuto capire che il partito non è solo tenere insieme tante anime politiche diverse e impermeabili. Avresti dovuto comprendere che chi aveva bisogno non eravate voi, ma noi. Quelli che non arrivano alla fine del mese, i senza lavoro, i precari, gli ammalati, gli extracomunitari, i sognatori. Tutti quelli, insomma, che vi chiedevano di dare voce alle loro istanze, non alla vostra voglia di esistere. Mi spiace Walter, ma è stato un fallimento. Firmato ROSSAURA.

mercoledì 18 febbraio 2009

la solitudine di un (ex) leader


Guardare dritto negli occhi l'ex sindaco di Roma, seppur filtrato dalle telecamere e dagli obbiettivi delle macchine fotografiche tutte puntate su di lui, mi ha provocato (è proprio questo il verbo che volevo usare) una specie di blocco emotivo e fisico, non altrimenti spiegabile con la sensazione di assistere ad un evento perlomeno storico, seppur rapportato ad una parte della vita politica italiana. Non lo nego, qualche lacrima ha rigato il mio volto rugoso e segnato di vecchio militante degli anni della contestazione studentesca, quelli del periodo 1975-1980, gli anni del movimento, degli indiani metropolitani, di Lotta Continua, di Autonomia Operaia, di Radio Città Futura e Radio Onda Rossa, del Collettivo di via dei Volsci. Lacrime che stanno anche a testimoniare lo scorrere imperterrito e naturale del tempo che se ne va e che non ritorna più. Degli ideali sempre più sbiaditi e sempre meno in cima ai ricordi di quelli della mia generazione (salvo le debite e rare eccezioni). E' la solitudine di un leader quella che mi salta agli occhi guardando la tv mentre parla Walter. Colui che doveva fare il PD e che invece ha visto il PD fare a meno di lui. Adesso che tutto è finito, che la poltrona da segretario è un ricordo, adesso che Walter Veltroni può finalmente scrivere il suo "testamento" politico tra le colonne del Teatro di Pietra che l'avevano visto trionfatore alle primarie, adesso sì che mi sento un pò più solo anch'io. Seguo in silenzio il suo discorso, enunciato con il consueto garbo, con il suo solito modo "caldo" di parlare di politica e mi accorgo che sta mandando alcuni precisi segnali. Al gruppo dirigente, anzitutto. Ma anche al popolo del PD, quello del Circo Massimo e delle primarie. "Il PD è il sogno della mia vita ma non sono riuscito a farlo avanzare. Mi scuso e per questo lascio" è l'inizio del monologo. Walter dunque lascia, dicendo addio a quella poltrona di segretario che, in sedici mesi, gli ha regalato qualche gioia e molti dolori. Dice addio ringraziando lo staff, la scorta (che ha chiesto gli venga tolta) e il suo fidato Dario Franceschini. Non cita gran parte del gruppo dirigente democratico. E non mi sembra affatto casuale. Per il suo ultimo atto da segretario Walter sceglie il Teatro di Pietra, un luogo quasi simbolico. Tra quelle stesse colonne celebrò il trionfo delle primarie. Sembrano passati secoli. Oggi dice: "Il PD è stato il sogno politico della mia vita. Lascio in serenità, senza sbattere la porta. Adesso cercherò di dare una mano al partito". In sala Soro si asciuga le lacrime, Fassino e la Finocchiaro sono terrei. Achille Serra gli chiede di ripensarci. Bersani, cappotto in mano, è immobile. Rutelli non c'è. D'Alema nemmeno. Dicono che non abbia neanche telefonato. Walter parla per circa 40 minuti. Cita Romano Prodi e l'Ulivo, la vittoria del '96 e quel sogno interrotto. Parla del "sogno", il suo sogno, di cambiare l'Italia. "Per questo è nato il PD, per diventare il partito del destino del nostro Paese". Cambiamento, certo. In questo sta "la vocazione maggioritaria" del PD e non nell'essere un semplice vinavil, un mero collante. Riformismo, ci mancherebbe. Quello che serve per cambiare un sistema di valori che il Pifferaio di Arcore ha invece sostituito con i "disvalori". Lavorare a testa bassa, conquistando casamatta dopo casamatta, dice Walter, citando Gramsci. Ma per farlo serve "pazienza e fiducia". Serve un partito che non trituri il leader dopo ogni sconfitta: "Non accade da nessuna parte una cosa del genere. Da noi è la regola" scandisce. E si capisce che parla di lui. Della sua solitudine. Di un gruppo dirigente da cui, in larga parte, non si è sentito appoggiato. Il suo PD, invece, l'ex segretario l'ha visto più volte: al Lingotto, a Spello, in campagna elettorale, alla scuola di Cortona e al Circo Massimo. E durante le primarie. E anche nelle divisioni interne. Quelle chiare, però. "Abituiamoci al fatto che un grande partito non può essere una caserma. I partiti moderni sono così, ma alcuni di noi hanno l'imprinting dei partiti degli anni '70. Sogno un partito che si chieda non da dove si viene, ma dove si va. Un partito che abbandoni una certa sinistra giustizialista, salottiera e conservatrice. Un partito che abbia dirigenti che facciano propria un'identità che gli elettori già hanno". Un partito democratico, insomma. Come quello che si era materializzato tra le bandiere del Circo Massimo. Il futuro, dunque. Quello che forse vedrà Walter in una posizione riservata, più defilata, non certamente meno importante. Ciao Walter. E grazie di tutto.

domenica 15 febbraio 2009

messaggio per i sardi (e non per i sordi)


