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mercoledì 30 aprile 2008

Schifani è un bravo ragazzo...


Ieri mattina si è celebrato liturgicamente l'inizio della XVI legislatura della Repubblica Italiana, con l'elezione del presidente del Senato (seconda carica istituzionale) nella persona di Renato Giuseppe Schifani, 58enne palermitano dal 1996 al fianco di Berlusconi anche come avvocato (specializzato in civile e amministrativo), eletto al primo scrutinio con 4 voti in più rispetto al computo della maggioranza. Vorrei tralasciare il discorsetto di prammatica pieno di buone intenzioni dell'ex capogruppo al Senato di Forza Italia, per soffermarmi su alcune notiziuole riguardanti il bravo Schifani, risalenti a qualche anno fa. La pulce nell'orecchio me l'aveva messa ieri un articolo di El Pais, in particolar modo un trafiletto intitolato "Un siciliano incondicional" (http://www.elpais.com/articulo/internacional/Schifani/collaborador/Berlusconi/nuevo/presidente/Senado/italiano/elpepuint/20080429elpepuint_17/Tes). Questo scritto mi ha fatto cercare qualche notizia sull'archivio del mio settimanale preferito (L'espresso) e non ci ho messo molto a trovare qualche cosa di poco edificante sul neo presidente del Senato. Ve lo voglio riproporre (è un articolo firmato a quattro mani da Franco Giustolisi e Marco Lillo) anche per farvi notare come gli uomini ombra del cavaliere (qui si parla anche di La Loggia, Miccichè e Lombardo) abbiano sempre un certo pedigree doc, indispensabile per stare al fianco di sua emittenza (soprattutto se si proviene dal collegio elettorale di Altofonte - Corleone...). Buona lettura cari amici.
Quando, dopo una settimana di nottate, blitz e tranelli ha portato a casa l'approvazione della legge sul legittimo sospetto, Renato Schifani ha sottolineato con il consueto senso delle istituzioni la sua vittoria sull'Ulivo: «Li abbiamo fregati». Il capo dei senatori forzisti è fatto così. «È la mia chiarezza che dà fastidio alla sinistra», ha detto a un settimanale che gli ha dedicato un editoriale lodando «lo stile Schifani». Questo avvocato di 52 anni, nonostante il riporto e gli occhiali da archivista, è l'uomo prescelto da Silvio Berlusconi come volto ufficiale di Forza Italia. E lui lo ripaga come può. In un articolo sul "Giornale di Sicilia" dal titolo "Cavour e il conflitto di interessi" afferma che anche lo statista piemontese era «in potenziale macroscopico conflitto di interessi perché aveva il giornale "Il Risorgimento", partecipazioni bancarie, grandi proprietà terriere e un'intensa attività affaristica». Proprio come Berlusconi, insomma, eppure nessuno gli disse nulla. Peccato che, come scrive Rosario Romeo a pagina 451 della sua biografia, Cavour appena diventò ministro «decise in primo luogo di liquidare gli affari nei quali era stato attivo fino ad allora». Ma Schifani per amore del capo è disposto a sfidare anche il ridicolo. Come quando si fa riprendere in tv accanto al santino del leader neanche fosse Padre Pio. Avvocato civilista e amministrativista, 52 anni, sposato e padre di due figli, amante delle isole Egadi, è stato eletto nel collegio di Corleone, cuore di quella Sicilia che ha dato il cento per cento degli eletti a Forza Italia. Per descrivere l'eroe del legittimo sospetto, l'uomo che ha scavato nottetempo la via di fuga dal processo milanese per Berlusconi e Previti, si potrebbe partire dalle sue radici democristiane. Ma applicando alla lettera il suo credo, «non bisogna usare il politichese ma parlare con serenità il linguaggio dell'uomo comune», sarà meglio partire da una constatazione: il capo dei senatori di Forza Italia è stato socio di affari (leciti) con presunti usurai e mafiosi.
Sua eccellenza Filippo Mancuso, solitamente bene informato, ha definito così il suo ex compagno di partito: «Un avvocato del foro di Palermo specializzato in recupero crediti». Schifani gli ha risposto con una lettera in cui difende la sua «onesta e onorata carriera» e nega di avere mai svolto una simile attività. Negli archivi della Camera di commercio di Palermo risulta però una società, oggi inattiva, costituita nel 1992 da Schifani con Antonio Mengano e Antonino Garofalo: la Gms. L'avvocato Antonino Garofalo (socio accomandante come Schifani) è stato arrestato nel 1997 e poi rinviato a giudizio per usura ed estorsione nell'ambito di indagini condotte dal sostituto Gaetano Paci della Procura di Palermo. L'ex socio di Schifani è ritenuto il capo di un'organizzazione che prestava denaro nella zona di Caccamo chiedendo interessi del 240 per cento. Schifani non è stato coinvolto nelle indagini ma certo non deve essere piacevole scoprire di essere stato socio con un presunto usuraio in un'impresa che come oggetto sociale non disdegnava: «L'attività esattoriale per conto terzi di recupero crediti e l'attività di assistenza nell'istruttoria delle pratiche di finanziamento...».
Schifani è stato sempre sfortunato nella scelta dei compagni delle sue imprese. In un rapporto dei carabinieri del nucleo di Palermo, di cui "L'Espresso" è in grado di rivelare i contenuti, si ricostruisce la storia di un'altra strana società di cui il capogruppo di Forza Italia è stato socio e amministratore per poco più di un anno. Si chiama Sicula Brokers, fu istituita nel 1979 e oggi ha cambiato compagine azionaria. Tra i soci fondatori, accanto a un'assicurazione del nord, c'erano Renato Schifani e il ministro degli Affari regionali Enrico La Loggia, nonché soggetti come Benny D'Agostino, Giuseppe Lombardo e Nino Mandalà. Nomi che a Palermo indicano quella zona grigia in cui impresa, politica e mafia si confondono. Benny D'agostino è un imprenditore condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e, negli anni in cui era socio di Schifani e La Loggia, frequentava il gotha di Cosa Nostra. Lo ha ammesso lui stesso al processo Andreotti quando ha raccontato un viaggio memorabile sulla sua Ferrari da Napoli a Roma assieme a Michele Greco, il papa della mafia.
Giuseppe Lombardo invece è stato amministratore delle società dei cugini Ignazio e Nino Salvo, i famosi esattori di Cosa Nostra arrestati da Falcone nel lontano 1984 e condannati in qualità di capimafia della famiglia di Salemi. Nino Mandalà, infine, è stato arrestato nel 1998 ed è attualmente sotto processo per mafia a Palermo. Questo ex socio di Schifani e La Loggia era il presidente del circolo di Forza Italia di Villabate, un paese vicino a Palermo e proprio di politica parlava nel 1998 con il suo amico Simone Castello, colonnello del boss Bernardo Provenzano mentre a sua insaputa i carabinieri lo intercettavano. Mandalà riferiva a Castello l'esito di un burrascoso incontro con il ministro Enrico La Loggia, allora capo dei senatori di Forza Italia. Mandalà era infuriato per non avere ricevuto una telefonata di solidarietà dopo l'arresto del figlio (poi scagionato per un omicidio di mafia). E così raccontava di avere chiuso il suo colloquio con La Loggia: «Siccome io sono mafioso ed è mafioso anche tuo padre che io me lo ricordo quando con lui andavo a cercargli i voti da Turiddu Malta che era il capomafia di Vallelunga. Lo posso sempre dire che tuo padre era mafioso. A quel punto lui si è messo a piangere». La Loggia ha ammesso l'incontro ma ne ha raccontato una versione ben diversa. E anche Mandalà al processo ha parlato di millanteria. Nella stessa conversazione intercettata Mandalà parlava di Schifani in questi termini: «Era esperto a 54 milioni all'anno, qua al comune di Villabate, che me lo ha mandato il senatore La Loggia».
Schifani è stato sentito dalla Procura e, senza falsa modestia ha spiegato con la sua bravura la consulenza e lo stipendio: «Il mio studio è uno dei più accreditati in campo urbanistico in Sicilia». Ma per La Loggia sotto sotto c'era una raccomandazione: «Parlai di Schifani con Gianfranco Micciché (coordinatore di Forza Italia in Sicilia) e dissi: sta sprecando un sacco di tempo e quindi avrà dei mancati guadagni facendo politica. Vivendo lui della professione di avvocato dico se fosse possibile fargli trovare una consulenza. È un modo per dirgli grazie. E allora parlammo con il sindaco Navetta». Il sindaco Navetta è il nipote di Mandalà e il suo comune è stato sciolto per mafia nel 1998.
Il capogruppo di Forza Italia è stato sfortunato anche nella scelta dei suoi assistiti. Proprio un suo ex cliente recentemente ne ha fatto il nome in tribunale. La scena è questa: Innocenzo Lo Sicco, un mafioso pentito, il 26 gennaio del 2000 entra in manette in aula a Palermo e viene interrogato sulla vicenda di un palazzo molto noto in città, quello di Piazza Leoni. Le sue parole fanno balenare pesanti sospetti: «L'avvocato Schifani ebbe a dire a me, suo cliente, che aveva fatto tantissimo ed era riuscito a salvare il palazzo di Piazza Leoni facendolo entrare in sanatoria durante il governo Berlusconi perché, così mi disse, fecero una sanatoria e lui era riuscito a farla pennellare sull'esigenza di quegli edifici. Era soddisfattissimo. Perché lo diceva a me? Ma perché io lo avevo messo a conoscenza di qual era la situazione, l'iter, le modalità del rilascio della concessione...».
La Procura dopo aver analizzato le parole del pentito non ha aperto alcun fascicolo per la genericità del racconto. Comunque la storia di questo palazzo, scoperta dal giornalista de "la Repubblica" Enrico Bellavia, è tutta da raccontare. Comincia alla fine degli anni Ottanta quando Pietro Lo Sicco, imprenditore finanziato dalla mafia e zio di Innocenzo, mette gli occhi su un terreno a due passi dal parco della Favorita, una delle zone più pregiate di Palermo. Lo Sicco vuole costruirci un palazzo di undici piani ma prima bisogna eliminare due casette basse che appartengono a due sorelle sarde, Savina e Maria Rosa Pilliu, che non vogliono svendere. Pietro Lo Sicco le minaccia e le sorelle si rivolgono alla polizia. Ma la mafia è più lesta della legge: Lo Sicco ottiene la concessione edilizia grazie a una mazzetta di 25 milioni di lire e comincia ad abbattere l'appartamento a fianco. Quando le sorelle vedono avvicinarsi il bulldozer cominciano ad arrivare nel loro negozio i fusti di cemento. Il messaggio è chiaro: finirete lì dentro. Lo Sicco smentisce di essere il mandante ma la Procura offre alle Pilliu il programma di protezione. Oggi le sorelle sono un simbolo dell'antimafia: vivono proprio nel palazzo costruito da Lo Sicco e confiscato dallo Stato. Il costruttore è stato condannato a 2 anni e otto mesi per truffa e corruzione a cui si sono aggiunti sette anni per mafia.
All'inaugurazione del nuovo negozio costruito grazie al fondo antiracket, il senatore Schifani non c'era. Era dall'altra parte in questa vicenda. Il suo studio ha difeso l'impresa Lo Sicco davanti al Tar. Il pentito Innocenzo Lo Sicco, ha raccontato che lui stesso accompagnava l'avvocato Schifani negli uffici per seguire la pratica. Certo all'epoca l'imprenditore non era stato inquisito e il senatore non poteva sapere con chi aveva a che fare anche se il genero di Lo Sicco era sparito nel 1991 per lupara bianca. In quegli stessi anni Schifani assisteva anche altri imprenditori che sono incappati nelle confische per mafia, come Domenico Federico, prestanome di Giovanni Bontate, fratello del vecchio capo della cupola Stefano. Un settore quello delle confische che il senatore non ha dimenticato in Parlamento. Quando ha presentato un progetto di legge (il numero 600) per modificare la legge sulle confische e sui sequestri...

