tpi-back

giovedì 31 luglio 2008

un bell'esempio da seguire


La notizia delle annunciate dimissioni del primo ministro isreaeliano Ehud Olmert (http://unionesarda.ilsole24ore.com/mondo/?contentId=35278), sotto inchiesta per corruzione e per aver chiesto due volte i rimborsi per le spese dei suoi viaggi come sindaco di Gerusalemme, mi ha fatto tornare alla mente le svariate occasioni (per restare in ambito nazionale) in cui un politico italiano, proprietario di tre reti televisive, di qualche settimanale e di un giornale, ha decisamente e volutamente fatto finta di nulla, benchè al centro di svariate inchieste (per rinfrescarsi la memoria basta leggere un mio vecchio post, http://tpi-back.blogspot.com/2008/04/non-consegnate-litalia-nelle-mani-di.html) che riguardavano lui e le sue aziende (ed i suoi amici), perdendo scientemente quella splendida occasione di uscire di scena, di dimettersi, di annunciare che avrebbe volentieri risposto a tutto in un'aula di tribunale e che solo dopo il giudizio a lui favorevole si sarebbe ripresentato (con la sua faccia) di fronte agli elettori. Ma tutto questo non è mai avvenuto, anzi. Il politico non ha mai perso occasione per additare la magistratura come un covo di eversivi, fuori di testa, accaniti forcaioli nei suoi confronti (e dei suoi amici) e chi più ne ha più ne metta. Il politico, se possibile, ha fatto anche di più (e di peggio). Si è cucito addosso, come un doppiopetto di Caraceni, uno scudo impermeabilizzato fatto di legge e leggine ad personam, immunità e prescrizioni a iosa, in una parola inattaccabilità giudiziaria. Questo ha fatto il politico italiano che governa il nostro Paese. E nemmeno le dimissioni di Olmert sono state sufficienti per fargli capire che era un bell'esempio da seguire. Per potersi riabilitare almeno agli occhi degli italiani, se non a quello dei giudici.

mercoledì 30 luglio 2008

vacanze patrizie & vacanze plebee




E' tempo di vacanze. Meritate, attese, desiderate, magari a rate. Ma in vacanza ci si va. Sia che chi ci si chiami Berlusconi, sia che ci si chiami Bianchi. Ognuno ha il sacrosanto diritto di godersi le meritate ferie come vuole e come può. Chiaro che se si ha la fortuna di essere figlie del premier(il riferimento a Barbara ed Eleonora è voluto) le vacanze si "devono" trascorrere in Sardegna, a Porto Cervo. Magari a bordo di una barchetta da poche pretese con in mano un calice con un prosecchino, così giusto per augurare prosit ai precari che il babbo premier ha voluto quest'anno premiare. Se invece si ha la sventura di chiamarsi Bianchi, beh allora ci si deve accontentare di trascorrere le vacanze dar Sor Umberto er grattacheccaro, che ti mette a disposizione al cancello 4 della Litoranea Ostia-Torvajanica un bel chioschetto con belle sediole impagliate, ombrellone e spuntini casarecci. Non ci sono i calici con il prosecchino ma in compenso non mancano i bicchieri di carta, la birra e la gassosa. E pure una bella fetta di cocomero. E siccome il premier ha pensato anche ai signori Bianchi dell'Italia in vacanza, ha deciso di comune accordo con Mr. Prezzi (il non plus ultra) di calmierare le tariffe degli stabilimenti balneari a partire dal 1°agosto. Infatti da venerdì primo agosto, su tutte le coste italiane, dopo le due del pomeriggio sdraio e ombrellone costeranno la metà. È un tentativo disperato di combattere la crisi che morde feroce anche gli stabilimenti balneari; ma anche un momento alto di civiltà - basta con le levatacce, almeno in vacanza! - e, soprattutto, una pietra angolare nella costruzione di un mondo migliore, che ripudia insieme le asprezze barbariche del mattino e le lusinghe stressanti della notte, premiando l’austerità post-meridiana, lenta e serena. Premio ben concreto, oltretutto. Monetizzabile. Il pomeriggio è la nuova frontiera della vita low cost; e - rispetto ad altri low cost sempre più evanescenti e ingannevoli - qui non c’è trucco e non c’è inganno. Amore nel pomeriggio, cantava profetico De Gregori: ma anche vantaggi, adesso, nell’amabile pomeriggio di chi sa aspettare, non si precipita, e crede nel principio - da tempo affermato ad autorevolissimi livelli - che gli ultimi saranno i primi. Almeno nel risparmio. E non dovendosi rodere il fegato per l'invidia di vedere Barbara ed Eleonora sul barchino col prosecchino. La felicità, a volte, è anche un bel panino. Vuoi mettere?

martedì 29 luglio 2008

il ritorno dello Sgarbi (riabilitato)


Mai dire mai. A volte, quando meno te lo aspetti (e magari con la convinzione che il nuovo posto da sindaco di Salemi lo avrebbe tenuto lontano da Milano) eccolo tornare. Più inferocito e rompiballe di prima. Il Vittorio nazionale è tornato. Grazie ai giudici. Il Tar ha accolto infatti il ricorso presentato da Vittorio Sgarbi contro il suo licenziamento da assessore alla Cultura. La sentenza non è ancora stata notificata, ma sul sito del Tribunale amministrativo regionale è apparsa una paroletta che ha fatto felice il nuovo sindaco di Salemi: ricorso accolto. «Certo che torno a fare l'assessore alla Cultura — attacca Sgarbi — e da subito». Promette che venerdì, giorno dell'ultima giunta prima della pausa estiva, «manderà al diavolo» il sindaco Letizia Moratti per il licenziamento «illegittimo nella forma e nella sostanza». E annuncia che a metà ottobre uscirà per la Bompiani un libro dal titolo eloquente: «Clausura a Milano. Da Suor Letizia a Salemi (e ritorno)».
«Perché di una cosa sono sicuro. Io a Milano ritorno: o da assessore o da presidente della Provincia». Era l'8 maggio quando la Moratti revocò le deleghe al vulcanico assessore. Mancanza di rispetto nei confronti della giunta, mancanza di rispetto nei confronti dei cittadini e mancanza di lealtà nei confronti della stessa Moratti. A far precipitare una situazione logora da molto tempo (a partire dalla censura del sindaco alla mostra Vade Retro su arte e omosessualità) due scintille: la delibera «truccata» con cui Sgarbi diede il patrocinio a una rassegna di teatro omosessuale all'insaputa dei colleghi di giunta e le parolacce rivolte dal critico a Marco Travaglio durante l'ultima puntata di Annozero.
Ebbene, per il Tar, almeno a sentire gli avvocati di Sgarbi, quelle motivazioni erano carenti e generiche. «È chiaro — spiegano i legali Giampaolo Cicconi e Fiorenza Betti — che dobbiamo vedere la sentenza. Noi abbiamo insistito molto sulla genericità della revoca. Teoricamente Sgarbi è di nuovo assessore del Comune». Gli avvocati hanno chiesto anche un risarcimento danni di 50 mila euro per lesione del diritto d'immagine. Da Palazzo Marino no comment. Prima vogliono leggere la sentenza a fondo. Di fronte due strade. La prima è difficilmente percorribile. Il Comune fa ricorso al Consiglio di Stato chiedendo la sospensiva. Ma ci vorrebbe troppo tempo. E questo permetterebbe a Sgarbi di venire in giunta venerdì. Meglio l'altra strada, quella su cui l'Avvocatura sta già lavorando.
Se la sentenza contestasse la carenza di motivazioni, Palazzo Marino è pronto a riscrivere la «revoca» motivandola fin nei minimi particolari. In questo modo, Sgarbi sarebbe di nuovo fuori dalla giunta. «Lo facciano pure — ribatte il critico — e io sono pronto a fare una causa milionaria al Comune di Milano perché per tre mesi mi hanno impedito di svolgere legittimamente il mio lavoro». L'umore è alle stelle. «La Moratti deve imparare la grammatica della democrazia. Il Tar osserva che non si può scaricare un assessore senza una ragione. Sono stato licenziato su due piedi, come un cameriere, quando invece il mio lavoro è stato ritenuto da tutti eccellente». E chiude: «Dentro la Moratti c'è uno Sgarbi. Come quando era d'accordo con me sull'evitare la demolizione del garage di via Podgora. Ma a volte dentro la Moratti c'è anche un Albertini che le fa fare il contrario di quello che crede».

lunedì 28 luglio 2008

una Rifondazione non più rifondabile




Mi ha fatto uno strano effetto seguire (un pò ad intermittenza) la quattro giorni di assise del Congresso di Rifondazione Comunista a Chianciano (http://home.rifondazione.it/xisttest/content/view/2869/314/), conclusasi ieri con l'elezione a segretario dell'ex ministro Paolo Ferrero. La sensazione era quella di assistere ad una riunione plenaria di vecchi tromboni nostalgici della falce e martello, che sapevano però di essere dei perfetti ectoplasmi politici, non essendo rappresentati in Parlamento a causa della fragorosa dèbacle elettorale dell'aprile scorso. Pur tuttavia l'accanimento e le polemiche dichiarazioni, rese da alcuni esponenti rifondaroli dal palco di Chianciano, mi avevano convinto che non tutto poteva essere ridotto ad una recita da zombies di liste elettorali. Lo scontro per la segreteria tra Ferrero e il Governatore della Puglia Nichi Vendola (costretto ad ammainare la bandiera del comando per il buon nome della congrega comunista) ha avuto dei picchi di adrenalinica concitazione quasi quanto uno scambio sotto rete a Wimbledon tra Nadal e Federer. Il pianto prepensionatorio di Fausto Bertinotti è stato degno di Blob, con buona pace dei vecchi duri e puri di Bandiera rossa la trionferà. A proposito del colonnello Fausto: a mio modesto avviso l'inizio della fine della non Rifondazione si è avuto due anni e mezzo fa, quando l'ex segretario accettò di buon grado (anzi mise proprio dei paletti, facendo dannare subito il buon Prodi...) la poltrona di presidente della Camera dei Deputati, abbandonando in buona sostanza la tuta da metalmeccanico e indossando la giacca di cachemire. Sarò presuntuoso, ma come me la pensa oggi anche il professor Gianfranco Pasquino: basta leggere il suo articolo su l'Unità (http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=77510). Ma oramai è acqua passata. Le recriminazioni o i disappunti a scoppio ritardato non fanno più testo. Il buon Ferrero (o cattivo, a seconda di come lo si guarda e ricordandosi che proveniva da Democrazia Proletaria non certo da Comunione e Liberazione...) avrà ora a disposizione la tolda di comando di questa vecchia carretta del mare (politico) rimessata e riproposta alla sfinita ciurma rifondarola. Non so se avrà gli "attributi" per fare il nocchiero di una nave fantasma con l'aspettativa generale di attraccare l'anno prossimo in un porto europeo (con le elezioni). Di certo avrà delle belle gatte da pelare, non tutte disposte a fare le fusa.