Quasi 2 milioni di sardi tra oggi e domani sono chiamati alle urne per l'elezione del Presidente che guiderà l'isola per i prossimi anni. Il ballottaggio è tra il patron di Tiscali (e Governatore uscente dimissionario) Renato Soru del Partito Democratico e il berlusconiano Ugo Cappellacci. Come è già successo nelle precedenti elezioni regionali (dulcis in fundo l'Abruzzo) il Pifferaio di Arcore non perde l'occasione per lanciare le sue bordate velenose e piene di menzogne, spalleggiato dai suoi giornali e telegiornali, contro i candidati avversi al suo protetto. E la storia si è ripetuta anche con Soru, accusato dei più nefasti misfatti, compresa l'alopecia del caimano. Non mi vorrei ripetere, ma se io fossi in Sardegna voterei per Renato Soru. Senza troppi indugi e senza remore. Di Soru mi piace quella sorta di introversione bonaria e quell’attaccamento ed amore profondo nei confronti della propria terra, tanto da portarlo a chiudere la campagna elettorale con un discorso fatto interamente in lingua sarda. Cosa dire dell’altra parte? Di Cappellacci Ugo si sa ben poco, per esempio del programma scopiazzato o dei grossolani errori fatti su alcuni suoi manifesti, ma in compenso conosciamo molto bene il candidato Berlusconi, un professionista dello sproloquio. Tanto poi basta ritrattare. Ormai il suo motto è "negare tutto, negare sempre, soprattutto l’evidenza". Mi permetto quindi, cari elettori ed amici sardi, di darvi un piccolo consiglio, visto e considerato che queste elezioni saranno importanti per la vostra bellissima isola, ma in fondo riguardano tutta l’Italia. Non date un assegno in bianco alla destra. L’avete già provata nel passato e non ha risolto i vostri problemi, così come non li sta risolvendo ora al governo del Paese. Non fermate il cambiamento, votate e fate votare Renato Soru! Spero che questo mio appello non rimanga inascoltato.

ma lo sceriffo Mori cosa fa?


L'ultimo episodio di violenza carnale accaduto a Roma (http://roma.repubblica.it/dettaglio/Fidanzati-aggrediti-da-due-stranieri-stuprata-una-quattordicenne/1590553) ha di fatto ripristinato quell'odioso clima di insicurezza e di paura che alimentò la campagna elletorale dello scorso aprile per la poltrona di primo cittadino della Capitale. E proprio il vincitore di quella "battaglia" oggi si dovrebbe sentire chiamato in causa dall'opinione pubblica, non solo romana, per quanto sta accadendo e per render conto delle sue scelte in materia di sicurezza. Durante la campagna elettorale del 2008, la parola d'ordine che apre a Gianni Alemanno le porte del Campidoglio è «sicurezza». Il candidato del centrodestra la declina soffiando sulle paure. A pochi giorni dal ballottaggio, lo stupro di una ragazza nella periferia di Roma, diventa il tema centrale di ogni suo intervento. Coerentemente nel programma di mandato, approvato il 5 giugno, il neoeletto sindaco spiega che «il miglioramento oggettivo e verificato della sicurezza è una priorità dell'amministrazione». E, in nome di quell'obiettivo, il 24 settembre rivoluziona, nella disattenzione generale, il corpo amministrativo capitolino per fondare un nuovo ufficio che dipende in modo diretto da lui. Lo chiama "Ufficio extradipartimentale Coordinamento delle Politiche per la Sicurezza". Lo stesso giorno la supervisione è affidata al generale Mario Mori, prefetto in pensione, già comandante del Sisde, il servizio segreto civile, e del Ros dei carabinieri. Uno dei pezzi da novanta della sicurezza nazionale. «L'esperienza maturata in particolari e delicati settori - spiega la delibera - lo rende una professionalità esclusiva e assolutamente non reperibile all'interno dell'Amministrazione». Tanto esclusiva e unica (ma questo naturalmente la delibera non lo dice) che non è considerato un impedimento che il generale Mori sia stato appena rinviato a giudizio per favoreggiamento nei confronti del capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano (per maggiori informazioni, http://l-antipatico.blogspot.com/2009/01/il-processo-invisibile.html). Da allora sono passati quasi cinque mesi. Oggi Roma si è svegliata con una nuova aggressione shock ai danni di una quattordicenne. La domanda allora nasce spontanea: ma lo sceriffo Mori cosa fa? Non si hanno notizie al riguardo per ora. E, d'altra parte, Mori non è mai stato convocato dalla commissione consiliare per la sicurezza per parlare dei risultati del suo lavoro. L'unica sua apparizione in commissione risale a settembre. Se si sa poco del lavoro del generale, anche meno si sa del suo ufficio. La sede non è indicata nei documenti comunali, il sito internet che dovrebbe garantire informazione e trasparenza è «in allestimento». La struttura si è insediata in un palazzo con vista su piazza Venezia, in fondo a via delle Botteghe Oscure. Il portone è sempre sbarrato. A giudicare dai tabulati della Ragioneria Generale non sembra che in quelle stanze si sia prodotto granché: nemmeno le risorse stanziate dalla precedente amministrazione sono state impegnate. Né c’è traccia nei bilanci capitolini dei 10 milioni con cui il Comune si era impegnato a sostenere gli interventi previsti dal Patto per Roma sicura e affidati all’Ufficio di Mori. Eppure, fin dalla campagna elettorale, Alemanno aveva presentato l’ex generale come testimonial e garante di ciò che la nuova amministrazione sarebbe stata capace di mettere in campo per aumentare il senso di sicurezza in città. Dopo le elezioni in effetti, strategie e interventi sembravano fissati, almeno sulla carta. A questo doveva servire almeno il «Patto per Roma», così viene chiamato, che a fine luglio mette attorno allo stesso tavolo Comune, Provincia, Regione e prefettura. Si tengono una serie di incontri preparatori ai quali partecipa anche il sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano. Lo scopo del Patto è dare più mezzi alle forze dell'ordine, definire l’impiego di un numero limitato di militari, programmare una serie di azioni anti-degrado, migliorare il coordinamento nell'ambito dei poteri e delle funzioni ordinarie. Il generale Mori, che non ha ancora alcun incarico ufficiale, dietro le quinte è presente fin da allora. Nessuno rivela la stranezza. Fino a quando, il 15 luglio, Alemanno si presenta alla stipula finale con un documento interamente riscritto. Un vero e proprio blitz: il coordinamento degli interventi non è affidato al prefetto, come appariva scontato, ma a «un delegato del ministro dell'Interno». Una sorta di super-commissario, una specie di sceriffo. In effetti Alemanno, durante la campagna elettorale, l'aveva già evocato proprio nella persona dell'ex direttore del Sisde. Ma qua ci sono altri enti: non è propaganda, è attività istituzionale. Piero Marrazzo, presidente della Regione Lazio, e Nicola Zingaretti, presidente della provincia di Roma, si oppongono. Il prefetto Carlo Mosca rivendica la sua funzione di garante e alla fine riesce a mantenere le redini dell’applicazione del Patto. Ma un'idea suggerita da Mori sopravvive nella versione definitiva siglata il 29 luglio: far confluire tutti i dati delle telecamere posizionate in città in una «Sala Sistema Roma», gestita dal Comune e collegata alle Centrali operative delle forze dell'Ordine. Ufficialmente, però, Mori compare solo un mese dopo. Il 23 agosto succede un fatto molto grave, il primo da quando Alemanno è sindaco: due cicloturisti olandesi vengono aggrediti in un casale dove si sono accampati. Alemanno tre giorni dopo si reca sul posto. Al suo fianco, il generale Mori. Il sindaco gli affida il compito di mettere in sicurezza i casali. E il 27 agosto con un'ordinanza gli attribuisce «a titolo gratuito» l'incarico di suggerire «progetti e misure per garantire la sicurezza». La formalizzazione arriva in fretta, dopo meno di un mese. Siamo alla «rivoluzione» di settembre. L'incarico di Mori smette di essere gratuito. Il compenso è di quasi 300.000 euro in tre anni. Al neoistituito dipartimento viene affidata l'attuazione del Patto Roma Sicura: l’attivazione di illuminazione, colonnine Sos, in generale di «strumenti di contrasto al degrado». E la creazione della Sala Sistema Roma. Per ora il Comune non ha nemmeno onorato l'impegno di 10 milioni di euro (come invece hanno fatto Provincia e Regione). Ma della Sala Roma si è parlato, qualche tempo fa, in una riunione sul Patto in Prefettura. L'idea di Mori è che in quella centrale, sotto la sua supervisione, confluiscano anche informazioni provenienti da carabinieri e polizia. Proprio il punto chiave del mancato blitz di luglio. Quello bloccato da Regione e Provincia. E dal prefetto Mosca che però nel frattempo, il 13 novembre su pressione di Alemanno, è stato rimosso. Intanto l'ufficio di Mori si è ingrandito, ha avuto in assegnazione 10 vigili, e ha assunto altri ex dei Servizi. A dirigerlo, infatti, viene chiamato Mario Redditi, già capo di gabinetto al Sisde. Il suo compenso è di 365mila euro in tre anni. Ad affiancarlo arriva anche un docente della Polizia di Stato, Giuseppe Italia (compenso 235mila euro). E, ultimo, il 20 dicembre, Luciano Lorenzini (272mila euro). Cosa abbiano prodotto finora non è dato saperlo. Di Mori si è tornato a parlare un pò di tempo fa per il famoso "processo invisibile" di cui sopra. Alemanno e AN hanno fatto quadrato intorno a lui. Il sindaco ha nicchiato di fronte alle richieste del PD (Morassut e Rutelli) di riferire in aula. D'altra parte la notizia del suo rinvio a giudizio al sindaco era già nota quando lo ha chiamato in Campidoglio. Con quale disegno? Delle due l'una. O i compiti dell'ufficio non sono quelli indicati negli atti ufficiali dell'amministrazione. O se sono quelli, non si capisce perché chiamare un ex capo del Sisde (per giunta indagato per fatti gravissimi) a coordinare i vigili urbani e la videosorveglianza dei luoghi insicuri della città. Misteri della politica...