martedì 29 aprile 2008

un dolore lancinante


La vittoria di Gianni Alemanno nel ballottaggio alla carica di sindaco di Roma ha provocato in chi scrive una fitta al cuore, un dolore lancinante, una sensazione fisica di intensa sofferenza. Non prevista. E non gradita. Purtroppo l'inimmaginabile si è avverato. Lo scenario apocalittico si è palesato. I timori della vigilia (stoltamente sottovalutati) si sono trasformati in crudeltà del giorno dopo. L'onda lunga berlusconiana ha spazzato anche l'ultimo argine di sinistra, ha costretto alla resa gli ultimi "barricaderi" della Roma piaciona e salottiera, quella che in nome del cinema e della cultura, dell'ospitalità e del buonismo, aveva per quindici anni dato la sensazione dell'isola felice. Di un'oasi di legittimità e di governabilità al di fuori degli schemi politici precostituiti o sbandierati come icone dal partito di plastica del cavaliere. Da oggi la Città Eterna cambia faccia. E forse cambia anche il modo di porsi agli occhi del mondo. I saluti romani con il braccio destro teso, i cori da stadio del "chi non salta comunista è è", i clacson rumorosi e spaccatimpani dei tassisti dal cuore nero, saranno da oggi le icone e le caratterizzazioni riconoscibili di una Roma meno solare e più nera, più crepuscolare. Una Roma meno festaiola e più "squadrata", meno cinematografica e più Istituto Luce (o Duce). Insomma una Roma molto diversa rispetto a quella che il mondo ha ammirato in questi ultimi tre lustri, anche se il neo sindaco afferma che nulla cambierà, che sarà il sindaco di tutti, che sarà una città più sicura e via dicendo. Una città che difficilmente potrà continuare a piacermi se, come temo, lo stravolgimento e la cura di Alemanno e dei suoi camerati porterà la Città Eterna a indurirsi nei confronti dei non graditi (magari con la pelle dal colore diverso) o dei meno abbienti (magari con un reddito insufficiente per soggiornare nella Capitale). Una serie di prospettive non certo gradevoli, almeno a mio modo di vedere, che si preparano per i prossimi anni, per questa svolta storica inaspettata e retrodatata, per un ritorno alla cultura del Littorio e delle camicie nere, per un'inversione di tendenza che destinerà alla Storia una Roma non più piaciona, ma una Roma dal volto duro e mascellare che farà più paura a quanti erano abituati a vederla specchiarsi nel Fontanone...

domenica 27 aprile 2008

Roma non ama la camicia nera




Il titolo del mio post odierno si riferisce inevitabilmente al ballottaggio che si svolge oggi e domani nella Capitale per l'elezione della carica di primo cittadino, tra Francesco Rutelli e Gianni Alemanno, che due domeniche fa avevano ottenuto rispettivamente il 45,7% e il 40,7% dei voti. Ho scelto un titolo che non lascia adito a dubbi di sorta su come ho votato e su come spero voterà la maggioranza dei Romani (voglio usare la erre maiuscola per sottolineare oggi la valenza e l'orgoglio di essere tali, anche per chi come il sottoscritto non è nato a Roma ma ci vive da quando aveva un anno e che quindi si sente capitolino a tutti gli effetti), consentendo a Rutelli di continuare quel lavoro iniziato così bene nel lontano dicembre del 1993, quando sconfiggendo Gianfranco Fini (anche allora la camicia nera non andò di moda...) divenne sindaco di Roma, confermato nel 1997 (quando sconfisse Pierluigi Borghini) per poi passare il testimone a Walter Veltroni. La prima motivazione che mi ha convinto a dare oggi il mio voto a Rutelli (prescindendo dal mio orientamento politico) è stata quella inerente la storia personale e la radice culturale dell'ex sindaco, raffrontata con il candidato in camicia nera. Francesco Rutelli è nato a Roma, in via Guattani (una traversa di via Nomentana) nel 1954. Attualmente vive all'EUR, nella casa progettata e costruita da suo padre nel 1966, con sua moglie Barbara Palombelli, i suoi quattro figli e due cani. La sua famiglia è a Roma dalla fine dell'800. I suoi nonni paterni, Sesto e Graziella, erano figli rispettivamente di Mario Rutelli e di Ottavio Marini. Mario Rutelli, nato a Palermo da Giovanni (la cui impresa di costruzioni realizzò tra l'altro il Teatro Massimo), scultore, è autore della famosa Fontana delle Najadi a Piazza Esedra, dell'Anita Garibaldi al Gianicolo e di diverse opere conservate nella Galleria Nazionale d'Arte Moderna. Questo piccolo accenno solo per far capire a chi legge in che mani può continuare a rimanere Roma ed i suoi monumenti, la sua storia millenaria, il suo fascino intramontabile. Affidare (malauguratamente) viceversa la Città Eterna nelle mani alquanto callose (da ex responsabile dell'Agricoltura) e alquanto pietrose (da ex picchiatore fascista) di Gianni Alemanno (che tra parentesi romano non è essendo nato a Bari), mi sembrerebbe un anacronistico ritorno ai tempi del Ventennio, con tutto ciò che ne potrebbe conseguire, alla faccia della tolleranza e della presunta sicurezza invocata dall'ex segretario del Fronte della Gioventù durante tutta la campagna elettorale. La seconda motivazione alla base della mia preferenza per Rutelli è quella relativa ai risultati ottenuti dall'ex sindaco di Roma durante il suo settennato, compresi i lavori e le opere messe in atto nel periodo a ridosso del Giubileo del 2000 ed il programma elettorale che ha fatto conoscere a tutti i Romani (http://www.rutelliroma.it/adon/files/150righe.pdf). Non sono chiacchiere queste, sono dati di fatto, certi ed inoppugnabili, che la propaganda rozza e dozzinale di Alemanno (spalleggiato dai suoi compari Fini e Berlusconi) non è riuscita minimamente a scalfire, anzi. Basterebbe riascoltarsi gli interventi televisivi dei due candidati (martedì a Ballarò, http://www.raiclicktv.it/raiclickpc/secure/stream.srv?id=33310&idCnt=73471&pagina=1&path=RaiClickWeb^Home^Notizie^Archivio+^BALLARO%27#1 e successivamente venerdì a Matrix, http://www.video.mediaset.it/video.html?sito=matrix&data=2008/04/25&id=3048&categoria=servizio&from=matrix) per capire di che pasta è fatto l'uno anzichè l'altro. Basterebbe ascoltare il tono e la sostanza dell'intervento dell'uno a confronto con l'insipienza e la banalità dell'altro. Ma basterebbe anche capire che Roma ama mettersi una bella camicia (bianca) pulita e profumata, magari accompagnata da una bella cravatta rossa, piuttosto che una squallida e becera camicia nera che più nera non si può. No, Roma deve restare così com'è, com'è stata in questi ultimi quindici anni, con tutti i suoi pregi (tanti) e difetti (pochi) che ne caratterizzano, e sempre ne caratterizzanno, il volto, la storia, la beltà, l'unicità. In una parola, Roma deve restare ai Romani.

sabato 26 aprile 2008

la first lady la vede così...