domenica 27 luglio 2008

il ritratto della (finta) felicità


E poi c'era qualche malalingua che osava sostenere la crisi in atto nella coppia Berlusconi- Lario! Aria di tempesta nel mènage matrimoniale del presidente? Ma quando mai. Dalla foto in alto che ho scelto come contorno di questo post le espressioni facciali (soprattutto della signora Veronica) sono inequivocabili: la felicità sprizza da tutti i pori. Mano nella mano in piazzetta a Portofino, come ai vecchi tempi. Sorriso tirato lei, camminata fluida lui. Silvio Berlusconi e Veronica Lario hanno scelto la perla della Riviera ligure per ufficializzare la loro riappacificazione. Le prime fotografie della coppia in Sardegna sono apparse sul settimanale "Chi" di questa settimana, ma in quel caso si trattava di scatti rubati. L’uscita pubblica di Portofino, invece, è ufficiale e voluta. Dopo le turbolenze vissute negli ultimi mesi, i coniugi più famosi d’Italia hanno deciso che era giunto il momento di dichiarare al mondo l’avvenuta riconciliazione. Ieri il premier ha raggiunto la sua villa di Paraggi poco prima delle otto della sera. È sceso dall’auto scortato, ma insieme a lui Veronica non c’era. Probabilmente viaggiava nella Mercedes dai vetri oscurati che si è infilata in garage senza fermarsi davanti al gruppetto di persone che aspettava il premier per dargli il benvenuto. Erano da poco passate le nove quando i due sono apparsi in piazzetta a Portofino, mano nella mano. Pantalone morbido, top in seta e giacchino in tinta crema con riflessi dorati lei; camicia blu scuro sportiva aperta sul davanti lui. Veronica sorrideva, Silvio salutava i fans che lo acclamavano. I due hanno percorso a piedi il molo Umberto I per raggiungere gli yacht di Piersilvio e Marina senza mai sciogliere l’intreccio delle mani (probabile che Silvio abbia usato la stessa colla che l'altro giorno un contestatore ha usato nel dare la mano al premier inglese Brown).
Quasi una dichiarazione pubblica che il matrimonio è sopravvissuto alla burrasca. Era l’inizio del 2007 quando la signora Lario affidava alle colonne de la Repubblica il suo dolore di moglie umiliata. «Vinco la riservatezza che ha contraddistinto il mio modo di essere nel corso dei 27 anni trascorsi accanto a un uomo pubblico», scriveva Veronica, «per esprimere la mia reazione alle affermazioni svolte da mio marito nel corso della cena di gala che ha seguito la consegna dei Telegatti». A quella cena Silvio Berlusconi si era lasciato andare in apprezzamenti espliciti ad Ayda Yespica («Io con te andrei ovunque») e a Mara Carfagna («Guardatela, se non fossi già sposato me la sposerei»), divenuta poi ministro delle Pari opportunità di questo governo.
«A mio marito e all’uomo pubblico chiedo pubbliche scuse», aveva tuonato Veronica, rivendicando per sé il ruolo di «donna capace di tutelare la propria dignità nei confronti nei rapporti con gli uomini». Berlusconi aveva dapprima esitato: una cena con i figli nella villa di Macherio non era bastata a far tornare il sereno. Quindi aveva affidato al Corriere della sera una richiesta pubblica di perdono in 23 righe: «Cara Veronica, eccoti le mie scuse. Ero recalcitrante in privato, perché sono giocoso ma anche orgoglioso». E nel merito: «La tua dignità non c’entra, la custodisco come un bene prezioso nel mio cuore anche quando dalla mia bocca esce la battuta spensierata, il riferimento galante, la bagattella di un momento». Era il 1° febbraio 2007.
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata molta. Premier e consorte hanno deciso di ricominciare da Portofino, con un’uscita pubblica mano nella mano e una cena da "Puni", l’amico storico. Percorso il molo Umberto I fianco a fianco, i due sono saliti a bordo dello yacht di Marina che aspettava il padre insieme al marito e ai due figli. Il figlio Piersilvio e la fidanzata Silvia Toffanin si sono affacciati dal loro yacht attraccato a fianco per salutare il papà. «Venite anche voi di là?», ha chiesto il presidente del Consiglio, e i due sono volati sull’altra barca. Il tempo di scambiare qualche chiacchiera, baciare i nipotini e poi via, di nuovo sul molo ma questa volta tutti insieme per mano: Silvio e Veronica, Piersilvio in calzoni bianchi e la Toffanin in abitino fiorato. I quattro hanno raggiunto Puni, dove li attendeva un tavolo prenotato per le dieci. Al gruppo si è unito Guido Bagatta con signora. Più tardi è arrivata Marina Berlusconi insieme al marito.
La serata è scivolata via tra musiche, applausi, moscardini e gamberi fritti. La seconda luna di miele dei coniugi Berlusconi va in scena a Portofino la sera del 26 luglio 2008. Diciotto mesi dopo lo scambio di pubbliche accuse e scuse. Lui è raggiante. Lei un po’ meno.

sabato 26 luglio 2008

per il denaro, solo per il denaro!


La professione senza dubbio più redditizia del ventunesimo secolo (ma lo era anche nei precedenti) è quella della escort, volgarmente denominata zoccola. Una professione che non conosce (e non conoscerà) crisi di sorta. La richiesta è sempre costantemente in aumento; anzi, negli ultimi anni, lo sviluppo e la diffusione di Internet, del sesso virtuale e del sesso a pagamento on line sta rendendo questo "lavoro" il più appetibile e richiesto dalle nuove leve femminili del facile guadagno. C’è chi la chiama semplicemente «escort». Chi, invece, si lancia in un improbabile «femme fatale», se intende provare a far colpo. Ma chi cerca la definizione che maggiormente le piace, allora adopera la parola geisha: «che mi piace tanto». Geisha a trecento euro per tre quarti d’ora da passare con lei. Da un minimo di mille e 500 a una cifra da dirigente industriale per una notte di assoluto, totale e coinvolgente piacere. Sesso, ovvio. Ma anche compagnia: una coppa di champagne, una cena in un ristorante «come si deve». E poi via, tra le lenzuola. Purché il fisico regga, il portafoglio sia gonfio e al momento topico non si temano brutte figure. Capelli color mogano lunghi sulle spalle. Zigomi alti, come quelli della Ferilli, telefonini - tre - che squillano in continuazione. Eccola qui la donna dei sogni, per chi cerca un’avventura e non ha problemi per arrivare a fine mese. Il nome in codice, per chi la cerca su «Escortforum» uno dei più noti siti Internet specializzati nel genere, è già una promessa: Letizia. Un metro e settanta di fisico scolpito. «Zigomi naturali, sedere come mamma l’ha fatto e labbra idem», dice. E il seno? «Un po’ ho dovuto ritoccarlo. Ma non tanto. A vent’anni ero già fatta così». E quando aveva vent’anni spopolava tra la Costa Azzurra e la Sardegna, con qualche puntata per crociere su navi di lusso. Oggi che di anni ne ha dieci in più dice ancora la sua. La base di lavoro, allora e oggi, è a Torino. Ma la Letizia se ne va «in tour» per l’Italia tutto l’anno. Per fare cosa, è facile intuirlo. Arriva in una città e quelli che la seguono su Internet, la tempestano di telefonate. Da lunedì prossimo è a Napoli («Ho una casetta a Posillipo»), poi sarà a Roma («Ho una casa in centro»). Poi un po’ di vacanza, e quindi via, altri «tour» a tutta libido. Letizia (che poi è Manuela, sul sito Escortinn) risponde a tutti. Fissa appuntamenti a ripetizione. E tiene d’occhio il suo conto in banca. Che lievita. Fuori dal lavoro è solo una bella donna che attira occhiate maschili. I discorsi che fa, invece, sono da professionista, gelida e spietata. «Ieri sera ero a cena da un cliente che voleva far bella figura con un suo socio». «Quanto ho guadagnato? Seicento euro. Ma potevo chiedere di più». Il suo tempo vale tanto oro quanto sesso riesce a fare. Chiamate continue: «No caro, rispondo solo a numeri in chiaro». Un boccone di caprese all’ora di pranzo «per stare leggera che poi devo lavorare». Un sms: «È un cliente che mi deve mille euro». Fa sesso a credito? «No, era in crisi di liquidità e lo conosco da una vita». Affamata: «Questa mattina ne ho già fatto uno, di cliente. Alle tre vado da un altro: nel suo ufficio. Ha una poltrona così comoda e una scrivania così ampia che è un vero piacere lavorare da lui». Niente amore nella sua vita, soltanto sesso. E per soldi. «Sì, sono anche stata sposata per diversi anni. Poi ci siamo lasciati. Se esercitavo allora? Ma no, per carità. Ho ripreso subito dopo». Con professionalità. «Cosa c’entra l’amore con il mio mestiere? Niente. Sono di chi mi paga per qualche ora». L’argomento clienti è tabù. «Niente nomi, soltanto qualche indiscrezione. Durante la Fiera del libro ho avuto una persona moooolto importante. Ma se dovessi far l’elenco ne avrei così tanti da citare: industriali, avvocati, politici, calciatori». Calciatori? «Sì. Ricordo una volta, a una festa con tutta la squadra. Eravamo una batteria di «escort». Ci avevano chiesto tailleur blu, reggicalze di un certo tipo, perizoma, scarpe con tacco da dodici. A un certo segnale dovevamo slacciare la cintura dei calzoni ai ragazzi». Il nome della squadra? «Top secret. Sono una professionista. Mi pagano. Lavoro. E sto zitta».