sabato 14 febbraio 2009

questa è l'Italia che ci meritiamo


Anche la seconda settimana del secondo mese dell'anno se n'è andata. Detto ciò mi ritrovo assorto nei mei pensieri e nelle mie riflessioni in questo sabato freddo e ventoso, nemmeno troppo riscaldato dal calore dei preparativi della festa di San Valentino. Mi guardo intorno e vedo (e sento) sempre più sconcerto, preoccupazione, paura. Le cose non vanno affatto bene. Adesso anche il Pifferaio di Arcore incomincia ad essere preoccupato. Di cosa non si sa, visto e considerato che lui (e la sua famiglia) ancora ce la fa a mettere insieme il pranzo con la cena. Ma la cosa che più mi ha sconcertato nelle ultime ore è stato il quadro tratteggiato dal presidente della Corte dei Conti, Tullio Lazzaro, che nella sua "requisitoria" ha descritto un'Italia che francamente non immaginavo fosse così malridotta. Poca trasparenza, grande opacità, corruzione crescente che si traduce in primati mondiali, mancanza di controlli nella Pubblica Amministrazione, consulenze gonfiate, pirateria finanziaria. Leggendo la relazione del presidente Lazzaro sembra che il tempo si sia fermato. Tutti i vizi italiani sono ben sedimentati nei gangli della società civile, politica ed economica. Quasi nulla sembra cambiato da Tangentopoli. Certo, allora la corruzione era di sistema, oggi è più atomizzata, tocca gli individui. Oggi non si comprano i partiti o le correnti: si corrompono direttamente le persone, si comprano le vite e le carriere. Con una specifica aggravante: che nell'alta finanza hanno preso piede strumenti assai rischiosi e di dubbia legalità. Strumenti che una volta erano appannaggio di pochi avventurieri della comunità finanziaria, oggi sono diventati strumenti del sistema bancario. La "requisitoria", stranamente, trova l'assenso del ministro della giustizia Angelino Alfano solo perchè la Corte dei Conti ha detto che il Pm non deve essere l'angelo vendicatore. Ma c'è poco da consolarsi con l'ostilità berlusconiana alla magistratura se il quadro è davvero quello dipinto dal presidente Lazzaro e dal Procuratore della Corte. Anche perchè dalla Corte dei Conti emerge l'anomalia di sempre: il ruolo di supplente della magistratura. La relazione del presidente Lazzaro prende le mosse proprio dalla mancanza di trasparenza. "Dove manca la trasparenza si genera il cono d'ombra entro cui possono trovare spazio quei fatti di corruzione o di concussione che rendono poi indispensabile l'intervento del giudice penale". Lazzaro ha ricordato come l'intervento del giudice penale, "a sua volta, prima ancora del definitivo accertamento dei fatti, può avere anche l'effetto non voluto di generare un clima di sospetto con una nebbia mefitica che sembra tutto avvolgere, generando sfiducia da parte dei cittadini onesti". Secondo il presidente della Corte dei Conti "i controlli, interni ed esterni, sull'Amministrazione non sono pienamente adeguati: occorre allora potenziare e irrobustire i controlli, renderli effettivi nello svolgersi e concreti negli effetti". "Parlare di un Paese di corrotti e corruttori è un pò esagerato, ma la corruzione c'è ed è un dato di fatto che siamo agli ultimi posti nelle classifiche internazionali sulla lotta alla corruzione". La lotta alla corruzione, ha sottolineato Lazzaro, "si fa con il codice penale e con la Guardia di Finanza, ma soprattutto si fa con il controllo e ricordo che Tangentopoli esplose in Enti non sottoposti al controllo di questa Corte". Lazzaro ha messo il dito anche sui mali della finanza e sulle anomalie che hanno poi provocato il più grande crack finanziario degli ultimi 50 anni. "La Corte ha dovuto farsi carico anche del controllo in tema di contratti di finanza derivata: un fenomeno, quest'ultimo, di entità totale probabilmente non ancora del tutto definita e che può costituire un rischio finanziario enormemente grave per tutto il Paese". Orbene, non vorrei apparire per forza uno che ce l'ha sempre con il Pifferaio di Arcore, ma mi domando e dico: come mai, in questa occasione, il caimano non ha sentito la legittima e naturale pulsione di replicare allae pesanti parole del presidente della Corte dei Conti cercando di smentire (com'è suo solito) con le solite barzellette sui comunisti o con la solita tiritera che ce l'hanno sempre con lui? Per caso, questa volta, si è accorto (vivaddio) che la situazione è veramente grave come appare dalla "fotografia" scattata da Lazzaro? Sarò scettico al riguardo (lo sono spesso quando si parla di Lui) ma la stranezza del silenzio di Sua Emittenza non fa che avallare la sensazione che il destinatario della fotografia avesse il proprio domicilio in quel di Arcore (una copia è stata comunque inviata anche al suo ufficio di Palazzo Grazioli) e che in questo caso non ci possono essere gli estremi per rimandare indietro al mittente l'avviso. Caro Pifferaio, guardati per bene la fotografia. Questa è l'Italia che attualmente ci meritiamo. Ovviamente per colpa tua.