Una volta tanto la moglie del cavaliere esce allo scoperto non per bacchettare il coniuge per questioni di corna o altro, ma semplicente per dire la sua sull'attuale situazione italiana, all'indomani del voto che ha ridato a suo marito il potere e il glamour che aveva perso, inopinatamente, due anni fa. Lo fa concedendo una bella intervista (intitolata "Io, la leghista di casa") a Luca Ubaldeschi, pubblicata su La Stampa di Torino di ieri, conversando di politica e di costume, di società e di nipotini. Non c'è che dire, molto meglio leggere e ascoltare Veronica Lario Berlusconi (seppur su argomenti non da congresso di ricercatori scientifici) piuttosto che le amenità e i cazzeggi istituzionali del suo legittimo (o presunto tale) consorte. Eccovi il testo integrale dell'intervista. Buona lettura.
C'è un filo che unisce Shakespeare ad Arthur Miller, arriva fino a Gioele Dix e per quanto sorprendente possa sembrare si srotola nell'Italia del dopo voto.
Perché per riflettere sul Paese uscito dalle urne Veronica Berlusconi chiede aiuto al teatro, sua grande passione. Walter Veltroni diventa Amleto, il dramma «Morte di un commesso viaggiatore» di Miller lo specchio della crisi economica e lo spettacolo «Tutta colpa di Garibaldi» di Dix l'escamotage per analizzare il successo di Bossi, la vera novità elettorale. «Un risultato straordinario», spiega la moglie del futuro premier, «che impone di affrontare subito le questioni poste dalla Lega e di smetterla di considerare con snobismo o con la puzza sotto il naso i suoi esponenti». Ripete più volte di parlare da cittadina. «Privilegiata, lo so, però sento molto forte la novità che preme sul Paese» e non ha timore di mettere in guardia su quale ritiene essere la vera posta in gioco: «Dobbiamo ammettere che l'Italia non si riconosce più in un valore come l'unità del Paese. Da un punto di vista ideale ci vorrebbe un governo tecnico, con un leader al di sopra degli schieramenti. Ma la realtà è diversa. Dobbiamo ascoltare ciò che chiede la Lega e a mio marito spetta un compito da vero statista: da una parte traghettare le istanze leghiste in progetti concreti e dall'altra dialogare con il Pd per avviare le riforme. Credo che così si ridurrebbe il rischio di una spaccatura dell'Italia».
Veronica Berlusconi leghista. Possiamo dirlo? «Diciamo (e ride, ndr) che sono la componente leghista della famiglia. Ma, come è ovvio, non ho votato Lega».
Che spiegazione dà dell'affermazione del partito di Bossi? «Questo è un Paese stanco e sfiduciato, anche dopo la vittoria di Berlusconi. Le difficoltà economiche sono pesanti, il Nord - un Nord i cui confini si sono allargati verso il Centro - patisce di più a causa di un costo della vita superiore anche del 30% rispetto al Sud. Sceglie la Lega, ma non chiamiamolo voto di protesta. La Lega esprime esigenze concrete, della parte d'Italia più produttiva, che è stanca di fare da traino al Paese e che non trova rappresentanza nella sinistra estrema, nonostante una persona come Bertinotti di cui certo non si può dir male».
La crisi economica è tanto grave? «La nostra realtà assomiglia sempre più alla "Morte di un commesso viaggiatore" di Arthur Miller, a quell'America dove la ricerca del denaro e del benessere sembrava un traguardo facile, ma poi si rivelava un'illusione al punto da spingere il protagonista al suicidio dopo la perdita del lavoro. L'Italia di oggi è così, il rischio del degrado aumenta. Speriamo di non dover contare troppi suicidi eroici».
Un paragone molto duro, non crede?«Sì, mi rendo conto, ma la crisi è davvero seria. D'altronde anche mio marito ha fatto una campagna elettorale che si poteva intitolare "Attenzione a sognare". Non ha voluto creare illusioni».
Come si può uscire da questa situazione? «Gli italiani chiedono il federalismo. Cominciamo da quello fiscale, da interventi diversi a seconda delle Regioni. Il governo rinunci alle idee imprenditoriali, lasciamo riposare in un cassetto il progetto del Ponte sullo Stretto di Messina. Per i grandi progetti potrà giocare sulla politica estera, che anche in passato è stata una carta vincente per tenere unita la maggioranza».
Ma non aumenterà il divario tra Nord e Sud? «Già oggi il Paese si muove a velocità diverse, prendiamone atto, c'è un'unità artificiale. Consiglio di assistere a "Tutta colpa di Garibaldi", uno spettacolo in cui Gioele Dix, con intelligenza, dimostra come l'unificazione dell'Italia sia stata una forzatura. Il Paese non è mai stato pronto né adatto per essere uno stato unitario e non è mai maturato a sufficienza per diventarlo».
Signora Berlusconi, evoca la secessione? «No, dico però che c'è un Nord che vuole rompere gli argini e bisogna gestire le richieste delle Lega senza guardare con folclore ai suoi rappresentanti. Certo che Tremonti è un fiore all'occhiello del Paese, ma se la gente vota Calderoli, significa che impone una sua credibilità. Sarà compito della Lega fare ora un salto di qualità, dimostrare che sa realizzare le sue idee».
Quando il Pd muoveva i primi passi, Walter Veltroni disse che gli sarebbe piaciuto un contributo da parte sua. C'è stato un seguito a quelle parole? «No. Ho pensato che quella frase fosse sì una forma di stima, ma anche un messaggio che passava sopra la mia testa».
Come valuta l'esperienza del Partito democratico? «Veltroni mi ricorda Amleto, quando dice "Ah Dio, potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e sentirmi re di uno spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni". Poteva rimanere nel suo guscio, ma ha fatto il sogno di cambiare il suo schieramento. Non è il killer della sinistra, ha capito che la situazione era già compromessa, senza Pd sarebbe andata ancora peggio. E' stato bravo, ma ora temo che possa restare vittima di un complotto per sostituirlo. Però chi potrebbe andare al suo posto? Avrebbero bisogno di un Berlusconi. Credo che il Pd dovrebbe evitare guerre interne, non aiutano a capire che cosa pensa l'Italia. Come forse non l'hanno capito i giornali».
Lo dice da lettrice o da editrice del «Foglio»? «Tanti articoli che ho letto prima del voto sul recupero di Veltroni indicano che probabilmente i giornali non intercettano i sentimenti prevalenti nel Paese. E mi lascia perplessa anche un altro aspetto: con il centrodestra che è ampia maggioranza, perché "Il Giornale" non vende molte più copie? Gli italiani hanno un pensiero più libero e meno facilmente influenzabile di quanto si creda e i giornali dovrebbero imparare ad ascoltarli di più».
Lei rimarrà una first lady nell'ombra? «Impegni di Stato a parte, non ho mai fatto la first lady e continuerò a non farla. Non è un ruolo che si addice al Paese. L'Italia non è come gli Stati Uniti in cui si assiste a scene agghiaccianti come quella del governatore di New York che si presenta in tv a confessare l'adulterio con la moglie a fianco, come fosse una garante del pentimento. E poi, in Europa, con Sarkozy che sposa Carla Bruni, con la storia di Putin e della ginnasta, la politica ha rotto gli schemi della famiglia tradizionale. Lasciamo la first lady in cantina».
Lei ha citato Sarkozy. Che ne pensa dell'ex moglie Cecilia che gli è rimasta al fianco per le elezioni anche se i segni della crisi erano già evidenti? «E' stata una gran bella operazione di marketing, per me le vere rappresentanti del Paese sono le donne che lavorano nei partiti. Mio marito può portare sotto i riflettori della politica la Brambilla, mentre la moglie resta tranquillamente nell'ombra».
Un'altra donna in prima linea: Hillary Clinton. Come la giudica? «Facciamo un discorso emotivo. Se Obama identifica il cambiamento, l'idea di un'America giovane, dove resiste il sogno dell'uomo che riesce a farsi strada da solo, McCain è l'immagine di una nazione vecchiotta e più chiusa in se stessa. Hillary rappresenta una mediazione tra le due istanze. Io la voterei».
Quali donne vedrebbe bene al governo in Italia? «Donne con una storia politica e un peso specifico importanti. Recentemente, con questo clima da Bagaglino, con le battute e le barzellette si è un po' imbastardito il discorso sulla presenza femminile in politica. Un clima che penalizza anche donne capaci come Anna Finocchiaro: è stata sconfitta drasticamente in Sicilia anche perché il Paese guarda le donne con diffidenza. Per dirla con una battuta di Daniela Santanché, le vede orizzontali».
Suona il cellulare, e Veronica Berlusconi lascia i discorsi politici per tuffarsi in quella che chiama «la mia normalità». Organizzare una giornata con il nipotino Alessandro («Adoro fare la nonna») o l'appuntamento per vedere un film con Luigi. E' proprio l'ultimogenito a chiamare: «Luigi è entusiasta di suo padre e della vittoria elettorale. Lui in politica? No, ama troppo la finanza. A meno che - dice sorridendo la moglie del Cavaliere - non diventi un finanziere alla Soros, che fa pure politica. Ma anche per i figli della borghesia italiana oggi non è facile seguire i propri sogni».