venerdì 25 luglio 2008

da caimano a piranha


Come si dice, l'appetito vien mangiando. E stando agli ultimi risultati politici raggiunti, ingoiati con soddisfazione il "Lodo Alfano", il pacchetto sicurezza e la monnezza sparita, il senso di sazietà del cavaliere mi pare ben lungi dall'essere raggiunto. Infatti la voracità da piranha di Sua Emittenza (il caimano oramai è un chihuahua al confronto...) si sta manifestando palesemente con i preparativi (tovagliolo al collo, forchetta e coltello in mano) per i lavori in vista dell'Expo 2015 di Milano, dove ci sarà da pappare per tutti, piranha e amici. Le ganasce del cavaliere sono già allertate: nel decreto firmato mercoledì, ma reso noto solo ieri (sette articoli per sei pagine), il premier fa pesare, e molto, la presenza del Governo nella catena di comando dell’Esposizione universale 2015. Su 16 componenti del Cipem (il Comitato di indirizzo e programmazione Expo Milano), ben 10 sono espressione dell’esecutivo nazionale: tre in più (ministeri degli Esteri, della Cultura e della Difesa) rispetto all’ultima provvisoria bozza del decreto della presidenza del Consiglio. "Comando io", sembra dire Berlusconi ai litigiosi rappresentanti degli enti locali milanesi, in primis il sindaco Letizia Moratti e il governatore lombardo Roberto Formigoni, tutti e due targati centrodestra, ma impegnati fino all’ultimo minuto per affermare il proprio peso nell’organigramma Expo. Il cavaliere dunque tiene in mano il pallino, ma nella più classica strategia del "divide et impera" lascia spazi di manovra agli alleati (della serie, io mi strafogo e a te lascio gli avanzi): la Moratti è stata nominata commissario straordinario dell’Expo fino al 31 dicembre 2016 e rimarrà in carica anche se non sarà rieletta sindaco; a Formigoni invece è stata affidata la presidenza del Tavolo istituzionale per le infrastrutture regionali e sovraregionali collegate all’Expo (10 miliardi di euro di budget). Quanto a Filippo Penati, presidente della Provincia targato PD, il suo sarà un ruolo da guastatore nelle lotte interne al centrodestra.
L’organigramma Expo emerso dal decreto del premier è parso a più di un osservatore "un mostro giuridico". Tanto che già si parla, per correggere le incongruenze contenute nella catena di comando, di una legge speciale Expo in arrivo a settembre. Tant’è, oramai credo che gli italiani si siano abituati alle mostruosità berluscosconiane. Il decreto del cavaliere, intanto, consente di avviare la macchina organizzativa dell’Esposizione. La Moratti, in quanto presidente del comitato di pianificazione che andrà a sciogliersi, entro agosto dovrebbe convocare la prima seduta del Cipem, che sarà presieduta dalla presidenza del Consiglio. Nel Cipem, come detto, ci saranno altre nove rappresentanze governative: i ministeri dell’Economia, delle Infrastrutture, dell’Agricoltura, dello Sviluppo economico e i sottosegretari al Turismo e alla Protezione civile, oltre ai tre ministeri soprascritti e inseriti in extremis. Gli altri sei posti vanno al commissario straordinario (la Moratti), al Comune (in pratica, dunque, la rappresentanza di Palazzo Marino sarà doppia), alla Regione, alla Provincia, alla Camera di Commercio e alla Fiera. Come si può notare tutto è stato scrupolosamente preparato e "apparecchiato" per le voraci fauci del piranha meneghino e dei suoi affamati commensali. La torta multimilionaria dell'Expo 2015 è pronta e invitante. Non resta che aspettare l'inizio del banchetto.

giovedì 24 luglio 2008

Niccolò Ghedini, un disoccupato di lusso


Ho la netta impressione che tra tutti i berlusconiani di ferro, esultanti per l'approvazione del "Lodo Alfano" e per la conseguente immunità del loro capo per i prossimi cinque anni, l'unico a non aver avuto troppi argomenti per essere felice sia stato il rampante avvocato padovano (nonchè consigliori giudiziario del cavaliere) Niccolò Ghedini. Questo occhialuto e allampanato principe del Foro, dalla faccia con l'espressione a metà tra il classico secchione del primo banco e il fruitore appassionato di pellicole tipo Giovannona coscialunga, è da dieci anni l'ombra lunga e vigile del presidente del Consiglio, un facente funzioni del ministro della Giustizia ad uso e consumo delle numerose gatte da pelare giudiziarie riferite a Sua Emittenza. E adesso che non ci saranno più processi, nè udienze, nè altre incombenze giudiziarie per un pò di anni, credo che Ghedini sia da annoverare tra i nuovi disoccupati, magari organizzati. Ma vediamo com'era nata la stella forense padovana. Era infatti l'inizio del 1998 quando l'udienza preliminare del cosiddetto processo «toghe sporche» era alle porte, e quando gliene parlarono per la prima volta, Silvio Berlusconi lo prese per un suggerimento eccentrico. Niccolò Ghedini era un nome che nulla gli diceva. Invece adesso gli dice eccome e non passa giorno senza una telefonata o un consulto con questo quarantanovenne avvocato penalista padovano, entrato nel firmamento berlusconiano dopo l'appannamento della stella, un tempo luminosa, del professor Ennio Amodio e dopo che si è spenta mestamente quella di un altro uomo di cattedra, Oreste Dominioni, cui non è stato perdonato il patteggiamento costato qualche anno fa il seggio europeo a Marcello Dell'Utri. Ghedini è entrato trionfalmente nelle grazie del leader del Popolo della Libertà al punto che i salotti del misurato Foro milanese leggono nell'odierna furia di Berlusconi, nell'accelerazione improvvisa impressa ai giudizi e alle parole, anche la mano e il temperamento del «giovane» Niccolò e della sua completa adesione alle passioni, prima ancora che agli interessi processuali del «cliente della vita». L' incapacità di vedersi sconfitti in una partita che si è persuasi di dover vincere, la convinzione che per un avvocato debba valere la stessa regola del suo assistito: «morire in piedi». A scoprire per primo, anni fa, il "ragazzo di bottega" giuridico era stato Gaetano Pecorella che, a dispetto dell'età, lo aveva portato nella giunta dell'Unione camere penali di cui sarebbe diventato segretario nazionale. Figlio d'arte di una famiglia che di patrizio non ha i titoli ma certo le disponibilità, alla morte del padre, Ghedini aveva trovato nello studio di Piero Longo, professore universitario e leggenda del Foro padovano, la sua nuova casa. Lì si era costruito la fama di gregario di lusso e abile navigatore della procedura penale, firmando due apprezzati codici commentati. Lì si era imposto come uomo di grande studio capace di rispettare le gerarchie, convinto che il riconoscimento dell'autorità prima o poi premi. Con questo biglietto da visita era stato introdotto a Berlusconi. Nelle intenzioni, sarebbe dovuto essere il «numero due» del nuovo collegio difensivo, la spalla intelligente e dotta di Piero Longo il «professore». Ma i 17 mesi dell' udienza preliminare hanno capovolto le gerarchie. E nella convinzione forse che Milano fosse il palcoscenico su cui rischiare, persino il sussiego per il suo «maestro» Longo ha ceduto il posto a una dose aggiuntiva di protagonismo. E' difficile sapere se Ghedini avesse compreso fin dove la nuova partita sulla giustizia si sarebbe spinta e soprattutto con quali conseguenze politiche. Ma è altrettanto facile immaginare quale futuro radioso lo attenda sotto l'ala protettrice del cavaliere, che certamente non lo farà rimanere ancora per molto tempo un disoccupato di lusso.

mercoledì 23 luglio 2008

l'immunità di Re Silvio


Una guarigione a tempo di record. In meno di trenta giorni il pericoloso virus della giustizia contro Re Silvio è stato prontamente isolato e debellato più o meno alle ore 20 di ieri sera, nella sala operatoria di Palazzo Madama, da una pronta ed efficiente equipe di ben 171 baroni della medicina politica (con la supervisione di 6 medici affetti da astensione cronica e con altri 128 che nemmeno sono stati ammessi in camera operatoria), tutti disciplinatamente schierati e omaggianti nei confronti del Sovrano immunizzato. Qualche luminare ha anche argomentato, alla fine dell'"operazione", che questa immunità (chiamata anche volgarmente "Lodo Alfano") serve e servirà molto più al Paese, ai cittadini che non al presidente del Consiglio, nonostante qualche malalingua (con trascorsi nella magistratura si mormora) abbia sempre detto il contrario. Altro che interessi personali del premier. Questo Lodo renderà uno storico servigio all'Italia! Peronalmente la penso come colui è stato un pubblico ministero qualche anno fa. Anzi, mi sento di aggiungere di più. La recente storia del nostro Paese (diciamo dalla fine degli anni '80 in poi) ci ha consegnato una continua "guerra", una sorta di doppio conflitto istituzionale tra il potere politico e quello giudiziario; nonostante tre vittorie delle falangi berlusconiane, i giudici non si erano levati il "vizietto" di perseguire e delegittimare il Sovrano. ma d'ora in poi, come affermano i luminari che hanno sconfitto il virus, "...un risultato elettorale è definitivo fino alla successiva elezione...". In buona sostanza chi è legittimato dal popolo deve poter fare quello che vuole, senza sottostare a legge alcuna. E' evidente però, a mio modesto avviso, che procedendo così, con questo disprezzo totale delle più elementari regole parlamentari, con una maggioranza amplissima e militarizzata, con un Governo prono e succube del Sovrano che approva in dieci minuti una manovra finanziaria, è evidente, dicevo, che in queste condizioni Re Silvio, che già ha una naturale propensione a sentirsi onnipotente, si senta ora addirittura un padreterno e minacci di voler fare subito la riforma della giustizia, la compressione delle intercettazioni e il ripristino dell'immunità parlamentare. Oramai il Sovrano ritiene di aver messo in ginocchio il Parlamento e ne vuol trarre tutte le conseguenze. Naturalmente a suo favore. E senza nessuna vergogna.

martedì 22 luglio 2008

Long John fa l'indiano (latitante)