mercoledì 11 febbraio 2009

ma Chicco Chicco non lo sa...


...che quando sclera ride tutta la città (e pure Mediaset)? La recentissima presa di posizione, se così si può chiamare, di Enrico "Chicco" Mentana sul rifiuto del direttore dei programmi di Canale 5 di mandare in onda, lunedì scorso, uno speciale in diretta di Matrix sulla morte di Eluana Englaro (cosa che hanno invece fatto, su Rete4 e su RaiUno, i suoi acerrimi nemici Emilio "Servo" Fede e Bruno "Viscido" Vespa), ha determinato un terremoto mediatico-politico di non poco conto. Le sue dimissioni (peraltro accettate) da direttore editoriale della rete ammiraglia di Mediaset hanno avuto l'effetto dirompente di un elefante nel famoso negozio di cristallerie.Orbene, lungi da me il benchè minimo intento censorio sull'evento e sulla modalità perseguita (prendere a pretesto un luttuoso fatto, che aveva già destabilizzato l'opinione pubblica, per farne un ulteriore momento di televisione del dolore mi sembra alquanto fuori luogo), mi viene da chiedere a Chicco: ma per caso non lo sai che Canale 5 non è servizio pubblico e non ha il canone da riscuotere come mamma RAI e che di conseguenza la legge che impera e governa casa Mediaset è quella dell'inserzionista pubblicitario e del relativo contratto multimilionario? Quando hai sbraitato credevi di trovarti ancora nei corridoi di viale Mazzini o negli studi di Saxa Rubra invece che nella dependance Safa Palatino di Casa Berlusconi? Far finta di fare il giornalista modello al servizio completo del telespettatore senza nulla a pretendere e calarsi nella parte del paladino senza macchia e senza paura non sempre raggiunge lo scopo prefissato. La sterile quanto veemente polemica interna al Biscione su questa mancata occasione giornalistica sul caso della povera Eluana ha dimostrato, se mai ce ne fosse stato bisogno, quanta insensibilità e quanto cinismo da quattro soldi possa esserci in giro (soprattutto tra gli operatori dell'informazione) nel momento in cui il rispetto della morte e la pietas umana dovrebbero albergare nei cuori dei cosiddetti uomini di buona volontà. Non è stato così, purtroppo. E Chicco ha perso una formidabile occasione per fare una bella figura. Magari dedicando una puntata del suo Matrix a quegli uomini di buona volontà, come ad esempio molti bloggers,che hanno dedicato bellissime emozioni (con i loro scritti) al caso Englaro e al variopinto mondo circostante. Come ad esempio questo post impeccabilmente scritto da Marco Cattaneo (http://cattaneo-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2009/02/09/riposo-soldato-sacconi/) che ho scoperto grazie a Federica Sgaggio (http://federicasgaggio.it/). Caro Chicco, ogni tanto conviene anche leggere in Rete...