Ciarrapico & i milionari nullatenenti




Chissà, forse ieri mattina l'incontro a Palazzo Grazioli tra il cavaliere e l'ex re delle acque minerali è servito a stabilire una strategia difensiva con gli avvocati di fiducia Ghedini e Pecorella (anche se i nomi detti così sembrano quelli di una concessionaria d'auto...). Infatti il neo arruolato nelle fila del PdL, Giuseppe Ciarrapico detto il Ciarra, se la vedrà con i creditori che lo inseguono da svariato tempo e che finalmente, ora che siederà in Parlamento, potranno pignorargli quanto dovuto. Questa è una delle tante storie magistralmente raccontate in una inchiesta di Paolo Biondani dal titolo "Quei milionari nullatenenti" pubblicata su L'espresso di questa settimana e che vi voglio riproporre integralmente. Buona lettura. Lo stavano inseguendo da un ventennio. Una lunga ma inutile caccia al tesoro. Tra residenze di comodo, cavilli procedurali, vecchie bancarotte e nuove aziende che si rivelano fantasmi legali. Ora i creditori di Giuseppe Ciarrapico, sulla carta imprenditore con mille interessi, eppure formalmente nullatenente di fronte alla legge, si preparano a modo loro a festeggiarne l'elezione a senatore. La sua legislatura rischia di aprirsi con un pignoramento a Palazzo Madama: «Siamo già pronti a bloccare il suo stipendio di parlamentare. Finalmente Ciarrapico non potrà più prendere in giro la giustizia». A preannunciare «con la forza dell'esasperazione» questo attacco finale al portafoglio del neo-senatore berlusconiano, sono gli avvocati di una sessantina di vittime del crac dell'Ambrosiano. Da quella storica bancarotta è passato più di un quarto di secolo. Ma fra i 38 condannati, almeno cinque sono riusciti a non risarcire neppure un centestimo. Dichiarandosi nullatenenti. Come Ciarrapico. L'imprenditore è stato più volte indicato, senza contestazioni, come titolare di società editoriali, stabilimenti termali, cliniche private, alberghi, ristoranti e aziende di acque minerali. Lo stesso leader di Forza Italia dichiarò di averlo candidato nella convinzione che fosse «utile perché proprietario di giornali». Errore: anche quei quotidiani figurano intestati ad altri. Lui invece, nonostante i costi della campagna elettorale, continua a non avere nulla da offrire ai creditori. E il suo caso, più che l'eccezione, sembra ormai la regola. Dopo anni di leggi-vergogna (reati aboliti, verbali annientati, prove dimezzate, riforme incostituzionali, nullità a valanga, prescrizioni facili e per finire l'indulto), la giustizia si mostra incapace di far pagare il conto perfino ai condannati con sentenze definitive per reati che hanno fatto storia.
Dal crack Ambrosiano alle bancarotte Cirio e Parmalat, dallo scandalo dei giudici corrotti agli omicidi milionari, in Italia il delitto paga. L'ostruzionismo legale di Ciarrapico fa sensazione, perché riguarda una bancarotta simbolo del passato: un fallimento da 1.193 miliardi di lire del 1982. Dopo l'omicidio di Roberto Calvi, la più grave condanna definitiva ha colpito Licio Gelli, il burattinaio della loggia P2, principale beneficiario della montagna di soldi rubati al Banco. I pm milanesi hanno dimostrato che li aveva nascosti in Svizzera insieme a 250 chili d'oro. Eppure anche lui ne è uscito ricco. Già nel '96 il Nuovo Ambrosiano, pur di riavere il grosso del maltolto, si è rassegnato a lasciare a Gelli 12,5 milioni di franchi svizzeri e le due ville di Villefranche sur Mer, in Costa Azzurra, e di Castiglion Fibocchi, la splendida residenza aretina dove ha scontato la pena. Qui i creditori hanno potuto pignorargli solo gli ultimi lingotti occultati nelle fioriere. Ora i civilisti Cristina Mordiglia, Gianfranco Lenzini e Alberto D'Aguanno, che
rappresentano gli azionisti irriducibili dell'Ambrosiano, stanno reclamando risarcimenti da altri cinque pregiudicati. Ciarrapico è il primo della lista nera. Condannato anche per un'altra bancarotta (Casina Valadier), ha evitato il carcere grazie a due indulti. E continua a sfuggire ai pignoramenti. Nel maggio scorso, come informava "Il Sole 24 Ore", l'ufficiale giudiziario si è presentato nella sua residenza dichiarata, cioè nel capannone accanto alla tipografia di "Ciociaria Oggi", scoprendovi però «una sola stanza con brandina, tavolo, piccolo armadio e comodino». Niente di pignorabile, insomma. Anzi, le parti civili avvertono che «Ciarrapico ha fatto annullare per motivi procedurali perfino quest'ultimo tentativo di esecuzione forzata». Di qui la soluzione finale: bloccare un quinto del suo nuovo reddito di parlamentare. Vent'anni dopo l'Ambrosiano, il primo dei nuovi choc per i risparmiatori italiani è stato il crack della Cirio. Nel novembre 2002 la gestione di Sergio Cragnotti ha mandato in fumo obbligazioni (i famosi bond) per 1.125 milioni di euro. Ma anche l'ex re dei pelati non ha ancora risarcito nessuno. Gli avvocati Nicola Madia e Giuseppe Niccolini, che rappresentano il fallimento (e indirettamente gli oltre 35 mila danneggiati), confermano di non avergli trovato «nulla di pignorabile». Il tribunale civile di Roma, il 5 febbraio, ha condannato Cragnotti a un risarcimento immediato di oltre 300 milioni di euro per l'affare Eurolat: un bidone rifilato alla Parmalat con la presunta regia della Banca di Roma guidata da Cesare Geronzi, che dopo due rinvii a giudizio e una condanna in primo grado per bancarotta è diventato presidente di Mediobanca. Ora proprio il suo gruppo Unicredit (con tutti gli azionisti) rischia di subire il maxi-pignoramento. Gli avvocati del crack, infatti, hanno potuto collegare a Cragnotti solo conti lussemburghesi pieni di bondspazzatura. Eppure basta un clic su Internet per verificare che l'azienda agricola Corte alla Flora, 90 ettari di vigneti doc e oliveti a Montepulciano, continua a essere controllata dalla famiglia Cragnotti: come gestore si presenta il figlio Andrea, che è coimputato di papà. Questa tenuta con maxi-villa, secondo la Procura di Roma, fu comprata da Sergio Cragnotti con almeno 3,5 milioni di euro rubati alla Cirio. In attesa che cominci il primo dei tre gradi di giudizio penale, l'azienda agricola resta intestata alla moglie, Flora Pizzichemi, pure coimputata. Il colmo è che dopo il crack, secondo i pm di Milano, Cragnotti avrebbe tentato di ricomprarsi la Cirio con altri soldi sottratti alla Cirio e nascosti in paradisi fiscali: da 20 a 100 milioni di euro. Un'accusa fermamente respinta dai difensori (ne ha cambiati quattro, tutti di valore) del nullatenente con tenuta. Anche Calisto Tanzi è uno strano nullatenente, con villa e moglie milionaria.
All'ex patron della Parmalat va riconosciuto di aver confessato le sue colpe nella storica bancarotta da 15,5 miliardi di euro, sacrificando subito le società personali, la sua flotta di jet privati, due yacht e una tenuta agricola. La Guardia di finanza gli ha sequestrato altri 816 mila euro su 12 conti italiani, 9,3 milioni in titoli alla Popolare di Lodi, 129 mila dollari alle Isole Cayman, due Balilla e una Range Rover, che Calisto però conserva come «custode». Il problema è che Tanzi e i suoi manager, dal 1990 al 2003, hanno sottratto alle casse della Parmalat l'incredibile cifra di 928 milioni di euro. E altri 1.346 milioni di dollari sono scomparsi in Sudamerica. «Non esiste alcun tesoro di Tanzi, che ha già pagato con tutti i propri beni», insiste il suo avvocato Gianpiero Biancolella. Dopo tre mesi di carcere e sei ai domiciliari, il cavalier Calisto attende in libertà la fine dei processi e ha già ottenuto il primo patteggiamento. A cinque anni dal crack, vive sempre nella villa di famiglia, tra Parma e Collecchio, che le parti civili confermano di «non poter pignorare». Tirando le somme, Tanzi ha risarcito circa due millesimi del buco nero di Parmalat. Continua a vivere in un grande rustico ristrutturato con un vasto giardino. E, a differenza dei risparmiatori, non ha problemi economici: sua moglie, Anita Chiesi, è contitolare di una grossa industria farmaceutica. Cambiando l'ordine dei reati, il prodotto non cambia. Tra i delitti di sangue, il sostituto pg milanese Laura Bertolé Viale, che ottenne le condanne definitive, cita come «scandaloso» il caso Gucci. Ultimo proprietario italiano della grande casa di moda, Maurizio Gucci fu assassinato il 27 marzo 1995 a Milano. Prima di scappare, il killer si trovò di fronte il custode del palazzo, Giuseppe Onorato, 64 anni, che al processo diventò il primo testimone d'accusa. «L'assassino mi ha puntato la pistola a un metro dalla faccia e ha sparato due colpi», ricorda Onorato: «Ho alzato un braccio, d'istinto, e l'osso ha deviato la pallottola che poteva uccidermi. Guardi qui le cicatrici... Ho dovuto operarmi più volte, ma il braccio non è più quello di prima. I medici dicono che devo rassegnarmi a un'invalidità permanente ». Come mandante è stata condannata a 26 anni (ridotti a 23 dall'indulto) Patrizia Reggiani, la moglie separata di Gucci. Nella sentenza il giudice Ferdinando Pincioni dimostra che la signora decise di far uccidere «il padre delle sue figlie» anche per un «movente economico». «La stessa Reggiani non ha negato né il particolare attaccamento ad alcuni beni dell'ex marito, come il panfilo Creole e la villa di Sankt Moritz, né il risentimento e l'esasperazione per la somma che le veniva corrisposta da Maurizio Gucci: 160-170 milioni di lire al mese». Dallo stesso processo il custode Onorato è uscito con l'etichetta di «vittima di un tentato omicidio ». In un paese normale sarebbe diventato ricchissimo. Già nel '98 i giudici gli avevano assegnato una «provvisionale immediata» di 100 milioni di lire. «Ma dopo 13 anni non ho ancora visto un soldo », lamenta Onorato. L'ex signora Gucci non aveva faticato a pagare la banda di killer con 600 milioni prelevati a Montecarlo. Ma dopo la condanna si dichiara «nullatenente». Tutta l'eredità è finita alle figlie, che d'accordo con la nonna materna comunicano ai tribunali di «non avere alcun obbligo di risarcire Onorato », perché questo grava «sulla sola Reggiani». Per rimborsare il custode ferito, sarebbe bastato vendere «un solo armadio » del lussuoso appartamento di corso Venezia dove viveva l'assassina. Ma Onorato non ha potuto pignorare nemmeno quello: «Perfino l'armadio è risultato intestato a una società svizzera», allargano le braccia i suoi civilisti dello studio Pizzocaro. Patrizia Reggiani ha già beneficiato dei primi permessi-premio: 45 giorni all'anno fuori dal carcere, libera di fare shopping nelle vie della moda milanese. E Onorato? «Io e mia moglie continuiamo a vivere con le nostre pensioni: 1.100 euro in due». Tra i 1.408 condannati di Tangentopoli, i maggiori risarcimenti erano arrivati da imprenditori e politici "pentiti": non più di 150 miliardi di lire. «Abbiamo dovuto restituire i soldi a parecchi condannati», testimonia il pm Francesco Greco, ricordando che allora non esisteva la legge 231, che dal 2000 incrimina direttamente le aziende con i loro patrimoni sociali. L'effetto di questa legge è stato un boom dei rimborsi: solo l'inchiesta Bpl-Antonveneta ha portato a confiscare 350 milioni di euro. Ma il principale imputato, l'ex banchiere Gianpiero Fiorani, pur avendo patteggiato una prima condanna a tre anni e tre mesi, ha finora restituito «meno di un centesimo» del suo presunto bottino personale: almeno 45 milioni di euro occultati a Singapore e quasi il doppio tra appartamenti e terreni in Italia. E il suo ex braccio destro, Gianfranco Boni, ha patteggiato due anni e mezzo (azzerati dall'indulto) senza risarcire nulla. Gli eventuali rimborsi, infatti, potrà reclamarli la loro ex banca, alla fine di un processo civile che in media dura otto anni, che salgono a tredici con le esecuzioni immobiliari. L'avvocato Paola Severino, che fu parte civile per l'Eni a Tangentopoli, si chiede: «Quante piccole società o persone fisiche possono permettersi questi tempi e spese di recupero?». Come caso-limite, i pm di Mani pulite citano la sparizione del tesoro di Craxi. Le condanne definitive documentano che sui conti esteri personali di Bettino (non del partito) finirono almeno 60 miliardi di lire. Ma in Italia sono rientrati meno di tre miliardi e 15 chili d'oro. Soldi tuttora sotto sequestro, ma formalmente intestati al suo ultimo tesoriere, Maurizio Raggio. Che ora potrebbe vedersi ridare anche quelli. In un caso analogo, infatti, una recente sentenza della Cassazione ha stabilito che la legge dell'epoca non ammetteva la confisca di somme «equivalenti » alle tangenti. Un verdetto che ha già costretto la Procura a restituire i soldi a due banchieri napoletani che confessarono di essersi fatti corrompere nel '91 dalla Fininvest. Ancora più sconcertante è il bilancio economico delle «più gravi corruzioni giudiziarie della storia d'Italia», secondo la polemica definizione del più onorevole condannato, Cesare Previti. L'ex ministro di Forza Italia e i suoi complici Attilio Pacifico e Giovanni Acampora sono stati riconosciuti colpevoli di aver corrotto il giudice civile di Roma, Vittorio Metta, che nel novembre 1990 regalò la Mondadori a Berlusconi e che due mesi dopo, con un'altra sentenza comprata, obbligò la banca statale Imi a versare 978 miliardi di lire agli eredi del petroliere andreottiano Nino Rovelli. Nonostante le condanne definitive, i tre avvocati corruttori e il giudice corrotto non hanno ancora risarcito i danneggiati. Acampora, secondo le parti civili, non ha «né beni né redditi pignorabili». Pacifico si è visto sequestrare 35 milioni di franchi svizzeri a Vaduz, ma i giudici locali hanno escluso che i soldi del colpevole vadano restituiti ai danneggiati. L'Imi si è appellata alla Corte Suprema del minuscolo paradiso fiscale, dove però anche i due penalisti italiani di Pacifico ora rivendicano i loro onorari: 8,3 milioni di euro. Nel '96, prima della bufera, Previti si dichiarava proprietario di un attico a Roma, una villa all'Argentario, altri cinque immobili, uno yacht e un veliero. Nel successivo decennio ha denunciato al fisco redditi per 6 milioni e 434 mila euro. Oggi, dopo le condanne che lo hanno fatto restare in carcere per quattro giorni, Previti rimane intestatario, stando ai pur agguerriti creditori, di un solo bene. «Una porzione di immobile nel grossetano», probabilmente il 50 per cento della villa al mare che nessuno pignora, perché è arduo vendere una casa indivisa che per l'altra metà è della moglie di Previti. Totalmente nullatenente è Metta: il giudice corrotto non ha pagato neanche le spese processuali. Appena più generosa la famiglia Previti: il figlio Stefano ha pagato ai danneggiati, al posto del padre, almeno le spese legali per circa 200 mila euro. Nel silenzio degli interessati, fonti indirette ma molto autorevoli precisano che in questi giorni lo studio dell'avvocato Angelo Benessia, che assiste l'Imi, sta preparando le azioni revocatorie per far annullare le cessioni patrimoniali dei condannati. Previti deve averlo intuito, tanto che per la prima volta ha offerto una transazione anche per Pacifico e Acampora. Le posizioni restano lontane: da 20 a 40 milioni. Ma la trattativa prosegue sulle cifre. Nel '94 i tre avvocati corruttori intascarono personalmente 67 miliardi di lire dai Rovelli. A questo punto l'Imi (oggi del gruppo Intesa) si accontenterebbe di metà di questa somma, purché rivalutata per 14 anni. In tal caso ai tre corruttori resterebbe in tasca, questa volta legalmente, metà della tangente. Uno schema analogo di transazione è stato già firmato dai Rovelli (la vedova e i quattro figli), che l'anno scorso hanno formalizzato l'impegno di risarcire 200 milioni all'Imi. La famiglia si è decisa a pagare solo quando i magistrati di Monza hanno bloccato 110 milioni di dollari a Miami. Calcolando la rivalutazione, anche i Rovelli sono usciti dallo scandalo trattenendo più di metà del bottino. Ultima avvertenza. Un sacro principio del nostro diritto stabilisce che, se i colpevoli non risarciscono, è lo Stato a dover pagare per i reati commessi dai giudici corrotti. Morale: se Previti e soci continueranno a non rimborsare le vittime dei loro illeciti, a dover versare circa due miliardi di euro saranno tutti gli italiani che pagano le tasse.