La notizia non è nuova ma fa sempre audience. L'ex centravanti della Lazio (dello scudetto) e della nazionale italiana di calcio, Giorgio Chinaglia è sempre più inguaiato nella vicenda giudiziaria del tentativo (illecito) di acquisto della SS Lazio da parte del clan camorristico dei Casalesi, che per farlo sin dal 2004 avrebbe messo in atto un'operazione di riciclaggio del denaro provento delle estorsioni e di altri reati. Inoltre il clan camorristico avrebbe sfruttato un personaggio carismatico come Giorgio Chinaglia per avere un sostegno da parte della tifoseria e per costringere quindi il presidente Claudio Lotito a vendere la societa'. Il nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza e gli uomini della Digos di Roma, dopo la prima inchiesta del 2006 che aveva contestato agli indagati il reato di aggiotaggio, hanno eseguito questa mattina sette delle dieci ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip del tribunale di Roma Guglielmo Muntoni.
Delle dieci ordinanze tre non sono state eseguite e si tratta di Giorgio Chinaglia, negli Stati Uniti da oltre 2 anni, l'ungherese Szlivas Zoltan e un terzo personaggio sulla cui identita' si mantiene il piu' stretto riserbo. In carcere e' finito Giuseppe Diana, gia' in regime di 41 bis nel carcere di Opera perche' condannato nel recente processo Spartacus e considerato organico al clan dei Casalesi. In carcere anche il bancario Mario Pasculino, il commercialista Enrico Bruno, l'avvocato Arturo Ceccherini, Guido Di Cosimo, Giancarlo Benedetti e Giuseppe Bellantonio.
Dall'indagine e' emerso che proprio Giuseppe Diana, di Mondragone, titolare della "Diana Gas", e' un esponente del clan La Torre ed era proprio lui l'incaricato a portare avanti l'operazione che avrebbe portato all'acquisto della Lazio. La stessa societa' Diana Gas aveva proposto di sponsorizzare la Lazio. La nuova inchiesta che ha analizzato il flusso finanziario dietro l'operazione della tentata scalata alla Lazio, ha portato anche al sequestro di 2 milioni di euro dei 24 impiegati dai Casalesi in tutta la vicenda. Due sono stati i tentativi da parte degli indagati per acquisire il titolo della SS Lazio. Nel primo tentativo la societa' Diana Gas, riconducibile al clan dei Casalesi, ha tentato di sponsorizzare la Lazio per due partite di calcio che si sono svolte nel 2005, una per la Coppa Uefa e l'altra di Coppa Italia. Il secondo tentativo e' stato invece finalizzato a reintrodurre in Italia somme di denaro attraverso manovre speculative dello stesso titolo della Lazio. Per questo Giorgio Chinaglia si e' prestato a rilasciare dichiarazioni alla stampa secondo cui un gruppo farmaceutico ungherese era interessato all'acquisto della Lazio. "Non ne so nulla, ma chi li conosce questi". Così dichiara oggi Giorgio Chinaglia, raggiunto telefonicamente da MF, smentendo ogni legame con la Camorra nella sua tentata scalata al club biancoceleste di due anni fa. "Non ho la minima idea di come vengano fuori queste accuse, non capisco", prosegue Chinaglia, attualmente latitante dopo l'ordine di custodia cautelare in carcere spiccato stamane dalla Procura di Roma. "Io conosco Guido Di Cosimo, gli altri non li conosco" aggiunge poi Chinaglia, spiegando che proprio da Di Cosimo aveva avuto informazioni sull'interesse di un gruppo chimico-farmaceutico ungherese per la Ss Lazio. "Io sono andato alla Consob per presentare il progetto, sono andato li' con i miei avvocati, non sono andato da solo -ha aggiunto- Io credevo in quel progetto".
Oggi per Chinaglia, "la Ss Lazio e' un capitolo chiuso, visto quello che sta accadendo in Italia. Sono due anni che non ho avuto piu' contatti con nessuno di loro". Alla domanda se preveda di rientrare in Italia per difendersi, Chinaglia ha detto "certamente no". Chinaglia ha spiegato di aver gia' preso contatto con i suoi legali in Italia. Rina Izzo, legale di Chinaglia in Italia, raggiunta telefonicamente, non conferma i contatti con Long John, e precisa che "non abbiamo ricevuto ancora alcuna documentazione dalla Procura. Finora abbiamo soltanto appreso la notizia".

lunedì 21 luglio 2008

il gestaccio di Bossi, il silenzio di Napolitano




Sarà che oramai ci ha quasi abituati al suo lessico da osteria e alla sua gestualità da magnaccia. Fatto sta che il silenzio istituzionale del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio, all'indomani del gestaccio del ministro delle Riforme Umberto Bossi, mi sembra alquanto fuori luogo. Bossi partecipa al congresso della Liga veneta-Lega Nord e sbeffeggia l’Inno nazionale. Con un gesto inequivocabile. "Non dobbiano più essere schiavi di Roma. L’inno dice che l’Italia è schiava di Roma (in realtà è la vittoria che è schiava di Roma , ma lui non lo sa) toh dico io". E via davanti a centinaia di delegati in delirio col dito medio della mano destra alzato. Un gesto inequivocabile, di una volgarità importata dall’America che da molto tempo ha trovato tanti cultori anche da noi. Per chi non lo sapesse quel gestaccio sta per Fuck You, fottiti. Lo fanno tanti automobilisti sulle strade intasate, tanti pedoni che rischiano di essere travolti sulle strisce, lo fanno tanti giocatori di calcio nella famosa trance agonistica.
Ora fra i cultori del genere è arrivato anche un ministro della Repubblica. Che nell’occasione, per sottolineare la necessità del federalismo, parla anche di "Stato fascista" e aggiunge sempre più accalorato: "Dobbiamo lottare contro la canaglia centralista, se non è fascista questa cosa qua...". E ancora un concetto a lui carissimo: "Ci sono quindici milioni di uomini disposti a battersi per la libertà. O otterremo le riforme oppure sarà battaglia e ce le conquisteremo". Fine delle esternazioni. O del delirio, se preferite. Un delirio che però, trattandosi di Bossi, rischia di passare sotto silenzio. Qualche reazioncina tanto per fare, ma nulla di impegnativo. Del resto si sa che il cavaliere ha più volte giustificato gli interventi di Umberto, reo semmai ai suoi occhi di essere solo un po’ troppo colorito.
Ma forse sarebbe bene che qualcuno che conta cominciasse invece a dire qualcosa. Non è possibile che Bossi possa dire tutto e il contrario di tutto, che possa dileggiare impunemente Stato, inno, istituzioni. Bossi NON può dire tutto quello che vuole. Però sono sicuro che anche in questa occasione ci sarà qualcuno che dirà che il Senatùr non sta tanto bene, che ha qualche problema di salute, o che in definitiva ha detto quello che ha detto solo per caricare i suoi, o che magari stava scherzando. Ma le sue condizioni di salute non possono essere una volta buone e una volta così e così a seconda di quello che dice. E non può dire quello che gli passa per la mente solo per fare colore.
Forse sarebbe davvero il caso che il Capo dello Stato in persona, lo stesso che ha fatto Bossi ministro, sottolineasse l’inopportunità di certe frasi. Ma vi immaginate cosa sarebbe già successo se a sbeffeggiare l’Inno fosse stato un attore, uno scrittore, un giocatore di calcio (vi ricordate quanto è stato scritto e detto contro gli azzurri che non cantavano l’inno?), un cittadino qualsiasi? Apriti cielo, indignazione, prese di distanza, bacchettamenti vari, interrogazioni parlamentari. Se invece ad offendere, ad alzare il dito medio della mano destra contro l’Inno è un ministro della Repubblica, in particolare il ministro delle Riforme, allora va tutto bene o quasi.
Dirà qualcosa Napolitano in questa occasione? Ah saperlo. Di certo non sarebbe stato zitto Ciampi, l’ex presidente della Repubblica, che durante il suo settennato si è impegnato sempre e comunque in prima persona per inculcare di nuovo nelle menti degli italiani il rispetto per l’inno e per la bandiera. Purtroppo senza riuscirci con quella zucca vuota di Bossi...

domenica 20 luglio 2008

quel maledetto colpo di pistola




Il 20 luglio 2001 a Genova, in piazza Alimonda, nel corso delle manifestazioni contro il G8 e durante gli scontri tra alcuni no-global e le forze dell'ordine, un colpo di pistola sparato dal carabiniere Mario Placanica pone fine tragicamente alla giovane vita di Carlo Giuliani. Sono esattamente le ore 17,27. L'autopsia certificherà che ad ucciderlo è un proiettile entrato all'altezza dello zigomo sinistro e fuoriuscito dalla zona occipitale. La morte non è istantanea. Giuliani agonizza per almeno 15 minuti, protetto da un cordone di polizia. Un medico volontario del Genoa Social Forum, il primo a portargli soccorso, riferisce di un battito cardiaco flebile, dell'impossibilità di verificare in quei frangenti in quale zona del cranio si sia aperta la ferita. Di una lacerazione «a stella» sulla fronte, erroneamente individuata in un primo momento come la lesione mortale. A conferma della difficoltà, il medico legale, rileva le dimensioni modeste del foro d'entrata del proiettile — 8 millimetri — non quelle del foro di uscita, comunque più piccolo del primo. Carlo Giuliani — le immagini fotografiche e televisive non lasciano spazio al dubbio — viene colpito mentre a breve distanza da un Land Rover defender dei carabinieri solleva all'altezza delle spalle un estintore scarico del suo contenuto e del peso di circa sei chilogrammi. La jeep dell'Arma, in quel momento, è chiusa su un lato di Piazza Alimonda. Il muso incastrato in un cassonetto, il lunotto posteriore infranto, il motore spento. Sulla jeep si è già abbattuta una prima volta la furia di una decina di manifestanti. E' stata investita sulla fiancata destra da un colpo di asse. L'estintore, che Giuliani solleva al momento della morte, è già stato scagliato una prima volta contro il defender. Ha colpito il tetto, è rimbalzato sulla ruota di scorta prima di ricadere sull'asfalto. Intorno, piovono sassi. Nel defender dell'Arma sono in tre: il carabiniere di leva Dario Raffone, l'autista a ferma biennale Filippo Cavataio e l'ausiliario Mario Placanica. Tutti in forza al dodicesimo battaglione «Sicilia». La jeep ha il lunotto posteriore sfondato. Le immagini fotografiche e televisive mostrano un braccio teso ad impugnare una calibro 9 di ordinanza, rivolta in direzione di Giuliani. Le registrazioni foniche documentano l'esplosione di due colpi. Quanti sono i bossoli ritrovati nell'immediatezza del fatto. Uno all'interno del defender, l'altro all'esterno, sull'asfalto. L'incrocio tra le immagini e il picco delle onde sonore fatte registrare dall'esplosione dei colpi documentano senza ombra di dubbio che nel momento in cui la pistola spara una seconda volta, Carlo Giuliani è già sull'asfalto in un lago di sangue. L'intera sequenza dura trenta secondi. Quanti ne sono passati tra il primo assalto dei manifestanti e il secondo colpo di pistola. Ne restano 4 di secondi, prima che la jeep esca dal campo visivo. Il motore del defender riprende vita. L'autista Cavataio innesta la marcia indietro travolgendo il corpo di Giuliani. Quindi lo sormonta una seconda volta in senso inverso. La notte del 20 luglio il canovaccio è pressoché scritto. Interrogato, Placanica, «che zoppica manifestamente con la gamba destra e mostra un ginocchio destro gonfio ed escoriato», dichiara di aver esploso due colpi della pistola di ordinanza, ma di ignorare contro chi. Così ricostruisce il momento chiave nel verbale di interrogatorio: «Mi sono messo a gridare, dicendo all'autista di scappare ed urlandogli che ci stavano ammazzando. Eravamo infatti circondati e io ho inteso che ce ne fossero centinaia(...). Ho visto in difficoltà il mio collega e ho pensato che dovevo difenderlo. L'ho abbracciato per le spalle e ho cercato di farlo accucciare sul fondo della jeep. (...) Continuavano ad arrivare pietre nella vettura. Il mio amico è rimasto colpito da una pietra sotto l'occhio. Sempre più terrorizzato urlavo all'autista di muoversi che non ce la facevo più. Dopo aver gridato mi hanno colpito con una grossa pietra in testa di colore bianco con i lati taglienti. Per ben due volte. Alla vista del sangue e del mio amico ferito ho messo il colpo in canna alla pistola che tenevo in una fondina a coscia, rimettendo però la sicura. Intimavo ai manifestanti di farla finita, sennò avrei sparato. Loro imperterriti hanno continuato a lanciare pietre. Nell'agitazione, e cercando di difendermi, mi sono accorto a posteriori che con la mano avevo inavvertitamente levato la sicura. Il lancio è continuato ed ho sentito la mia mano contrarsi e partire dalla pistola due colpi (...). Alla mia vista, nel momento in cui puntavo la pistola, non avevo persone». L'arma di Placanica — soltanto la sua — viene sequestrata. E' tutto chiaro. Il caso, come del resto invitano a fare gli avvocati dell'Arma, potrebbe chiudersi ora, subito, lì, alle 00.10 del 21 luglio, quando viene chiuso il verbale di interrogatorio. Il giovane carabiniere ha sparato per legittima difesa. Ma intanto una maledetta pallottola ha reciso per sempre la giovane vita di Carlo Giuliani.