domenica 8 febbraio 2009

le note stonate del Pifferaio di Arcore


Questa volta il piffero si è inceppato e il sibilo incantatorio fin qui brillantemente usato non ha sortito l'effetto voluto. Lo scontro con il Quirinale sul caso Englaro potrebbe segnare l’inizio del tramonto della stella del Pifferaio di Arcore. Non so se anche stavolta i sondaggi saranno benevoli e "teleguidati" nei confronti del premier, ma ho la netta sensazione che questo incaponimento di Sua Emittenza sul decreto riguardante la non sospensione dell’alimentazione alla ragazza in coma vegetativo da 17 anni (bocciato prima ancora che fosse varato dal presidente della Repubblica) e con la riproposizione dello stesso in un disegno di legge che lunedì il Senato in seduta straordinaria comincerà a discutere, abbia di fatto dato il via ad una serie di sfide a vari soggetti.
Innanzi tutto alla Presidenza della Repubblica, che credo non abbia preso molto bene la minaccia del caimano di cambiare la Costituzione (dato per scontato che è stata la Costituzione a ispirare il veto di Napolitano e ad impedire al Pifferaio di fare ciò che voleva).
La seconda sfida è stata lanciata, a mio modesto avviso, al presidente della Camera (e tuttora leader indiscusso di AN) Gianfranco Fini, che nei giorni scorsi aveva detto che sulla soluzione della vicenda Englaro aveva solo dubbi, affermando intelligentemente che l’unico arbitro della vicenda doveva essere il povero padre della povera ragazza. Berlusconi è entrato ancora una volta in collisione con Fini: siamo certi che a marzo Alleanza Nazionale si annullerà nel tanto sospirato PdL voluto pervicamente (e scaltramente) dal cavaliere? I dubbi aumentano giorno dopo giorno. Una clamorosa svolta nella tanto ipotizzata unificazione con Forza Italia potrebbe non essere un’ipotesi così peregrina. Dunque, in questo momento il Berlusca è contro Napolitano e contro Fini. Ma non solo. Perché per la prima volta da quando si è affacciato sulla scena politica è contro il comune sentire della gente, anche di quella che l’ha votato magari turandosi il naso. La stragrande maggioranza della gente è sulla posizione di Fini: lasciare al padre di Eluana la decisione finale. Basta andare a guardare commenti e sondaggi nel web. Una valanga di no contro il decreto (bocciato da Napolitano) e commenti al vetriolo contro Berlusconi e i suoi compagni di viaggio (o di merende). Ho dato un'occhiata al sito on line del Giornale: c’è solo la cronaca, non mi sono imbattuto in sondaggi e non ho trovato commenti della gente comune. In buona sostanza il Pifferaio di Arcore, con il suo atteggiamento sulla vicenda Englaro, si è inimicato un bel po’ di personaggi di spicco e di elettori. Ma allora la domanda è d’obbligo. Perché proprio lui, così sensibile all’amicizia con tutti e soprattutto ai sondaggi, si è infilato in questo ginepraio? Forse, azzardo un'ipotesi, perchè si sente intimamente un ostaggio: a livello politico e a livello etico. Nel primo caso è ostaggio della Lega e, in forma più blanda, dei colonnelli di AN. Nel secondo caso (ma anche con un risvolto politico, considerando tutti i voti che gli può portare) è ostaggio del Vaticano. Che in questo momento è in grande confusione, dopo il caso del vescovo negazionista Williamson, e che forse trasmette confusione anche ai suoi punti di riferimento. A mio modo di vedere questi sono i problemi che potrebbero creare a Berlusconi un bel po’ di amarezze. E buon per il premier che il PD sia del tutto affaccendato in tutt'altre faccende (liti, divisioni, autocandidature per il premierato del partito) fuorché in quella che dovrebbe essere la sua vera missione: fare opposizione. E intanto il consenso intorno all'ex pm di Mani pulite continua a crescere. Giorno dopo giorno. Forse resistere a tanti oppositori (da Napolitano a Di Pietro) potrebbe essere un’impresa titanica anche per il Pifferaio di Arcore.

sabato 7 febbraio 2009

Rossaura mi manda a dire...


Ricevo, e volentieri pubblico, una mail della mia blogger-lettrice-commentatrice preferita. Rossaura mi manda a dire quello che pensa sulla situazione attuale, determinatasi all'indomani degli ultimi sviluppi politico-istituzionale e che tantissime polemiche stanno suscitando. Le riflessioni di Rossaura sono ampiamente condivise dal sottoscritto. Chi segue questo blog non potrà che apprezzare la genuinità e la sensibilità di una donna oltremodo intelligente e partecipativa alle problematiche sociali e culturali che il nostro Paese sta vivendo in questo frangente. Mi permetto solo di aggiungere una piccola chiosa a quanto da lei scritto (e che di seguito leggerete): cara la mia Rossaura, non perdere completamente la speranza (e la voglia) di cambiare la mentalità e la predisposizione al qualunquismo e all'assuefazione a quanti attualmente sono incantati dal Pifferaio di Arcore. Sappi che sono davvero tanti quelli che la pensano come te, che sperano come te e che non demordono (come te) dal lasciare il nostro Paese andare alla deriva morale e sociale, culturale ed economica, come qualcuno vorrebbe. La nostra unione e la nostra forza di volontà alla fine trionferà. Stanne pur certa. Postilla: grazie di cuore per quanto hai scritto in questa mail che sto per pubblicare. Un affettuoso saluto da nomadus. Stamattina ho pensato che mi sembrava giusto scriverti una mail invece dei commenti sui post, che per me hanno un pò lo stesso valore, ma che però diventano pubblici e a volte è più piacevole avere un contatto diretto e anche fare delle considerazione a quattr'occhi virtuali. Credo che il momento che viviamo, esistenziale e politico, sia tra quelli più delicati del nostro tempo. Ne ho visti di momenti topici dove la fragilità della nostra società e del nostro Paese era evidente. Ricordo (come sai l'età lo consente) il '68, gli anni di piombo, i tentativi di colpo di stato, il terrorismo di stato. Cose durissime, difficili da metabolizzare, ma almeno allora c'era una speranza: esisteva un potente senso sociale e antifascista. Oggi no e questo mi disorienta. Penso che la fiamma che si era accesa lentamente dal dopoguerra in poi si è lentamente trasformata in pallida fiammella e oggi un soffio di vento l'ha spenta. Addio allo stato di diritto, benvenuto allo stato di possesso. Ritengo vergognoso il modo e i termini che questo governo usa per fare scempio di tutto quello che è stato fatto fino ad oggi (conquiste, diritti, libertà e quant'altro). E' insopportabile la quiescenza dell'"opposizione" (parola che da ora in poi non userò più per indicare quella "manica" di politici al servizio del potere che hanno fatto scempio dei nostri sogni) al giorno d'oggi. E non soltanto per il decreto legge presentato per il caso Englaro, che come tutti sappiamo non è che un attacco congegnato contro la Magistratura per delegittimarla, ma anche contro le Istituzioni del nostro Paese. Questo è solo uno dei punti. Oggi ci troviamo di fronte all'attacco su tutta la linea di difesa delle istituzioni democratiche esistenti nel nostro Paese. Oggi gli italiani tutti (ma sopratutto quelli decerebrati, spaventati, ammaestrati) sono in potere di un manipolo di persone senza scrupoli, che ci ridurranno in schiavitù. E tutto questo per l'enorme potere che viene assicurato dai mezzi mediatici in possesso del peggior untore che la storia conosca. Penso stupidamente che la maggior parte dei blogger siano esenti (per un particolare tratto di carattere) da questa schiavitù, sopratutto per il fatto che non guardando la televisione no sono assoggettabili a questa pianificazione mentale. Leggere stimola di più la fantasia e anche il senso critico. Guardare passivamente la tv affossa la percezione. Tutto viene somministrato, mai scelto, predigerito. In rete c'è la scelta, la ricerca, la reazione agli stimoli, tutto ciò che l'untore non vuole: perchè pensare con la propria testa, se c'è qualcuno che già pensa per te? Sono avvilita, pur covando dentro una rabbia incandescente, che per forza deve trovare una via d'uscita. Mi avvicino al mio blog, vorrei fare un post che spiegasse questo, che portasse fuori tutto l'amaro che ho dentro. Ma sono impotente, non trovo le parole. Vorrei tanto che le trovasse qualcun altro più bravo di me, che mi potesse dare la sensazione di non essere sola, isolata e senza parola. Caro nomadus, mi sono accorta di aver mandato una mail terribile, uno sfogo che non conduce da nessuna parte e che forse amareggia anche te. Ma averlo fatto mi consente un margine di sollievo perchè credo che tu condivida il mio stato d'animo.Grazie per l'ascolto e per quello che fai con il tuo blog. Rossaura.