venerdì 25 aprile 2008

Gianfranco Fini, da delfino a portaombrello


Tutto mi aspettavo da Gianfranco Fini, da eroe dei pannolini a presidente della Camera in pectore, meno che diventasse una sorta di portaombrello personale del cavaliere. Manca poco che ne diventi anche il porta abiti personale, l'appendi cappotto esclusivo, in una parola il tappetino. Vederlo alla manifestazione a Roma per sostenere la candidatura a sindaco di Gianni Alemanno, sorridente ed ossequioso, con l'impermeabile color crema un pò simil maniaco del parco, con la cravatta rosa e l'ombrello in mano a riparare la pelata restaurata e impreziosita di sua emittenza (lasciando scoperto il tricotico Alemanno), beh, vi confesso che un certo effetto me lo ha procurato. Osservavo la fotografia (pubblicata stamani a pagina 12 del Corriere della Sera) con un misto di amara inquietudine e di rassegnata delusione. L'inquietudine era dettata dalla incertezza su quale futuro attende l'ex ministro degli Esteri ed ex vicepremier: se cioè sarà davvero, come si vocifera, il nuovo presidente della Camera o se avrà un fulgido avvenire da stampella umana del caimano. La delusione era invece conseguente al ricordo che avevo di Fini ai tempi degli anni caldi a cavallo tra il 1977 e il 1979, quando a Roma esplose la tragica realtà degli opposti estremismi, delle pistolettate tra rossi e neri, degli assalti fascisti e delle risposte con il morto degli autonomi. Lui era il segretario del Fronte della Gioventù, era un astro nascente nel panorama politico giovanile italiano. Era il delfino di Giorgio Almirante, una mente grigia per la destra: insomma, non era certo l'ultima ruota del carro. E' vero, i suoi compagni (per meglio dire, i camerati) di partito lo chiamavano er caghetta per via della sua rinomata ritrosia (al confine con la pavidità) nel farsi trovare in prima fila a menare le mani o a manganellare (al contrario del suo amico Alemanno o di Storace o di Buontempo), ma suvvia, ritrovarselo oggi, 30 anni dopo in prima fila sì, ma a reggere l'ombrello a Berlusconi mi sembra proprio un suicidio d'immagine, un crollo spaventoso nell'attendibilità e nella virulenza da ruolo di leader, che nessuno oggi potrebbe mai riconoscergli. Una carriera al contrario, più che da delfino da salmone. Risalendo controcorrente. La speranza (per lui e per i suoi amici) è che non finisca stoccafisso, magari con patate...

giovedì 24 aprile 2008

l'indifferenza di fronte alla morte




Un fatto di cronaca tragico e purtroppo non isolato (si parla tanto delle morti bianche, delle morti accidentali, delle morti sui luoghi di lavoro) ha avuto una grossa eco sulle pagine romane del quotidiano la Repubblica. Ieri mattina, a Roma, in via Nomentana vicino a Porta Pia, un portiere di un signorile palazzo è precipitato accidentalmente nel vuoto dal terrazzo ed è morto sul colpo. Una notizia tragica come tante purtroppo. Forse sarebbe stato relegato nelle pagine interne, con un trafiletto e poche righe. Invece la incredibile, macabra, ingiustificabile indifferenza delle persone che camminavano sul marciapiedi di via Nomentana alle 9 di mattina, assorte nei loro vaghi ed eteri pensieri, presi dai ritmi frenetici della grande città, portava tutti ad ignorare quel povero corpo senza vita, una specie di manichino inanimato che in un lago di sangue non attirava l'attenzione di nessuno. Solo un commerciante, un gioielliere, ha avuto lo spirito umano pieno di pietas di avvicinarsi per prestare soccorso, inutilmente, al povero portiere. Notando l'indifferenza dei suoi concittadini, il negoziante ha preso carta e penna (telematica) ed ha scritto una lettera alla redazione de la Repubblica, che l'ha pubblicata in prima pagina. Vi ripropongo il testo della lettera. Spero serva a riflettere. Caro Direttore, sono titolare di un negozio a Roma, nei pressi di Porta Pia, non molto distante del centro storico. Ho bisogno di scriverle queste poche righe per esternare, dopo una giornata di emozioni e profondo dolore, la mia rabbia e il mio rammarico. Ieri mattina ho assistito ad una scena scioccante. Erano all´incirca le nove e avevo appena aperto il mio negozio quando, all´improvviso, ho sentito un tonfo, come di uno schianto. Ho aperto la porta e ho visto un´immagine raccapricciante: un uomo, riverso a terra e in una pozza di sangue. A causa di un terribile incidente, l´uomo, che faceva il portiere in un palazzo di via Nomentana, è precipitato da un´altezza di trenta metri mentre puliva il terrazzo dell´edificio. Ebbene, anche se per pochi attimi, mentre tentavo di dare un primo soccorso a quell´uomo riverso sul marciapiede come un manichino, nell´aria ho sentito un grande senso di indifferenza. Vedevo la gente intorno a me che correva al lavoro e nella calca, magari per fretta o disattenzione, scavalcava il povero Angelo. Poi, non appena sono arrivate le pattuglie della polizia e dei carabinieri e l´area è stata recintata, improvvisamente è scattata la curiosità perversa dei passanti ed ecco allora le domande, gli sguardi, la voglia di capire, sapere, vedere. Queste sono le sensazioni che ho percepito: dall´indifferenza per una vita troppo frettolosa, a quella curiosità perversa e morbosa che ci viene inculcata talvolta dai mass media sempre alla ricerca della sensazionalità. E in tutto questo vortice di emozioni io ancora penso al dolore della famiglia del povero Angelo. E penso a chi in quel momento, magari per fretta, per i suoi pensieri, per i suoi problemi, per l´ansia del lavoro e della quotidianità, correva senza accorgersi che un uomo era disteso a terra, morto. Credo che l´indifferenza nasca da un mondo che non ci permette più di provare sentimenti, di dare conforto. E allora mi appello a voi, ai mezzi di informazione: aiutateci a capire che di fronte alla realtà, alle tragedie, al dolore, non basta cambiare canale con il telecomando. Firmato: Paolo Peroso.

piccoli caimani crescono...