sabato 19 luglio 2008

19 luglio 1992: morte della legalità





Sei corpi carbonizzati e mutilati scagliati nel raggio di diversi metri, decine di auto distrutte ed in fiamme, un palazzo sventrato e altri due danneggiati sino ai piani piu' alti, una lunga colonna di fumo che si alzava da un cratere nell'asfalto largo tre metri proprio davanti il civico 21. Questa la scena agghiacciante che si presento' agli occhi dei primi soccorritori qualche istante dopo le cinque del pomeriggio del 19 luglio del 1992. In via Mariano D'Amelio, a Palermo, persero la vita il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, Emanuela Loi, Walter Cusina, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. Il giudice Borsellino, che quel giorno (domenica) aveva pranzato da amici, poco prima delle 17 arrivo' con la scorta in via D'Amelio. Mentre si accingeva ad entrare nello stabile in cui abitava la madre esplose una Fiat Panda imbottita con 100 chili di tritolo, posteggiata davanti al portone. L'esplosione provoco' il ferimento di una ventina di persone, nessuna delle quali in modo grave, e l'inagibilita' di decine di appartamenti. Il magistrato andava spesso a far visita alla madre, in quel periodo malata, ma nessuno penso' di istituire una ''zona rimozione'' davanti il portone. Subito dopo la strage il prefetto di Palermo Mario Jovine venne trasferito e sostituito dal prefetto Giorgio Musio. La strage di via D'Amelio avvenne meno di due mesi dopo di quella di Capaci (23 maggio '92), dove Cosa Nostra aveva gia' ucciso Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Subito dopo la strage di via d'Amelio il governo decise il varo di rigorose misure antimafia e l'invio, in Sicilia, di battaglioni dell'esercito per fronteggiare l'emergenza criminale. Altra iniziativa adottata subito dopo l'esplosione fu il trasferimento nelle carceri dell'Asinara e di Pianosa di tutti gli imputati del reato previsto dall' articolo 416 bis del codice penale. Nel lavoro, come nella vita privata, Paolo Borsellino era sempre stato se stesso. Nei giorni successivi all'attentato del 19 luglio 1992, tutti quelli che lo conoscevano parlarono di ''un uomo semplice, schietto, dotato di una grande carica umana e spirituale''. ''Fino all'ultimo era rimasto il ragazzo della Kalsa, il quartiere dove era nato e dove aveva stretto un intenso rapporto di amicizia con Giovanni Falcone, suo compagno di giochi'', racconto' il professor Giuseppe Tricoli, nella cui villa di Carini, Borsellino trascorse le ultime ore prima di morire dilaniato in via D' Amelio. Per motivi di sicurezza il giudice aveva dovuto diradare l'uso della propria casa di villeggiatura ma talvolta non resisteva alla tentazione di ritagliarsi spazi di vita privata ed eludeva, anche in compagnia di Tricoli, la sorveglianza della scorta. Gli impegni di lavoro aumentavano ma Borsellino riusciva a dedicarsi a varie altre attivita': era presidente della sezione distrettuale di ''Magistratura indipendente'', faceva parte della commissione disciplinare del comitato regionale di ciclismo, sempre piu' spesso veniva invitato nelle scuole ed alle conferenze sulla mafia. Dopo la morte di Falcone sentiva questo impegno pubblico come un dovere morale verso l'amico e collega. Per dovere di cronaca mi sembra opportuno riproporre due contributi filmati. Il primo è la puntata che La Storia siamo noi di Giovanni Minoli ha dedicato pochi giorni fa al giudice Borsellino (http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=572); il secondo è un'inchiesta di RaiNews24 sui misteri di via D'Amelio e sulla sparizione della famosa agenda rossa di Borsellino, riproposto sul sito del fratello del giudice (http://www.19luglio1992.com/index.php?option=com_content&view=article&id=236:diario-di-un-magistrato-inchiesta-di-rainews24&catid=18:i-video&Itemid=33). Due esemplari momenti di inchiesta giornalistica, due modi per ricordare il sacrificio di Paolo Borsellino e della sua scorta.

venerdì 18 luglio 2008

la polvere nascosta sotto il tappeto


Questa storia di Napoli ripulita, senza più monnezza nelle strade, mi ricorda un pò alla lontana quello che raccontava un mio amico d'infanzia. A casa sua i genitori latitavano perchè entrambi impegnati con il lavoro. Anche la pulizia scarseggiava e così, in quelle occasioni in cui improvvise ed inaspettate visite di parenti, più o meno graditi, mettevano in agitazione la famiglia del mio amico, si ricorreva al vecchio trucco della polvere nascosta sotto il tappeto. Dopo molti anni anche un furbacchione come il presidente del Consiglio ricorre al medesimo trucco. E lo fa con la tecnica dell'illusionista, del mago Silvan dei poveri (illusi), quello che fa apparire (strade tirate a lucido, ma solo dove passa lui e la sua corte dei miracoli) e quello che fa sparire (la monnezza messa sui treni e mandata in Germania). Ma il tappeto usato per nascondere la polvere non è certo infinito, anzi. Copre solo la parte centrale della città. In periferia la situazione è come prima, peggio di prima. Ma il nostro illusionista ha pensato bene di far ripulire solo le strade dove oggi trascorrerà l’ennesima gita di governo e di piazzare le telecamere del fidato Tg4 a riprendere il miracolo. «Ritorno a Napoli» è il titolo dello speciale del tg che Emilio Fede trasmetterà in occasione del Consiglio dei Ministri partenopeo. Nello speciale, spiegano dalla redazione dell’emittente Mediaset, si vedranno «immagini del periodo drammatico vissuto dalla città e il nuovo volto della Napoli di oggi». Se non fosse vero, verrebbe da ridere. «Abbiamo tolto già 35mila tonnellate di immondizia» spiega Berlusconi, ma non si capisce dove li abbiano messi visto che le discariche annunciate dal piano suo e di Bertolaso sono ancora presidiate notte e giorno dalle proteste dei cittadini. Ma Berlusconi ormai ha in tasca la sua versione dei fatti e addirittura si spinge a dichiarare che quello di Napoli è un esempio da imitare: «Queste soluzioni dovranno essere imitate da altre regioni che sono lì lì per arrivare a una situazione di crisi – dice – Era elevata la quota di italiani che pensavano che noi non ce l'avremmo fatta. Oggi posso dire che l'emergenza è stata superata e che tutta l'immondizia è stata tolta dalle strade». Se non fosse vero, verrebbe da ridere. Lo pensano anche a Bruxelles: dopo aver avuto notizia degli annunci trionfanti del premier italiano, la Commissione europea ha subito fatto sapere che la procedura di infrazione «rimane aperta». «Non possiamo misurare i risultati di queste politiche sulle parole, ma sui fatti – ha spiegato Barbara Hellferich, portavoce del commissario all'ambiente Stavros Dimas – Il governo deve realizzare il piano, non basta presentarlo, deve dimostrare che la soluzione indicata risolve il problema a lungo termine, con una gestione corretta dei rifiuti e la creazione del termovalorizzatore». Bruxelles ricorda anche che sulla questione campana è stata chiamata a pronunciarsi la Corte di giustizia del Lussemburgo. «Per noi - ha dichiarato Hellferich- c'è un caso di fronte alla Corte che riguarda la gestione dei rifiuti, non giudichiamo le parole». Quindi anche se la Farnesina in una nota ha ribadito che la chiusura della procedura d'infrazione è legata alla realizzazione del ciclo integrato dei rifiuti, per la quale il governo italiano è «fermamente impegnato», la promessa non basta. E nemmeno uno speciale del Tg4.