attacco alla democrazia (e alla libertà)


Assistiamo a segni inequivocabili di disfacimento sociale: perdita di senso civico, corruzione pubblica e privata, disprezzo della legalità e dell’uguaglianza, impunità per i forti e costrizione per i deboli, libertà come privilegi e non come diritti. Quando i legami sociali sono messi a rischio, non stupiscono le idee secessioniste, le pulsioni razziste e xenofobe, la volgarità, l’arroganza e la violenza nei rapporti tra gli individui e i gruppi. Preoccupa soprattutto l’accettazione passiva che penetra nella cultura. Una nuova incipiente legittimità è all’opera per avvilire quella costituzionale. Non sono difetti o deviazioni occasionali, ma segni premonitori su cui si cerca di stendere un velo di silenzio, un velo che forse un giorno sarà sollevato e mostrerà che cosa nasconde, ma sarà troppo tardi. Così inizia l'appello di un gruppo di illustri cittadini, liberi pensatori, economisti e uomini di cultura riuniti sotto l'insegna di un'associazione che porta il nome (emblematico) di Libertà e Giustizia (http://www.libertaegiustizia.it/index.php). L'appello nella sua interezza può essere letto qui (http://www.libertaegiustizia.it/primopiano/pp_leggi_articolo.php?id=2484&id_titoli_primo_piano=6) e credo sia il primo di una serie di appelli e mobilitazioni che la stragrande maggioranza degli italiani dovrebbero iniziare a metabolizzare per non rischiare di venire travolti e schiacciati definitivamente dalla "dolce dittatura" berlusconiana. Ho scelto di illustrare questo mio post con una vignetta di Vauro tempestivamente dedicata alla recentissima polemica Quirinale-Palazzo Chigi sul caso Englaro. Non credo importi molto al Pifferaio di Arcore la situazione di Eluana e nemmeno le prese di posizione della Chiesa (o perlomeno di alcuni rappresentanti della stessa) e di alcuni uomini politici (debitamente schierati con il caimano). Quello che effettivamente preme di più al vecchio piduista meneghino è cancellare, una volta per tutte, la libertà e la giustizia in essere nel nostro Paese. Troppe volte ha tentato in passato (con le famose leggi ad personam) di spezzare quella catena immaginaria ma non troppo disposta intorno a lui e rappresentata dal senso civico dei cittadini, dal rispetto delle legge vigenti e dei ruoli costituzionalmente previsti da più di 60 anni di vita democratica e liberista, figlia del dopoguerra e del post fascismo. Questa catena lui l'ha pervicacemente cercata di spezzare con le tronchesi della sua innata arroganza e repulsione per la giustizia e per i giudici non asserviti alla sua bonapartiana volontà. Ora è arrivato il momento di dire basta a questo subdolo golpe berlusconiano. Basta alla strisciante volontà di sottomettere tutto e tutti ai suoi voleri e alle sue bizze da Re Sole del ventunesimo secolo. Siamo solo all'inizio. Non manca certo la voglia e la forza della ragione agli uomini di buona volontà per respingere questo ennesimo attacco alla democrazia e alla libertà. La nostra.