Non c'è niente da fare. Mi sforzo, mi riprometto, cerco di non scrivere del cavaliere, ma alla fine, purtroppo, devo arrendermi e scriverne. Però, questa volta, non direttamente di lui, ma del suo diretto discendente, al quale già una volta avevo dedicato la mia attenzione (http://tpi-back.blogspot.com/2008/01/piersilvio-non-sar-il-nuovo-caimano.html). In quella occasione mi sembrava che ci fossero le premesse perchè il figlio non ricalcasse le orme del padre. Mi sbagliavo. Tanto per non smentirsi (e non smentire la tradizione di famiglia) il giovane e nerboruto Piersilvio Berlusconi ha voluto mettere le cose in chiaro, far sapere da che parte sta, indicare i nemici suoi e del suo capofamiglia; insomma, una bella chiacchierata con la giornalista del Corriere della Sera, la brava Maria Volpe, ha sgombrato il campo dai residui dubbi su chi sarà il prossimo caimano. Una prova? Leggetevi l'intervista intitolata "Piersilvio: Mediaset l'ha scampata bella". Buona lettura. L'esordio di Piersilvio Berlusconi regala una sorpresa: «Io Ronaldinho non lo prenderei. Parlo da tifoso, naturalmente: non è quello che serve al Milan di oggi. Più che spendere così tanto per un solo giocatore, forse meglio investire su più ruoli. Ma se arriva un fuoriclasse del genere sarà comunque il benvenuto». Tra un aereo e l'altro, il figlio del capo del governo in pectore parla di Milan, ma soprattutto di politica e televisione. Ieri era a Roma per presentare a Napolitano, nei saloni del Quirinale, con Confalonieri e il produttore Valsecchi, l'anteprima della fiction su Moro. Poi di nuovo a Cologno, alla scrivania.
E di fuoriclasse in politica se ne vedono in giro? «Ce n'è uno che conosco molto bene... Non finisce mai di stupirmi».
Giudizio di parte. Passiamo all'opposizione: Veltroni la stupisce? «Confesso che all'inizio mi ha affascinato per quel suo modo nuovo e moderato di affrontare le cose. Però alla fine della campagna elettorale — e ho fatto davvero lo sforzo di ragionare al di là del mio cognome — ho iniziato a sentire delle evidenti mancanze. Mi è sembrato poco concreto, proiettato verso un sogno futuro, ma non in grado di dare risposte ai problemi di oggi. Per me il suo fascino alla fine è svanito. Si dice che Veltroni sia un grande comunicatore, ma visti i risultati...».
Che effetto le fa l'antiberlusconismo, quello che ogni tanto degenera in odio? «Mi fa scattare un senso di protezione verso mio padre in termini affettivi, quasi fisici, non politici. Ormai tutti in famiglia abbiamo fatto l'abitudine anche agli attacchi più feroci. Ma è terribile sentire certe falsità anche in alcuni recentissimi programmi tv».
Dopo anni alla vicepresidenza di Mediaset pensa che la tv condizioni le scelte degli elettori? «In linea generale, meno di quanto si dica. Sicurezza, pensioni, lavoro, carovita: le soluzioni a questi problemi sono le cose che contano. Molto più di come si presenta un leader politico in tv».
È vero che la sera dei risultati era con suo padre ad Arcore? «Sì ero lì, anche con mia sorella Marina. È stata una serata che ricorderò sempre, sia come figlio, sia per la sensazione di partecipare a un momento storico. Da un lato la felicità per mio padre, dall'altro la consapevolezza di aver vissuto da vicino il passaggio a un Parlamento più moderno, centrato su due nuovi grandi partiti. Chi l'avrebbe immaginato soltanto qualche mese fa?».
Avete tirato un sospiro di sollievo per aver evitato la legge Gentiloni sulle televisioni? «È chiaro che la sensazione di scampato pericolo c'è. Ma quella legge non so se sarebbe mai passata. Troppo platealmente a senso unico contro Mediaset. Noi chiediamo solo di operare nella normalità, con regole chiare che limitino, ma allo stesso tempo tutelino, tutti gli operatori».
Confalonieri in un'intervista auspicava un dialogo con il centrosinistra. È d'accordo? «L'Italia ha bisogno urgente di grandi riforme che possono essere realizzate solo con il consenso di tutti. Spero che governo e opposizione collaborino su questo, senza bisogno di accordi su come governare».
Cosa pensa della Lega? «È un partito vero che interpreta bene alcuni bisogni dei cittadini del Nord e del Centro-Nord».
Non teme certi eccessi? «No. Al di là dei toni da campagna elettorale, Maroni e Castelli, per esempio, sono molto competenti, Bossi è un vero animale politico. E la Lega esprime un punto di vista all'interno di una coalizione. Sono ottimista, il Paese è in buone mani».
E Mediaset è in buone mani? Sono anni difficili per la televisione. «Il 2007 è stato molto complicato, ma ne siamo usciti con un bilancio positivo e ottimi utili. Nel 2008, almeno finora, la pubblicità è in crescita e gli ascolti brillanti. Già nello scorso autunno, Canale 5 è stata la prima rete italiana in prima serata e ora, a stagione quasi finita, Canale 5 e Mediaset sono leader assoluti sul pubblico fino a 65 anni. E anche considerando tutta la popolazione siamo davanti. Non è un nostro obiettivo, ma premia il nostro lavoro. Insomma, tutti gli indicatori fanno pensare al 2008 come a un grande anno».
Di chi è il merito? «Abbiamo risultati elevati e costanti: da Striscia ad Amici, dalla Corrida al Grande fratello e allo Show dei record, passando per i Cesaroni. La Rai invece vive su singoli eventi: Celentano, Benigni, Sanremo, miniserie seguite soprattutto dal pubblico più anziano».
Domenica scorsa il direttore di Raiuno Del Noce era ospite di Bonolis a «Il senso della vita» su Canale 5. Le ha dato fastidio? «Noi avevamo sconsigliato Bonolis. Nulla contro Del Noce, ma non ci sembrava opportuno, soprattutto per loro due. Detto questo non è nostro costume vietare se non ci sono eccessi dal punto di vista editoriale. Contenti loro...».
Il futuro di Bonolis è a Mediaset o come si dice tornerà alla Rai visto che a giugno scade il suo contratto? «Noi siamo tranquilli, stiamo lavorando insieme a Paolo su progetti futuri. E poi abbiamo un'opzione: potremmo allungare il contratto».
Se volesse condurre il prossimo Festival di Sanremo concedereste la liberatoria? «Prima pensiamo alle cose da fare in Mediaset, poi, nel caso, vedremo se sarà possibile coordinare gli impegni. Di principio non siamo contrari. L'abbiamo già concessa ad altri importanti artisti Mediaset».
Perché non avete un programma d'informazione in prima serata? «L'approfondimento politico a quell'ora deve avere toni forti per funzionare. Non è facile per nessun editore: figuriamoci per noi. Ce ne direbbero di tutti i colori. Di certo, una cosa fatta col bilancino non funzionerebbe».
E il digitale terrestre come va? «Siamo all'inizio, ci vuole prudenza, ma i risultati sono al di sopra delle nostre migliori aspettative. Le tessere attive Mediaset Premium sono arrivate a 2 milioni e 600mila. E le tessere attivate dal primo gennaio a oggi sono il doppio rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso».
Tra pochi giorni, il 28 aprile, compirà 39 anni. «È vero, inizio il mio quarantesimo anno di vita. Mi ritengo estremamente fortunato: salute, famiglia, amore, lavoro. Per il futuro c'è da fare veramente tanto: Mediaset ha da poco iniziato il cammino per diventare un gruppo di grande respiro internazionale. Una sfida tosta».

identità di vedute







Finalmente ieri pomeriggio, poco dopo l'ora di pranzo, sono riuscito a parlare al telefono con Luca Telese. Capisco che a molti lettori di questo blog può fregarne di meno, però la mia idea è che un cordiale scambio di idee (politiche e non) con un giovane e dinamico giornalista, nonchè scrittore, possa essere propedeutico per una felice e amichevole collaborazione, anche in prospettiva di bloggers. Infatti anche Luca ha un raffinato e ben frequentato blog (http://www.lucatelese.it/?page_id=428) che il sottoscritto frequenta assiduamente da qualche giorno. Nella nostra conversazione telefonica di ieri pomeriggio, molto cordiale e di reciproco interesse, Luca mi ha detto di aver scoperto il mio blog abbastanza casualmente (e non poteva essere altrimenti), cercando su GOOGLE un suo articolo, mettendo la parola chiave "luca telese, articolo, cavaliere", su 17.600 risultati è uscito fuori nella prima pagina il mio post dedicato a lui e la cosa lo ha alquanto incuriosito. Andando sul mio blog , letto l'articolo che lo riguarda mi manda subito un commento (da me pubblicato) con l'invito a contattarlo telefonicamente per parlarne. E' la seconda volta che mi capita: un giornalista mi contatta dopo aver letto un mio post che lo riguarda. La prima volta era accaduto qualche tempo fa per un post pubblicato su l'Antipatico e anche in quel caso dedicato a un giornalista de il Giornale, vale a dire Stefano Lorenzetto (http://l-antipatico.blogspot.com/2008/04/anche-il-giornale-ha-buoni-giornalisti.html), il quale mi scrisse per complimentarsi. Tornando a Luca Telese, abbiamo parlato anche della sua trasmissione televisiva, alquanto seguita, Tetris su La7 che la settimana scorsa (nell'ultima puntata della stagione) ha avuto come ospiti, tra gli altri, Marco Travaglio, Antonello Piroso e Bianca Berlinguer. E a proposito di quella puntata, ho confidato a Luca che quello detto dagli ospiti il sottoscritto l'aveva esposto in un post circa tre mesi fa, anticipandone il senso e il contenuto (http://tpi-back.blogspot.com/2008/01/eppure-lo-rimpiangeremo.html), come quelli della trasmissione di Telese (http://www.la7.it/approfondimento/dettaglio.asp?prop=tetris) e la cosa ha sorpreso ancor di più il mio interlocutore. A volte, basta poco per avere una certa identità di vedute. Ancora un grazie e un cordiale saluto a Luca Telese.

mercoledì 23 aprile 2008

uno sguardo dal (prestito) ponte...


Tanto ha fatto, tanto ha detto che alla fine il prestito ponte l'ha ottenuto. Non avevo dubbi: quando il cavaliere si mette in testa una cosa (compreso trapianti e bandane) alla fine la ottiene, con le buone o con le cattive. Circa un mese fa, in piena campagna elettorale, aveva fatto la prima richiesta di "prestito ponte" direttamente al suo nemico di sempre, Prodi, adducendo la motivazione nazional-popolare che bisognava salvare Alitalia per il bene patriottico della nazione, di tutti gli italiani. Non bisognava consegnarsi nelle mani dell'invasore (aereo) transalpino, non bisognava svendere la compagnia di bandiera, costi quel che costi. Anche 400 milioni, di euro. Il governo che fu rispose in quell'occasione picche. Questa volta ha alzato bandiera bianca. E un pochino si è anche sbracato. Voleva concederne 150, alla fine ne ha dati 300, di milioni. La giustificazione? Ce li ha chiesti direttamente il cavaliere. Della serie, meno male che non ci ha detto anche di metterci a novanta gradi...Scampato pericolo. E così l'ineffabile barzellettiere di Arcore ha ottenuto l'en plein: ha fatto scappare i francesi, non ha sborsato un euro, ha messo le mani nelle tasche degli italiani e ha preparato la strada al suo amico Putin e all'Aeroflot (http://www.moscowtimes.ru/article/1009/42/362245.htm). Come se non bastasse ha accusato i sindacati di aver fatto "scappare" Air France-KLM, ma Bonanni gli ha risposto per le rime (http://www.ansa.it/infrastrutturetrasporti/notizie/rubriche/traspaereo/20080423130834639576.html), con successiva "ritrattazione" del cavaliere. Insomma, lo scenario è sempre lo stesso: ogni volta che l'omino di Arcore si accorge di averla fatta fuori dal vasino, batte precipitosamente in ritirata sconfessando se stesso e i suoi seguaci (Bonaiuti in primis), si erge a paladino delle sue scelte da "statista" e nel contempo infinocchia gli italiani con le solite moine da chansonnier navigato e da partecipante a "La sai l'ultima?". Con una mano prende (i milioni), con l'altra saluta e se ne va. Alla prossima. Recita.

martedì 22 aprile 2008

Luca Telese NON è più il figlioccio del cavaliere...