giovedì 17 luglio 2008

Berlusconi, il Nerone del XXI secolo




Ogni volta bisogna attraversare la Manica per trovare qualcuno che ci ricorda la realtà dei fatti, quando c'è di mezzo il cavaliere. Un Silvio Berlusconi con il capo cinto da una corona di alloro, che suona il violino mentre alle sue spalle divampa un incendio. Si suppone che tra le fiamme si consumi il Paese Italia, mentre il novello Nerone del XXI secolo sorride. E' questa l'immagine che The Economist di questa settimana offre della situazione italiana e del governo Berlusconi ai suoi lettori. ''Il nuovo governo Berlusconi sta diventando depressivamente uguale al precedente'' titola implacabile un articolo del periodico che sara' in edicola domani. ''Questa volta tutti pensavano che sarebbe stato diverso'' ammette all'inizio l'autore del servizio, per poi aggiungere: ''Ma a dieci settimane dal giuramento l'agenda politica e' dominata piu' che mai dai suoi interessi personali ed aziendali''. E per non lasciare le cose nel vago l'Economist snocciola le misure "ad personam'' che hanno impegnato l'esecutivo ed il Parlamento italiano: il decreto per evitare il passaggio al satellite di Rete4, il decreto sulle intercettazioni telefoniche, il pacchetto giustizia con le norme ad hoc per il premier tra cui l'immunita' parlamentare. Una classica "ciliegina" sulla torta berlusconiana potrebbe essere (a breve) rappresentata dal pacchetto sicurezza con nuove misure sul patteggiamento. Nel frattempo, osserva il periodico britannico, l'Italia versa in una situazione estremamente critica dal punto di vista economico, ma mentre ''la nave viene spinta verso gli scogli il suo capitano e' occupato in altre questioni''. Cosi' le misure economiche varate da questa maggioranza si sono limitate a ''togliere una tassa impopolare sulla casa ed a ridurre le tasse sugli straordinari''. ''Nessun dibattito sulle misure di liberalizzazione di cui l'economia italiana ha un disperato bisogno'' osserva ancora l'Economist. ''Al contrario, il governo sembra orientato ad attingere dai contribuenti altro denaro da versare nelle casse dell'azzoppata compagnia di bandiera Alitalia, tanto che sta pensando di modificare la legge vigente per rendere possibile questa manovra''. E guardando avanti verso l'autunno, conclude infine l'Economist, ''Berlusconi annuncia 'radicali riforme', ma solo della giustizia''. E chissà che in cuor suo non speri ardentemente (è proprio il caso di dirlo) che bruci come nella vignetta...

mercoledì 16 luglio 2008

Berlusconi & la piccola rivolta lombarda


Sono giorni non certo facili per il presidente del Consiglio italiano. Nonostante la fiducia (imposta) sul pacchetto-sicurezza, preso atto della sua benedizione economica sull'acquisto di Ronaldinho (da leggere lo spassoso articolo di oggi su l'Unità ad opera di Oliviero Beha, http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=77178), incassati gli elogi francesi (con riserva) per la sua partecipazione alla parata parigina del 14 luglio (con tanto di ricordi transalpini generosamente concessi ad una tv all news, http://www.lepost.fr/tag/silvio-berlusconi/), resta da registrare una situazione piena di mugugni e di insoddisfazioni da parte soprattutto della Regione Lombardia e del suo Governatore Roberto Formigoni. E' infatti di ieri la notizia che la sanità e la sicurezza sono i temi che alimentano lo scontro tra il Governo e le regioni, Lombardia in testa. Il ridimensionamento agli stanziamenti previsti in finanziaria per le forze dell’ordine non sono piaciuti ai governatori, soprattutto del nord, alle prese da anni con un’emergenza sicurezza particolarmente sentita dai cittadini. Ma è soprattutto sui tagli alla sanità che il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, e il presidente Formigoni, attaccano le decisioni prese a Roma definendoli "inaccettabili". "Nel suo complesso - sottolinea Formigoni - la manovra ha un andamento positivo e le Regioni sono pronte senza dubbio a fare la loro parte, ma solo in misura equilibrata: occorre finirla cioè con i tagli indiscriminati che non tengono conto del fatto che ci sono Regioni virtuose che hanno annullato il deficit sanitario e altre che invece non lo hanno fatto". Per quanto riguarda la sola Lombardia i tagli previsti nel biennio sottrarrebbero al sistema 1,3 miliardi di euro, il che costringerebbe la Regione non solo al risparmio ma al taglio di investimenti e servizi. A rischio anche il rinnovo del contratto integrativo dei medici e la reintroduzione del ticket aggiuntivo di 10 euro sulle prestazioni specialistiche, dopo l’abolizione degli stanziamenti che ne permettevano la copertura. Per la Regione si tratterebbe di trovare altri 120 milioni di euro e per i cittadini di trovarsi a pagare il più alto ticket sanitario d’Italia pur avendo i conti sostanzialmente in ordine. Formigoni polemizza anche sulle modalità scelte da Palazzo Chigi: "Ci vengono presentati dei tagli pesantissimi con un decreto legge, nemmeno un disegno di legge. Senza la possibilità di discutere". Per il Governatore lombardo non si tratta neppure di un prendere o lasciare. "Sono solo bastonate. Il contrario di quanto ci avevano promesso. Nel giro di una settimana al posto del confronto sono arrivati tagli inaccettabili". Il presidente della Regione Lombardia sulla questione incassa anche l’appoggio di Enrico Letta, responsabile del welfare nel governo ombra del PD. "Nessuno vorrà accusare Formigoni di avere simpatie per il PD, eppure io sono assolutamente d’accordo con lui – ha affermato il dirigente democratico -. I tagli che il governo vuole imporre alla sanità sono disastrosi e sono stati annunciati senza il più piccolo segnale di confronto con chi poi dovrà gestirli, ovvero le Regioni". Il PD – ha proseguito Letta - si batterà insieme agli amministratori regionali perché un simile disastro non si compia, affinché si apra tra governo ed enti locali un dialogo capace di trovare un accordo positivo". Intanto le Organizzazioni Sindacali ospedaliere e le Rsu fanno sapere che il Progetto del Polo Pubblico della ricerca riguardante l’Istituto Nazionale dei Tumori e l’Istituto Neurologico Carlo Besta da realizzarsi a Milano, ex novo, sull’area adiacente all’Azienda Ospedaliera Sacco, potrebbe subire un arresto a causa dei tagli. "Allo stato attuale - si legge sul comunicato di Cgil, Cisl e Uil -, non vi è sicurezza circa lo stanziamento delle risorse necessarie perché bloccate dalla manovra economica del ministro Tremonti anche se l’assessore regionale alla sanità, Luciano Bresciani ha dichiarato che la Regione Lombardia sta facendo tutte le pressioni politiche necessarie a sbloccare i finanziamenti nazionali". In buona sostanza mi sembra la tipica situazione di insoddisfazione che alla ripresa dell'attività politica, dopo la pausa estiva, metterà alla prova il cavaliere e la sua squadra di governo, con relativa preoccupazione degli alleati (in particolar modo la Lega) che ancora hanno qualche richiesta da sottoporre all'attenzione del premier.

martedì 15 luglio 2008

impunità per tutti!




L'arresto di ieri mattina del Governatore della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco (già presidente della Commissione Antimafia...), con tutti i particolari in cronaca come le mele messe in una busta che conteneva una mazzetta da 200 mila euro, per non far notare ad occhi indiscreti lo "svuotamento" appena effettuato, mi ha fatto ritornare con la mente e con la memoria ai fatti del febbraio del 1992, quando il padre di tutte le tangenti (quel vecchio "mariuolo di Mario Chiesa) cercò di disfarsi frettolosamente e comicamente di una mazzetta di 7 milioni di vecchie lire appena ricevuta. A distanza di 16 anni e mezzo da quel topico momento, nonostante il ciclone "Mani pulite" che ha spazzato via la vecchia classe politica corrotta e corruttrice, siamo ancora qui, oggi, a scrivere e a parlare di corruzione, di concussione, di mele e di mazzette. Ho proprio l'impressione che dietro le quinte del palcoscenico politico istituzionale, qualcuno stia lavorando alacremente per cercare di tamponare una falla (una vergognosa falla) com'è quella del malaffare e della corruttela infinita. Ma credo che stiano lavorando all'incontrario: vale a dire che qualcuno stia cercando di trovare una sorta di escamotage legislativo che permetta a tutti (i politici con le "mani in pasta") di assicurarsi una bella impunità duratura. E leggendo questa mattina l'articolo di Marco Travaglio, a pagina 2 de l'Unità, dal titolo "Todo Lodo" la mia sensazione è oltremodo aumentata nonchè confortata. Eccovi il pezzo di Travaglio. Buona lettura. E buona riflessione. Siccome l'appetito vien mangiando, soprattutto in Parlamento, il Lodo Alfano è solo l’antipasto. Perché, infatti, immunizzare solo il capo del governo e non gli altri ministri? Perché solo i presidenti delle Camere e non gli altri parlamentari? Il piatto forte sta per essere servito e si chiama immunità urbi et orbi, in saecula saeculorum, per tutti i membri della Casta.
Resta da capire se varrà «solo» per i parlamentari, o anche per gli altri eletti negli enti locali. Specie dopo l’arresto del governatore d’Abruzzo Ottaviano Del Turco, socialista, con mezza giunta al seguito. E tenendo conto che sono indagati pure i governatori di Calabria, Basilicata, Campania e Lombardia, oltre agli ex di Puglia e Sicilia. Se lo spirito dell’immunità è che la giustizia non deve disturbare il manovratore per non sottrargli serenità e tempo prezioso, non si vede perché dovrebbe valere per quello di Palazzo Chigi e non per quelli periferici. In fondo si tratta di estendere il Lodo ad appena 149.593 eletti: 78 parlamentari europei e 951 nazionali, 1.118 consiglieri regionali, 3.039 provinciali, 119.046 comunali, 12.541 circoscrizionali e 12.820 delle comunità montane. Poca roba, che sarà mai. Pare che, oltre al PdL, si stiano attivando anche Piercaltagirando, circondato dai Cuffaro e dai Cesa, e il geniale piddino Pierluigi Mantini. Il quale era addirittura favorevole al Lodo Alfano («Ritengo ragionevole il lodo Alfano e auspico un’intesa politica alta per le riforme nell’ interesse del Paese»), tant’è che ha provveduto a «migliorarlo» con un apposito emendamento, così da rendere più difficile la bocciatura della Consulta. E ora muore dalla voglia di estenderlo erga omnes: «Mi auguro che il PD non si accodi a Piazza Navona e si faccia carico della necessità di una più netta distinzione tra giustizia e politica». Che, a suo dire, si otterrebbe ripristinando l’autorizzazione a procedere abrogata nel ’93, quella che Claudio Rinaldi chiamava «autorizzazione a delinquere». Il trucco di Mantini, subito elogiato da Angelino Jolie, è quello di estendere ai parlamentari italiani l’«immunità europea». Al Tappone è favorevole, dovendo salvare Dell’Utri e qualche decina di onorevoli imputati: ieri ha annunciato una super «riforma della giustizia», così super da impedire addirittura il ripetersi di arresti come quello di Del Turco (finalità ottenibile soltanto consegnando alle Procure la lista delle persone che non si possono arrestare né processare). In realtà, l’immunità europea non c’entra nulla. Sia perché l’Europarlamento riconosce ai suoi membri le stesse immunità previste nei paesi d’origine (fra l’altro revocabili in qualunque momento, come avvenne nel caso di Bernard Tapie, spogliato dell’euro-scudo e addirittura arrestato in Francia). Sia perché li immunizza solo per «le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni» (come già avviene anche in Italia). È vero che il nuovo Statuto approvato nel maggio 2008 aggiunge che «un’indagine o un procedimento dev’esser sospeso qualora il Parlamento lo richieda». Ma questo ­ ha spiegato il relatore, il socialista tedesco Rothley ­ riguarda esclusivamente «azioni repressive arbitrarie (fumus persecutionis) e ostacoli frapposti dal potere esecutivo». Cioè indagini condotte contro esponenti dell’opposizione da magistrati legati al governo. Cosa che in Italia non può accadere, visto che la nostra è l’unica magistratura in Europa a essere indipendente dall’esecutivo. Del resto, questo era lo spirito con cui i padri costituenti scrissero il vecchio articolo 68 della Costituzione (abrogato nel ’93 a furor di popolo per l’abuso vergognoso che se ne faceva): impedire che giudici legati al governo perseguitassero esponenti dell’ opposizione per reati politici (denunce o manifestazioni troppo accese, scioperi, picchettaggi, occupazioni delle terre, blocchi stradali…), o senza prove. L’idea che la garanzia venisse poi abusata da potenti uomini di governo per coprire ruberie e mafierie scoperte da magistrati indipendenti, non fu nemmeno presa in considerazione. Dunque l’immunità parlamentare non è mai esistita, nemmeno prima del ’93: esisteva l’autorizzazione a procedere, che poteva essere negata solo in eccezionalissimi casi di comprovato “fumus percecutionis”. Chi oggi la rivuole, sostenendo che metterebbe al riparo i parlamentari dalle indagini giudiziarie, non ha in mente il vero articolo 68. Ma la sua ultima versione riveduta e corrotta, impunitaria e incostituzionale. Prim’ancora di ripristinarla, già si pensa di abusarne.