lunedì 2 febbraio 2009

regali governativi


A forza di raccontare barzellette il premier è diventato una sorta di comico honoris causa. Le sue proverbiali battute (che tra l'altro non fanno ridere nessuno) sono così tante e variegate che qualcuno del Popolo della Libertà si sta ingegnando per raccoglierle in un libretto da dare prossimamente alle stampe. Ma questa notizia che vi sto per dare non credo faccia parte del campionario stile "La sai l'ultima?", tuttaltro: è maledettamente vera. La norma l'ha voluta un peone tra i tanti. Si chiama Gioacchino Alfano, del PdL, omonimo del più noto ministro Angelino Alfano ma di lui neppure parente (quello è nato a Palermo, questo a Sant'Antonio Abate, provincia di Napoli). In quattro e quattr'otto, il peone napoletano ha eliminato ogni controllo della Pubblica Amministrazione dalle «iniziative di sviluppo» finanziate con contributi pubblici. D'ora in poi, si legge all'articolo 18 bis del "decreto anticrisi", lo Stato paga, ma non verifica nulla. Nemmeno se l'opera finanziata è stata veramente realizzata. La sostanza è presto detta: grazie a quest'emendamento il privato (che ha ottenuto contributi dallo Stato per la propria azienda, industria o per la realizzazione di un'opera pubblica) potrà incassare i fondi solo presentando fatture e autocertificazioni. Insomma, basta un fax o una raccomandata. Né il ministero dello sviluppo economico, né la banca delegata e neppure la Provincia o la Regione potranno più controllare se l'opera alla fine sia stata effettivamente realizzata, prima di saldare il conto. Se il contributo è stato promesso, potrà essere incassato. Punto e basta. Non solo. Mettiamo che l'imprenditore in questione sia onestissimo e si sia reso conto di non poter portare a termine i lavori promessi, dopo averne realizzato una buona parte. Oppure che è l'ente erogatore ad accorgersi che i calcoli sono stati fatti con manica larga e quel progetto finanziato costa meno del previsto. Bene, non importa. Il contributo da pagare è e rimane quello stabilito all'inizio. E se si è speso di meno pazienza, sapete com'è, lo Stato italiano è generoso anche in tempi di crisi economica. Entrambe le modifiche sono contenute nell'articolo 18 bis, inserito nel pacco di emendamenti presentati alla Camera dei Deputati, votati sotto la scure della fiducia e confermati al Senato della Repubblica con lo stesso metodo, anche se Gioacchino Alfano sapeva benissimo l'effetto del suo articoletto. Prima di diventare parlamentare, faceva proprio il commercialista e il consulente per aziende interessate ai finanziamenti pubblici. Il 18 bis, insomma, non è neppure passato per la Commissione Bilancio e forse è per questo che l'opposizione di centrosinistra non si è accorta di nulla, anche se il testo è molto chiaro. Dice che «il saldo del contributo può essere incassato a seguito di consegna al soggetto responsabile di un'autocertificazione attestante la percentuale di investimento realizzata, la funzionalità dello stesso e il rispetto dei parametri occupazionali». E che «l'eventuale rideterminazione del contributo pubblico spettante avviene con salvezza degli importi già erogati e regolarmente rendicontati». Un controllino lo si farà solo per investimenti di «importo superiore a 1 milione di euro». Peccato che i progetti da un milione non siano neppure la metà di quelli che lo Stato paga normalmente. La torta, nel suo complesso, vale almeno 10 miliardi di euro. Le iniziative toccate dall'articoletto sono sostanzialmente tre: la legge 488, pensata dieci anni fa per le «agevolazioni alle aree depresse»; i patti territoriali, strumenti misti che coinvolgono anche gli enti locali nel finanziamento di interventi integrati nei settori dell'industria, dei servizi e dell'apparato infrastrutturale. E i contratti d'area, piani di interventi che coinvolgono anche le parti sociali e prevedono più iniziative sul territorio, con un responsabile unico (pubblico) che coordina tutto. L'emendamento Alfano non chiarisce se la nuova regola varrà per tutti e tre gli «strumenti». Che sono desueti ma non ancora estinti. Con la crisi in corso e la Lega al governo, i progetti di intervento nel Mezzogiorno e nelle altre aree in crisi sono diventati sempre meno. E infatti anche il nostro articoletto parla di iniziative «avviate prima della data di entrata in vigore della legge». Con tutti i limiti sull'efficacia e le possibilità di frode, le leggi attuali però un controllo lo prevedono quasi tutte. Almeno al momento del saldo l'ente locale, il ministero dello sviluppo economico o almeno la banca coinvolta nel finanziamento vanno a collaudare l'opera finanziata. Tanto per vedere se le mura del capannone ci sono, il viadotto ha almeno i piloni e se gli operai sono stati assunti per davvero. E in qualche caso hanno perfino revocato il finanziamento. Ora non più. Come La norma l'ha voluta un peone tra i tanti. Gioacchino Alfano, Popolo della libertà, omomimo del più noto ministro ma di lui neppure parente (quello è nato a Palermo, questo a Sant'Antonio Abate, provincia di Napoli). E in quattro e quattr'otto, complici un paio di fiducie, ha eliminato ogni controllo della pubblica amministrazione dalle «iniziative di sviluppo» finanziate con contributi pubblici. D'ora in poi, si legge all'articolo 18 bis del decreto Anticrisi, lo stato paga, ma non verifica nulla. Nemmeno se l'opera finanziata è stata veramente realizzata.La sostanza, che per ora ha notato solo il manifesto, è presto detta: grazie a quest'emendamento il privato che ha ottenuto contributi dello stato per la propria azienda, industria o per la realizzazione di un'opera pubblica potrà incassare i fondi solo presentando fatture e autocertificazioni. Insomma, basta un fax o una raccomandata. Né il ministero dello sviluppo economico, né la banca delegata e neppure la provincia o la regione potranno più controllare se l'opera alla fine sia stata effettivamente realizzata prima di saldare il conto. Se il contributo è stato promesso, potrà essere incassato. Punto e basta. Non solo. Mettiamo che l'imprenditore in questione sia onestissimo e si sia reso conto di non poter portare a termine i lavori promessi, dopo averne realizzato una buona parte. Oppure che è l'ente erogatore ad accorgersi che i calcoli sono stati fatti con manica larga e quel progetto finanziato costa meno del previsto. Bene, non importa. Il contributo da pagare è e rimane quello stabilito all'inizio. E se si è speso di meno pazienza, sapete com'è, lo stato italiano è generoso anche in tempi di crisi economica.Entrambe le modifiche sono contenute nell'articolo 18 bis, inserito nel pacco di emendamenti presentati alla camera, votati sotto la scure della fiducia e confermati al senato con lo stesso metodo, anche se Gioacchino Alfano sapeva benissimo l'effetto del suo articoletto. Prima di diventare parlamentare, faceva proprio il commercialista e consulente per aziende interessate ai finanziamenti pubblici. Il 18 bis, insomma, non è neppure passato per la commissione Bilancio e forse è per questo che l'opposizione di centrosinistra non si è accorta di nulla, anche se il testo è molto chiaro. Dice che «il saldo del contributo può essere incassato a seguito di consegna al soggetto responsabile di un'autocertificazione attestante la percentuale di investimento realizzata, la funzionalità dello stesso e il rispetto dei parametri occupazionali». E che «l'eventuale rideterminazione del contributo pubblico spettante avviene con salvezza degli importi già erogati e regolarmente rendicontati». Un controllino lo si farà solo per investimenti di «importo superiore a 1 milione di euro». Peccato che i progetti da un milione non siano neppure la metà di quelli che lo stato paga normalmente. La torta, nel suo complesso, vale almeno 10 miliardi di euro. Le inziative toccate dall'articoletto sono sostanzialmente tre: la legge 488, pensata dieci anni fa per le «agevolazioni alle aree depresse»; i patti territoriali, strumenti misti che coinvolgono anche gli enti locali nel finanziamento di interventi integrati nei settori dell'industria, dei servizi e dell'apparato infrastrutturale. E i contratti d'area, piani di interventi che coinvolgono anche le parti sociali e prevedono più iniziative sul territorio, con un responsabile unico (pubblico) che coordina tutto. L'emendamento Alfano non chiarisce se la nuova regola varrà per tutti e tre gli «strumenti». Che sono desueti ma non ancora estinti. Con la crisi in corso e la Lega al governo, i progetti di intervento nel mezzogiorno e nelle altre aree in crisi sono diventati sempre meno e infatti anche il nostro articoletto parla di iniziative «avviate prima della data di entrata in vigore della legge». Con tutti i limiti sull'efficacia e le possibilità di frode, le leggi attuali però un controllo lo prevedono quasi tutte. Almeno al momento del saldo l'ente locale, il ministero dello sviluppo economico o almeno la banca coinvolta nel finanziamento vanno a collaudare l'opera finanziata. Tanto per vedere se le mura del capannone ci sono, il viadotto ha almeno i piloni e se gli operai sono stati assunti per davvero. E in qualche caso hanno perfino revocato il finanziamento. Ora non più. Come dice la canzone? Chi ha avuto, ha avuto ha avuto... chi ha dato, ha dato ha dato...scurdammoce 'o passato, simme 'e Sant'Antonio Abate, paisà!