Faccio pubblica ammenda. Mi ero sbagliato. Avevo definito Luca Telese il nuovo figlioccio del cavaliere, e solo perchè aveva seguito un comizio berlusconiano a Palermo, prima delle elezioni, esaltandone le virtù taumaturgiche di catalizzatore delle folle, in un articolo scritto per il Giornale di famiglia di Arcore. Luca Telese ieri mi ha scritto, dopo aver letto il mio post che lo riguardava (http://tpi-back.blogspot.com/2008/04/luca-telese-il-nuovo-figlioccio-del.html), io gli ho risposto, mi ha lasciato anche gentilmente il suo numero di cellulare (ho provato a chiamarlo, senza risultato) ed ora sono qui a ribadire che il tono del mio scritto era ironico e sfruculiante, per un giornalista che stimo, che è stato dalla mia stessa parte politica e che oggi voglio ringraziare riproponendo all'attenzione dei lettori del mio blog un suo articolo (molto ben scritto) sulla corsa di Francesco Rutelli e Gianni Alemanno al Campidoglio, pubblicato sul quotidiano milanese. Buona lettura e ancora un saluto cordiale a Luca. Si inseguono l’un l’altro senza tregua, da una capo all’altro della città, da un tiggì all’altro, da una polemica a quella successiva, dalla stanza di Totti al Vaticano, sullo stesso terreno, marcatura «a uomo». Gianni Alemanno insegue Rutelli: ma adesso anche Francesco Rutelli insegue Gianni Alemanno, dopo il risultato sorprendente (del centrodestra) al primo turno, che ha ribaltato le orbite gravitazionali fra i due. Duello vero, duro, senza esclusione di colpi, a partire alla sicurezza. «La facile ricerca di consensi sarà un boomerang per il mio avversario», polemizza Rutelli. E il candidato del centrodestra, duro: «Rutelli mente sapendo di mentire. Le responsabilità prevalenti, se non esclusive - conclude Alemanno - sono del suo governo». È vero, tutte le campagne elettorali concentrate nel territorio si combattono corpo a corpo: ma stavolta, per la poltrona di primo cittadino di Roma accade qualcosa di particolare e forse nuovo, un testa a testa senza rete. Alemanno, per esempio, ha già sfidato anche Walter Veltroni, ma allora qualcosa rendeva quel duello fair, più sereno. Al punto che quando Veltroni fu ricoverato d’urgenza in ospedale, il candidato del centrodestra andò a trovarlo, e con un sorriso autoironico sciorinò una delle sue migliori battute: «Che bello, così, dopo questa campagna stressante, mi faccio dare un lettino e dormo vicino a Walter...». La sfida televisiva che era già concordata senza problemi saltò proprio per quel malore, stavolta invece Rutelli ha rifiutato il match finché non ha avuto la certezza del ballottaggio (i due per ora si sono incontrati solo una volta, all’Ordine degli architetti). Anche per questo, il faccia a faccia che sarà ospitato questa sera da Giovanni Floris a Ballarò è anch’esso parte di una piccola «caccia». Solo a ricordare la sfida con il leader del Pd Alemanno conquista buon umore in questa con Rutelli: «Allora erano tutti veltroniani! Disse che votava per il candidato del centrosinistra finanche Lando Buzzanca, un attore da sempre a destra... Quando vidi che lo stesso faceva donna Assunta, grata per i mazzi di rose che riceveva da Walter, mi misi le mani nei capelli». Ma il clima è cambiato. Rutelli ha preso 60mila voti in meno delle sue liste, meno voti di Veltroni alle politiche (lo stesso giorno!), meno voti della sua coalizione alle comunali. Veltroni sconfinava nel campo avverso, Rutelli perde punti nel proprio, e così la sfida si gioca sul filo di lana. Racconta Alemanno che lui e il ministro dei Beni culturali si conoscono da una vita, da quando Rutelli era ancora radicale. Per questo lo ha stupito l’atteggiamento glaciale con cui Rutelli lo ha accolto alla fine del primo turno quando si incrociarono alla Rai per la registrazione delle tribune regionali: «Mi alzai e gli andai incontro sorridendo con la mano tesa, lui rimase con la bocca sigillata e non la strinse». Così, pur sfiorandosi i due hanno iniziato la marcatura a uomo. Per esempio, con il capitano giallorosso: Alemanno va a trovare Francesco Totti, per «sanare» la polemica di Berlusconi. All’uscita dichiara: «È stato un incontro molto simpatico, gli ho detto che rispetto le sue opinioni, infatti la mia presenza a Villa Stuart è finalizzata a fare pace e per mettere una pietra sopra alle polemiche». Salvo poi strappare un ottimo compromesso: «Mi ha detto che vuole molto bene a Roma - aggiunge - e continuerà a impegnarsi nella solidarietà a prescindere da chi sarà il nuovo sindaco. Gli ho augurato una pronta guarigione». Passano solo 24 ore, e al capezzale dei crociati che fanno sognare i romani arriva anche Rutelli: «Dovevo ringraziarlo per la sua affettuosità e per la sua amicizia, qui conta il riconoscimento a un’icona di Roma». Rutelli collega la visita a Villa Stuart alla propria campagna elettorale. «Era giusto stare con lui e “battergli il cinque” - aggiunge -: ci siamo confermati un reciproco in bocca al lupo». E che dire del Papa? Appena tornato dagli Usa è omaggiato da Alemanno: «Nell’augurargli il più sincero bentornato dal suo impegnativo viaggio - dice - esprimo profonda gratitudine per il suo magistero americano, fonte di preziose indicazioni etiche». Ma stavolta Rutelli va addirittura «a prenderlo» a Ciampino, per poi dire (con l’entusiasmo papalino di un ex anticlericale): «È stato bellissimo, il Papa mi ha stretto la mano per un minuto. È stato un gesto molto affettuoso. Che ci siamo detti? Non si dice, tante cose». Ovviamente i colpi più duri sono sul terreno della sicurezza. Alemanno inizia la sua campagna chiedendo l’espulsione di 20 mila immigrati pregiudicati, Rutelli lo scavalca con il «braccialetto di sicurezza» per le donne. Ma Alemanno lo controscavalca «a sinistra»: «Per le donne è umiliante». Poi lo stupro della studentessa del Lesotho riaccende le polveri: «Alemanno dimostrerebbe molta più civiltà se si unisse a me nelle lotta alla criminalità», riattacca Rutelli. «Il suo governo - gli ribatte l’altro - ha esteso anche agli extracomunitari la possibilità di entrare in Italia con un visto turistico. Loro poi rimangono». Forse, l’unica cosa davvero impossibile, in questa sfida che ribalta tutti gli assi cardinali, è che Rutelli superi Alemanno «a destra» sulla sicurezza.

Alex agli Europei, senza se e senza ma


Debbo confessare che in quasi 350 post scritti in questo blog quasi mai mi sono occupato di calcio, di pallone, di stelle del football. Un'eccezione l'avevo fatta tempo fa, ma per un caso clamoroso che non poteva passare sotto silenzio (http://tpi-back.blogspot.com/2008/02/dondarini-uno-scandalo-senza-confini.html). E oggi voglio uscire allo scoperto su quello che potrebbe diventare un caso, un caso nazionale, quasi da rivolta popolare, come fecero i fiorentini all'epoca della cessione di Roberto Baggio alla Juventus nel 1990. Il caso in questione è rappresentato dalle oramai straconosciute polemiche riguardo alla convocazione in Nazionale di Alessandro Del Piero per partecipare agli Europei di Austria e Svizzera di giugno. Donadoni ancora non ha sciolto la riserva, gli addetti ai lavori (calciatori, allenatori, giornalisti) invocano Alex in azzurro, lui svicola e pensa solo a continuare a fare un campionato strepitoso, sontuoso, da fuoriclasse. Io, da parte mia, esprimo il mio modesto parere già con il titolo di questo post, mutuandolo soprattutto da un bellissimo articolo di Roberto Perrone (una delle prime firme delle pagine sportive del Corriere della Sera) intitolato "Ora ha davvero il tocco magico" pubblicato oggi sul quotidiano milanese. Leggetelo e capirete perchè non si può lasciare Alex a casa. Ogni tanto di Alex Del Piero si interpretano gli sguardi, il modo con cui si slaccia la fascia da capitano, l'intensità della sua stretta di mano con il tecnico di turno al momento della sostituzione. E' cominciato così anche l'anno sociale 2007-08, perchè Claudio Ranieri aveva preso ad alternare il capitano bianconero con Iaquinta: lo teneva in panchina, lo richiamava con continuità. Quasi un Capello-ter. Sta finendo (mancano quattro giornate) con Iaquinta nelle retrovie e Alex che ha già raggiunto il secondo posto nel suo personale tabellino di realizzazioni stagionali (17). Dal 1997-98 (21 reti) non toccava queste vette. E' come se avesse cancellato l'infortunio (8 novembre '98) e gli ultimi dieci anni. Ha di nuovo il tocco magico giovanile e lo sorregge con un atletismo derivato da una saggia auto-programmazione. Deve andare agli Europei per i numeri (in tutti i sensi): senza rigori è il primo realizzatore del campionato italiano. Non si lascia a casa un calciatore che ha il piede così caldo. Non si lascia a casa un calciatore che fisicamente sta benissimo. Sostenere che non ha le coppe significa non vedere come gioca, come si muove, la sua forza fisica. Anche con le coppe giocherebbe allo stesso modo, perchè queste sono annate speciali dove tutto - tecnica, potenza, estro - si salda. E' un uomo squadra, completo. Alex Del Piero deve andare agli Europei perchè solo un attaccante italiano sta facendo meglio di lui. Si chiama Luca Toni e ha un altro ruolo. Alex Del Piero deve andare agli Europei perchè, anche senza il posto sicuro da titolare (comunque non dovrebbe averlo nessuno), sarebbe un investimento importante a corta o lunga scadenza come è accaduto in Germania con Marcello Lippi. Alex si è staccato dalla panchina nei frangenti più difficili infilando il raddoppio in semifinale con la Germania e trasformando uno dei rigori nella finale con la Francia. E poi con lui si ha la certezza dell'assenza totale di polemiche ed è escluso il pericolo di destabilizzazione del gruppo (lo stesso non si può affermare con Cassano, ad esempio). Neanche nel periodo in cui un allenatore (Capello 1 e 2) l'ha umiliato di più, la sua voce s'è alzata. Per tutto questo deve andare agli Europei. Senza se e senza ma.

lunedì 21 aprile 2008

chiediamo un prestito alla Banca Morandi!