lunedì 14 luglio 2008

Del Turco & la tangentopoli d'Abruzzo




Un arresto eccellente, non c'è che dire. Quello odierno del presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco, è, come si suol dire, una notizia di reato che fa scalpore. Una deflagrazione mediatica, senza alcun dubbio. Un arresto, il suo, operato questa mattina dalla Guardia di Finanza su ordine dellla Procura della Repubblica di Pescara. Associazione per delinquere, concussione, corruzione, riciclaggio, truffa, falso e abuso d'ufficio: questi i principali reati ipotizzati (per avere un quadro maggiore della situazione, http://www.primadanoi.it/modules/bdnews/article.php?storyid=16268). Mi sembra giusto, a questo punto, ripercorrere un pò la carriera di Del Turco. Dal 2005, elezioni amministrative del 3 e 4 aprile, Ottaviano Del Turco, ex ministro delle Finanze, è presidente della Regione Abruzzo, per la coalizione dell'Unione con il 58,1 per cento dei voti. Per governare l'Abruzzo si dimette da parlamentare europeo, dove era stato eletto nel 2004.
Ma la storia politica di questo personaggio comincia da lontano. Dopo il diploma di licenza media inferiore si trasferisce a Roma ed inizia il suo apprendistato sindacale nella sede romana dell'Istituto nazionale confederale di assistenza (INCA). Come sindacalista di area PSI, entra a far parte della segreteria provinciale della FIOM di Roma e quindi approfondisce la sua conoscenza del sindacato dei Metalmeccanici entrando a far parte dell'ufficio di organizzazione centrale della FIOM (Federazione operai Metalmeccanici) della CGIL (1968). Prosegue la carriera sindacale prima guidando per molto tempo la corrente socialista della CGIL e successivamente diventando segretario aggiunto durante la segreteria di Luciano Lama (1970-1986). Nel 1992 lascia il sindacato e un anno dopo diventa segretario nazionale del PSI subentrando a Giorgio Benvenuto, che aveva provvisoriamente sostituito Craxi al momento dell'uscita di quest'ultimo dalla vita politica italiana. Il partito, sconvolto dall'inchiesta Mani pulite, durante la sua segreteria si sfalda, diventando prima SI (Socialisti Italiani) e poi SDI (Socialisti Democratici Italiani).
Con quest'ultimo movimento, nel 1994 Del Turco viene eletto alla Camera (XII legislatura) nel collegio elettorale di San Lazzaro di Savena e viene nominato vicepresidente della Commissione Affari Esteri; nella successiva legislatura viene eletto al Senato nel collegio di Grosseto per L'Ulivo.
Dal 16 maggio 1996 al 6 febbraio 1997 è presidente del gruppo dei senatori di Rinnovamento Italiano. Durante il secondo governo Amato (2000) ricopre l'incarico di ministro delle Finanze. La sua attività politica è legata anche alla Commissione Antimafia, della quale è stato presidente. Nel 2004 viene eletto al Parlamento europeo nella circoscrizione sud, con 180 mila preferenze, per la lista Uniti nell'Ulivo e si iscrive al Partito Socialista Europeo. Nel 2007 fonda l'associazione Alleanza Riformista con l'intento di portare lo SDI nel Partito Democratico, in seguito al congresso nazionale dello SDI, nel quale prevale la linea del segretario nazionale Boselli, abbandona il partito per confluire con Alleanza Riformista nel Partito Democratico. Dal 23 maggio 2007 è uno dei 45 membri del Comitato nazionale per il Partito Democratico. E a tempo di record, l'enciclopedia online «Wilkipedia» aggiorna la sua biografia (http://it.wikipedia.org/wiki/Ottaviano_Del_Turco). Con l'arresto.

domenica 13 luglio 2008

dategli la due (anche in paradiso)


Ho rivisto ieri sera su Italia 1 lo speciale che il direttore di Studio Aperto, vale a dire Giorgio Mulè, ha dedicato alla scomparsa di Gianfranco Funari, avvenuta ieri mattina intorno a mezzogiorno nella clinica milanese San Raffaele. Uno speciale ben fatto, con il meglio delle apparizioni del camaleontico e provocatore conduttore romano, adottato negli ultimi anni dai milanesi. E tra tutti gli inserti televisivi dedicati a Funari (da segnalare questo estratto di Enrico Lucci da le Iene, http://it.youtube.com/watch?v=L67X0H3O7Cc), quello che più mi ha fatto piacere rivedere è stato senza dubbio l'intervento-testamento a il senso della vita su Canale 5 del 15 dicembre 2005, ospite di Paolo Bonolis.
Tutta la puntata era stata occupata, in modo assolutamente stupefacente, da una presenza. Quella di un uomo-tv che non si vedeva da anni, relegato com’era in trasmissioni di reti minori (Odeon Tv) dopo un’uscita dalla Rai a dir poco, ancora oggi, misteriosa. E che ha dato, a chi ha avuto la fortuna di vedere la trasmissione, una lezione: di onestà, di libertà, di capacità professionali, di decoro, di dignità, di senso della televisione e di intelligenza. E, ammesso che la parola abbia ancora un senso nella Tv di oggi (compresa quella di Bonolis), di umanità. Gianfranco Funari, appunto. È stato un personaggio televisivo importante (lo dico per i più giovani), titolare di trasmissioni di discussione, anche di politica, prima a TeleMontecarlo (allora c’era), poi alla Rai. Di solito lo si definiva un populista, o anche un capopopolo. Interrogava in studio politici e similari senza infingimenti, senza inchini, senza le mellifluità e le ruffianerie oggi così comuni e indecenti. Non stava né da una parte né da un’altra. Non aveva scritto in fronte il partito di riferimento, come oggi. Era iracondo, magari esagerato nel porsi dalla parte della "gente comune", magari un po’ retorico. Usava il mezzo televisivo in modo rivoluzionario: da lui hanno imparato tutti (è stato il primo a passeggiare in studio, a fare le pause, ad andare verso la telecamera fino a farsi riprendere in primissimo piano, per sottolineare un concetto: Bonolis lo fa regolarmente, adesso). Non si sa perché, a un certo punto venne messo alla porta. Sparì. Siccome non era titolare di tessere, o almeno non le esibiva, non ci fu uno, e dico uno, che protestò. Nessuno gli propose un seggio in Europa né una presidenza regionale. Sparito. Se si pensa a quello che accade nell’Italiaccia di oggi, è incredibile. Con Bonolis, come poche volte misurato (va detto a suo onore), Funari ha parlato di tutto, si è arrabbiato, si è commosso. Ha mostrato, addirittura con una maggiore abilità di quanto non facesse una volta, come si è grandi in televisione: alternando tenerezze a ruvidità, parlando di sé e mostrandosi, e qualche volta scoprendosi, ma sempre con senso della misura; ed esagerando, anche platealmente, quando l’argomento lo richiedeva, con un dosaggio da meraviglioso padrone del mezzo. Ha parlato anche con il corpo, muovendosi, agitando le mani, giocando con l’elegante bastone che usava per camminare. È stato un eccezionale istrione, nel senso migliore del termine. A un certo punto si è avuta l’impressione, netta, che Bonolis lo guardasse ammirato: lo ha lasciato dire a volontà, ha capito (è stato bravo) che la trasmissione si giocava su di lui come un mattatore, non lo ha mai interrotto, gli ha fatto da spalla. Funari era un fiume in piena, ma guidato da un senso del pubblico e della "presenza" a se stesso che raramente è stato dato di vedere in televisione. Non si è parlato addosso, è stato ruvido e leggero, elegante e popolare. È l’unico in cui la concessione, frequente, alla parlata romanesca non è fine a se stessa, ma una scelta espressiva, addirittura raffinata. È stato strepitoso. Viene da chiedersi come abbia fatto la Rai, in tanti anni di ostruzionismo televisivo, a privarsi sciaguratamente di uno così: il più bravo di tutti. Onestamente, in tutta la mia esperienza di spettatore televisivo, mai mi era capitato di guardare qualcuno in televisione con la voglia di fargli un applauso. Ieri sera l'ho rifatto (come in quel 15 dicembre 2005) proprio per Gianfranco, per l'ultimo saluto affettuoso. E in cuor mio spero tanto che, quando arriverà in paradiso, qualcuno (senza che lui lo chieda) gli dia la due, in primissimo piano, per continuare il suo show.