domenica 1 febbraio 2009

il fortino (assediato) della Magistratura


I riflettori dell'informazione tornano ad accendersi in questi giorni sulla Magistratura in occasione dell'apertura dell'Anno Giudiziario, pomposa e forse un pò retorica manifestazione di autocompiacimento e di autoreferenza dei magistrati con l'ermellino sulle spalle. E ci si chiede: ma il cerchio intorno al sistema di autogoverno e autonomia della magistratura si sta chiudendo? I sussurri e le grida all'indomani della citata inaugurazione e del concomitante sciopero generale delle camere penali, per l'accelerazione di riforme altamente condivise con il governo, non sembrano lasciare dubbi. A ciò bisogna aggiungere anche che il ministro Angelino Alfano chiede più poteri, con la sicumera di poterli ottenere grazie all'identico desiderio del suo presidente e mentore di Arcore. Il Procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, con l'evocazione di una Magistratura in crisi di identità (e con l'esortazione a non scontrarsi con la politica elaborando «nuove strategie di ruolo miranti a recuperare una coesione culturale al suo interno»), cerca forse una riduzione del danno chiedendo alla stessa un'autoriforma. Nulla da fare perché il dado è tratto e non si torna indietro. Che il centrodestra voglia la sottoposizione del Pubblico Ministero all'esecutivo è cosa abbastanza scontata e oramai urlata ai quattro venti, così come è scontato che voglia la paralisi della macchina giudiziaria (migranti a parte) per evitare ulteriori «scherzi» ai colletti bianchi. Solo uno sprovveduto, o un drittone, per esempio, poteva pensare a un collegio di tre giudici per la gestione delle intercettazioni. Per il sistema delle incompatibilità, si paralizzeranno subito i piccoli tribunali e, nel giro di pochi mesi, anche i grandi. Solo uno studente in Legge poco preparato, o preparatissimo, poteva richiedere gravi indizi di colpevolezza per le autorizzazioni alle intercettazioni, per le quali, quindi, in seguito, ci vorranno sentenze di condanna passate in giudicato. I problemi, però, non sono solo questi e proprio partendo dalle parole non dette dal PG della Cassazione Esposito si potrebbe cogliere il nodo della crisi di identità della nostra Magistratura, sicuramente stretta in una morsa tra inadeguatezza del servizio reso ai cittadini (per inefficienza delle strutture e arretratezza dei codici innanzitutto) e una palese mutuazione di modelli di condotta tipici della politica: la cosiddetta politicizzazione, sia nell'Associazione Nazionale Magistrati che nel Consiglio Superiore della Magistratura. La perdita dell'identità passa per una totale assenza di un grande dibattito interno. Ma anche con i cittadini, sui temi che più li toccano. Come ad esempio le garanzie costituzionali di difesa e dei diritti fondamentali, in continuo arretramento sotto i colpi dei vari decreti-sicurezza, dal primo Maroni a quello odierno. E meno male che per i migranti si è speso il Presidente della Corte Costituzionale! Silenzio assoluto sulle responsabilità dei padroni per la strage continua di lavoratori per gli incidenti sul lavoro o sulle responsabilità dei governi e degli enti locali per il degrado del territorio, l'inquinamento dell'aria e l'avanzata inesorabile del cemento e dei cementificatori. E si potrebbe continuare, per poi chiedersi perché, in una fase di crisi profonda di una sinistra ormai polverizzata, ci si dovrebbe battere «anche» per questa Magistratura così disattenta ai diritti e alle garanzie. È il dilemma in cui ci si agitava anche nell'epoca più buia della Magistratura italiana, quando ci si chiedeva che senso aveva battersi per l'indipendenza della Cassazione o della macchina giudiziaria romana, così attente a non turbare il potere politico dominante (allora) della Democrazia Cristiana e soci. Eppure proprio allora molti giudici italiani (collegandosi con i settori più progressisti della società) contribuirono, con le loro battaglie culturali, giuridiche e politiche, a far crescere la richiesta di maggiore democrazia sia all'interno del Paese che all'interno della Magistratura stessa. Oggi è tutto più difficile di allora, ma poiché hanno (e abbiamo) l'acqua ben oltre la gola, è necessario che i magistrati ripensino se stessi e si ridiano un ruolo di modello istituzionale che non sia lo scimmiottamento della politica. Chissà che non siano proprio loro a dare una buona lezione ad una cattiva politica della sinistra.