una seconda possibilità




Sono rimasto molto colpito dalla lettura, stamani, dell'intervista di Omar Favaro (uno dei due autori, insieme a Erika De Nardo, della strage di Novi Ligure del 21 febbraio 2001) raccolta da Giuseppe Legato e pubblicata su La Stampa di Torino con il titolo "I giudici mi devono trovare il lavoro". Leggendo l'intervista (che vi riproporrò più avanti) e immaginando di trovarmi al posto del giornalista lì, davanti a questo ventiquattrenne con un duplice efferato omicidio sulle spalle, ho avuto la sensazione che Omar stesse facendo un atto di contrizione, legato ad un suo probabile pentimento per il delitto commesso, unendolo ad una naturale richiesta di riscatto personale e di riabilitazione sociale, con la conseguente capacità di potersi reinserire nel corpo ferito della società che a suo tempo lo aveva espulso e condannato. Prima di rileggere l'intervista è d'uopo rinfrescarci la memoria ripercorrendo quei tragici momenti di sette anni e mezzo fa.
A Novi Ligure (Alessandria) sono da poco passate le 20.30 quando una ragazzina urlante, in preda al panico, esce di corsa dalla villetta di via D’Acquisto 12, nel quartiere periferico di Lodolino. A chi la soccorre, la ragazza, Erika De Nardo, 16 anni, racconta tra le lacrime che due uomini, probabilmente degli albanesi, penetrati nella villetta hanno massacrato a coltellate la madre ed il fratellino, mentre lei, dopo una colluttazione con uno degli assassini, è riuscita miracolosamente a fuggire. Poco dopo Erika chiama con il cellulare il suo fidanzatino, Omar Mauro Favaro, 17 anni, che la raggiunge immediatamente.
48 ore appena e il racconto di Erika si disfa come fosse un castello di carte. Troppe le contraddizioni, troppe le tracce sulla scena del crimine che non combaciano con la versione fornita dalla giovane. Lasciati soli in una stanza della caserma dei carabinieri dove i due giovani sono stati a lungo interrogati, scatta la trappola. I loro discorsi vengono intercettati e registrati.
Nella serata del 23 febbraio i due ragazzi vengono messi in stato di fermo su ordine del procuratore di Alessandria, Carlo Carlesi. Sono loro gli assassini di Susy Cassini, 45 anni e di Gianluca De Nardo, 12, madre e fratello di Erika. Lei è l’assassina, lui ha ampiamente collaborato al duplice omicidio, più che un semplice delitto un vero massacro.
Ma perché Erika e Omar hanno ucciso? Quale il movente che può spingere due adolescenti ad una furia tanto selvaggia? Perché Erika odiava sua madre e suo fratello a tal punto da massacrarli? Come ha potuto una ragazzina, all’apparenza timida e mingherlina, di appena 16 anni, convincere il suo ragazzo ad uccidere?
Capire da cosa origini tanto odio, specie nella mente di un giovanissimo, è impossibile. Si è detto e scritto che Erika si sentiva troppo controllata e bloccata nei suoi movimenti dalla severità della madre che non assecondava il suo legame con Omar. Ma si è anche detto e scritto che Erika avesse intenzione di uccidere anche suo padre, Francesco De Nardo, 43 anni.
Forse la solitudine, forse rancori repressi ed ingigantiti nella personalità disturbata di due minori, forse una rabbia sproporzionata - per noi adulti - è lievitata a tal punto da scatenarsi in una violenza travolgente e sanguinaria. Forse. Fatto sta che Erika De Nardo ed Omar Mauro Favaro, in tre gradi di giudizio sono stati sempre condannati alla stessa pena: 16 anni per lei, 14 per lui. E questa è l'odierna intervista di Omar al quotidiano torinese.
Parla dal carcere in cui è detenuto da quando è diventato maggiorenne. Casa circondariale di Quarto, provincia di Asti. Non è più un adolescente nascosto da un giubbotto blu ai flash dei fotografi. E’ un ragazzo di corporatura robusta, barba di qualche giorno, ma curata. Capelli lunghi, castano chiari, occhi verdi. «Eccomi qua. Cercavate me?», chiede al consigliere regionale del Pd Angelo Auddino che ha visitato il carcere. Esce dalla cella che condivide con un coetaneo prossimo alla scarcerazione: 12 metri quadri, un letto a castello, colori accesi – le inferriate alla porta e alle finestre sono tinte di giallo – un fornellino da campeggio per cucinare i pasti, un comodino con un televisore 14 pollici per sentirsi ancora attaccati al mondo esterno dal quale è uscito quella sera del 21 febbraio del 2001 quando - assieme ad Erika - uccise la madre e il fratellino della ragazza con cento coltellate. Mancano un anno e otto mesi. «Poi sarò fuori e mi riprendo la vita». Maglietta gialla e jeans chiari, scarpe da tennis e sguardo fisso. «Ditemi, prego». Allora Omar. Partiamo da qui. Come si trova in carcere? «Mi sono trovato bene fin da subito. Tutti – dal direttore ai secondini – mi hanno trattato come speravo. Non mi hanno fatto mancare nulla. Posso dire di aver goduto di tutti i privilegi possibili di un carcere». Per esempio? «Ospitalità innanzitutto. Cordialità. Mi sono sentito protetto fin dall’ arrivo. Protetto, non viziato». Se lo aspettava? «Direi che lo speravo. Quando sono arrivato qui dal Ferrante Aporti di Torino avevo paura che mi succedesse qualcosa, che gli altri detenuti mi prendessero di mira. So benissimo che la mia storia la conoscono tutti. Sarebbe stato facile diventare un bersaglio. Non è andata cosi». Dice di aver goduto di tutti i privilegi. Eppure Erika è uscita dal carcere più di una volta. Lei invece non hai avuto permessi. Invidioso? «Di Erika non mi importa nulla. E’ da tempo che ho deciso di pensare soltanto a me stesso, al mio percorso. E’ da tempo che non misuro la mia vita in funzione della sua. Qui dentro ho capito che tipo di errore abbia fatto. Lo so, ho combinato una cosa mostruosa. Ma so anche che ho pagato e che adesso voglio uscire per riscattarmi. Ora mi sento una persona nuova, migliore». Deve essere stata una strada difficile. O no?«Questi anni di prigionia, mi riscattano per il futuro, non per il passato. Ma era giusto che pagassi. Chi sbaglia non può farla franca. E’ la prima cosa di cui mi sono reso conto». Si è sentito solo in carcere? «Momenti difficili ce ne sono stati, non posso nasconderlo. Mi hanno aiutato molto i miei genitori». La vengono a trovare spesso? «Non mi hanno abbandonato, non mi hanno lasciato solo mai. E’ guardando loro e tutto l’amore che mi danno che riesco a fare progetti per il futuro. Ho tante idee per la mia seconda vita». Ecco, che cosa vuole diventare Omar da grande? «Per adesso riorganizzo l’archivio della biblioteca del carcere, ma in questi anni ho studiato. Mi sono diplomato in informatica. Quello che mi hanno insegnato mi servirà quando sarà libero». Ha paura di non farcela una volta fuori da qui? «Paura no. Ma ho bisogno di aiuto. Gli stessi giudici che mi hanno giustamente condannato mi devono aiutare a riscattarmi e a trovare lavoro. E’ a loro che mi rivolgo». Si spieghi meglio... «Voglio che non mi abbandonino. E’ facile, dopo quello che ho combinato, essere bollati a vita come assassini. E io non voglio che vada a finire cosi. Non voglio che la gente mi releghi in un angolo con un solo sguardo. Voglio riprendermi la mia vita senza subire l’ombra di quella che mi sono lasciato alle spalle. Senza essere odiato né compatito». Eppure quel massacro non ha ancora un movente. Ci pensa ancora? «Mi chiedete perché l’ho fatto. E io me l’aspettavo. Questa domanda me l’hanno posta in molti, ma ancora oggi non trovo una risposta. Ci penso, ma non so spiegarmi che cosa sia scattato. Adesso anche i ricordi cominciano a sfuocarsi». Mancano un anno e otto mesi. Dovrà pazientare ancora. «Non c’è problema. Continuerò a contare i giorni che mi separano dalla libertà. Voglio un'altra occasione. Credo di essermela guadagnata. Solo io, da subito, ho detto la verità su quella maledetta sera».

sabato 12 luglio 2008

la Santanchè non la dà più




La notizia merita la giusta attenzione. Daniela Santanchè, ex candidata premier per La Destra alle ultime elezioni politiche di aprile (famosa per la sua uscita nei confronti di Berlusconi "tanto non gliela do!") è da più di un anno che non la dà a nessuno. «Sono felicemente casta da quando non ho più un legame sentimentale. La castità proprio non mi pesa». Questa la sorprendente confessione della Santanchè affidata ad un'intervista a Novella 2000 in edicola. Niente vita sessuale dunque per la leader de La Destra, single da oltre un anno, da quando Canio Mazzaro, padre del figlio 12enne della Santanchè, si è legato a Rita Rusic. «Sarò antica - dice Daniela-, ma mio figlio deve essere certo che sua madre ha avuto solo suo padre al fianco, e poi basta. Non mi piacciono le famiglie allargate. Come potrei portarmi in casa un uomo, e poi farlo trovare lì, tra il caffè e la brioche del mattino? L’idea che una donna senza un uomo sia un’insoddisfatta - ci tiene a precisare inoltre - è una baggianata: io sono soddisfatta del mio essere madre, imprenditrice e politica. Di questi tempi un po’ di castità farebbe bene a tutti...». (Forse una sorta di subliminale consiglio al presidente del Consiglio...). L'estate di Daniela Santanchè, spiega la diretta interessata, sarà dunque tutta relax e famiglia, un'estate completamente dedicata al figlio, alla scrittura di un intervento politico e alla casa. Senza uomini.
«Sfatiamo un mito - ammette la Santanchè - non sono una abbordabile, anzi. E infatti, da ragazza sono stata poco corteggiata, perché mi sono sempre sentita preziosa, unica. E gli uomini allora, come oggi, stanno molto attenti». Lo scorso aprile a Daniela Santanchè scappò, riferito a Berlusconi, un «tanto non gliela do». Ora che la cronaca porta nuovamente alla ribalta le intercettazioni che riguardano il premier e Agostino Saccà la Santanchè dice che «le storie da grande fratello non la appassionano» e che Berlusconi con lei è sempre stato "un signore gentile, rispettoso, un interlocutore intelligente. Del resto non poteva essere diversamente. Gli uomini sanno con chi possono concedersi certe cose e con chi no. Mi spiace ammetterlo - aggiunge - ma l’orizzontalità è più colpa delle donne che degli uomini. Per me parla la mia carriera politica". Anche la genuflessione, però, mi dà l'idea che sia più colpa (o predisposizione, fate un pò voi) della voglia di arrivismo (e non solo di quello...) di alcune donne. Anche delle parlamentari, per esempio.