La notizia che ho letto stamani (http://www.corriere.it/spettacoli/08_aprile_21/pupo_13ca98f2-0f67-11dd-aca8-00144f486ba6.shtml) mi ha fatto credere per un attimo di non aver regolato il calendario, lasciato magari inavvertitamente al 1° aprile. Ma poi, rileggendo bene un paio di volte l'articolo, ho capito che era tutto vero. E mi sono lasciato andare ad una risata ristoratrice. E subito dopo dei pensieri nient'affatto fuori posto hanno cominciato ad affollare la mia scatola cranica. Mi sono detto: ma come, Enzo Ghinazzi (Pupo) 20 anni fa riceve un prestito amichevole da Gianni Morandi di 200 milioni di lire, per coprire i suoi debiti di gioco, e dopo tutto questo tempo gli restituisce solo 100 mila euro? Vale a dire nemmeno cento euro in più a mò di platonico e parziale ringraziamento, anzi al cambio attuale ha restituito a Morandi 193.627.000 di vecchie lire, quindi pure meno del prestito? Non è possibile. Dopo aver fatto l"indiano" per tutti questi anni, dopo essersene infischiato del gesto nobile ed oneroso (20 anni fa 200 milioni non erano bruscolini) del cantante di Monghidoro, dopo averci giocato a fianco nella Nazionale Cantanti per tanto tempo, facendo finta di niente nè sul campo da gioco, nè nello spogliatoio e nemmeno sotto la doccia, il Ghinazzi se ne esce adesso con la faccia da tolla e gli dà 100 mila euro? Mizzica, ma allora io sono un bel coglione se ancora sto pagando il 16, 375% di extra fido alla mia bella banca milanese per il mio conto corrente. Sono praticamente un mentecatto se ancora mi rivolgo all'eccellentissimo direttore della filiale sotto casa per avere un piccolo prestito (dovendo ipotecare pure l'aria che respiro per ottenerlo). Eh sì, è proprio così. Almeno fino a questa mattina, quando ho letto l'articolo di Maria Volpe sul Corriere della Sera. Ma adesso so dove dovrò rivolgermi (con fiducia e trasparenza) per ottenere il mio prossimo prestito, o magari per farmi scontare un pò di effetti a quattro zeri. Senza ombra di dubbio, sto già recandomi alla filiale romana della Banca Morandi! La banca che non chiede nulla. Mai. Soprattutto se sei amico di Pupo...

elogio (dell'invecchiamento) di Beppe Grillo


Esce domani in libreria, edito dalla Mondadori, un libro intitolato "Ve lo do io Beppe Grillo" (260 pagine, 15 euro) scritto da Andrea Scanzi, giornalista aretino 34enne, autore di Elogio dell'invecchiamento. Alla scoperta dei 10 migliori vini italiani (e di tutti i trucchi dei veri sommelier) celebrato anche attraverso un blog (http://www.elogiodellinvecchiamento.splinder.com/) molto seguito pure dalla Alcolisti Anonimi. Scanzi attualmente scrive di costume, sport e spettacolo su La Stampa di Torino, e proprio il giornale sabaudo dà oggi un'ampia anticipazione del libro dedicato a Grillo, di cui Scanzi traccia una sperticata lode, alla vigilia del V-DAY, già nella presentazione: Come è stato possibile che un comico, da solo e contro tutti, abbia messo in scacco un'intera classe politica? Qual è la strada che conduce dal Festival di Sanremo, Pippo Baudo e le battute sul primo Jovanotti a www.beppegrillo.it, tra i primi dieci più cliccati al mondo, e alle invettive che terrorizzano i potenti? L'intero percorso di Grillo, dagli esordi RAI agli spot pubblicitari, dagli spettacoli teatrali alla fugace carriera cinematografica, focalizzando l'attenzione sulla "scoperta" della Rete, il linguaggio del blog e il popolo dei "grillisti", fino all'esplosione dell'8 settembre a Bologna con le sessantamila persone in piazza e le più di trecentomila firme raccolte in poche ore su proposte di legge moralizzatrici, un cortocircuito carico di elettricità che ha proiettato Grillo al centro dell'attenzione politica. Ecco uno stralcio del libro di Scalzi.
Quando si parla di Beppe Grillo, troppo spesso è per sentito dire. Non si sa chi sia (oggi) Grillo, cosa abbia fatto Grillo, di cosa parli Grillo e come sia arrivato ai V-Day. Ma se ne parla. Male e sottovoce, ma se ne parla, quasi sempre per screditarlo con un generico "qualunquista".(...) C'è il bisogno di una contestualizzazione, di un contrappunto, di un ripasso. Di una rilettura il più possibile completa, simpatizzante - lo ammetto - ma tutt'altro che agiografica. Principalmente per questo è nato Ve lo do io Beppe Grillo (...) Da spettatore prima e giornalista poi, ho seguito tutta la carriera di Beppe Grillo; ero uno dei pochi che lo intervistavano otto anni fa (troverete quei dialoghi a metà libro); dal 1993 a oggi non ho mai mancato un suo spettacolo; il V-Day l'ho seguito sul campo, per La Stampa: una minima cognizione di causa spero di averla (...) Come è stato possibile che un comico, da solo e contro tutti, abbia (momentaneamente) messo in scacco un'intera classe politica? (...) I frequentatori del suo blog prima e dei suoi spettacoli poi (un tempo l'ordine era l'inverso), sono soprattutto delusi di/dalla Sinistra, un popolo più o meno trasversale che non voterebbe il Centrodestra neanche sotto tortura ma che, al tempo stesso, sfiancato da una lunga tradizione di disillusione, non ha creduto al miracolo de noantri: dal Yes we can obamiano al Sì ‘gna famo veltroniano (...) Non senza dosi di populismo, e certo avvantaggiato da una casta in larga parte impresentabile, Grillo ha convogliato con meritoria facilità l'attenzione (e la fiducia) di gran parte degli indignati. Degli schifati, degli astenuti loro malgrado. Di chi non ha retto l'involuzione cancerosa della politica italiana: l'indulto, il mastellismo, il ninostranismo, cose così. La sua non è antipolitica: antipolitici, casomai. Ma non è solo questo. Beppe Grillo non piace solo perché è contro e dice sempre no. Grillo si è potuto permettere di dire che le recenti elezioni erano «incostituzionali» e che l'unica risposta al «veltrusconismo » era l'astensione, perché forte di un lungo e coerente percorso di satira. Di controinformazione. Di attenzione meticolosa all'ambiente, all'informazione, all'economia: tutto ciò che ritiene, in una macroconcezione quasi avanguardistica, la vera politica. Che non è (più) la (per lui) superata divisione tra sinistra e destra, ma casomai - nel solito impeto di personalismo - una sperequazione manichea, senza possibilità di mediazione, tra bene e male, laddove il «bene» è lui (o ciò in cui crede lui) e il male è il potere genericamente inteso, e puntualmente nefasto. (...)Perché alle ultime elezioni non è scattata a sinistra quella voglia di vittoria che due anni fa portò milioni di elettori (disillusi, ma ancora partecipi) a fare le 5 del mattino per sapere se Berlusconi aveva perso? (...) Per un surplus di bile, per una tracimazione di indignazione. Perché vorrebbero una sinistra «radicale» senza i narcisismi effimeri di Bertinotti. Perché sognano una sinistra «riformista» depurata dal «maanchismo» veltroniano. Per tutto questo, certo. E perché, secondo Grillo, ciclicamente attiguo alla forzatura, il momento attuale è paragonabile - per emergenza democratica - ai tempi del fascismo. (...) E' per queste esagerazioni, per i toni fieramente sboccati, per la refrattarietà al politicamente corretto e al buonismo, che Grillo è ormai più odiato dalla Sinistra che dalla Destra (basta leggere La Repubblica per farsi un' idea). E certo non fa nulla per farsi benvolere. Parimenti a tutto questo, all'elencazione dei punti deboli (e ce ne sono) di Grillo e (ancor più) del grillismo, va serenamente ammesso un fatto «increscioso » per le ambizioni notoriamente egemoniche dell'intellighenzia. Dopo decenni di critica omologata e artisti intoccabili, editorialisti-vate e politici immarcescibili, si è conclamata l'eresia. Si è formata spontaneamente una larga fetta di popolazione (elettorato) che ha raggiunto la saturazione. Grillo, da navigato rabdomante, da istintivo ricettore, è stato bravo e scaltro a convogliarla. Di chi parlo? Di quei milioni (non migliaia) di persone che non credono più che il materialismo dialettico coincida con il Vangelo secondo Scalfari. Di quelle persone blasfeme al punto da credere che la «tv di sinistra » possa andare oltre la diarchia Fazio-Dandini. Di quei sovversivi che ne hanno abbastanza del «menopeggismo » alla Nanni Moretti. Di quei trotzkisti che non ne possono più dei D'Alema e non si fanno bastare più l'antiberlusconismo come motivazione unica per partecipare al rituale liturgico dell'urna (ormai più funeraria che elettorale, ideologicamente parlando). Grillo non è un santone, non è il salvatore, non è l'Unto della Rete. Forse lui un po' ci crede, e con lui i fedelissimi, ma la maggioranza dei «grillisti» («grillini» è orribile) no. Se volessi citare Hegel, direi che quando un'opera risulta destabilizzante le possibilità sono due: o quell'opera (quella persona) vince e apre una strada, o viene allontanato quale minaccia per il vecchio ordine prestabilito. E' una chiave di lettura plausibile, pertinente. Credo però che Grillo era e resti, anzitutto, un'appartenenza per chi non riesce più ad appartenere. Un'appartenenza parziale, talora equivoca e mai definitivamente convincente, ma di questi tempi - per molti - è già qualcosa.

la satira (preventiva) di Michele Serra




Lo leggo quotidianamente (o quasi) su la Repubblica nella pagina dei commenti con la sua Amaca; è uno dei giornalisti della mia generazione che preferisco, per l'intelligenza, la verve e l'ironia che caratterizza la sua satira velenosa. Michele Serra da sempre è attento alle malefatte del pianeta berlusconiano, non si lascia sfuggire l'occasione di rimarcare eventuali defaillances di chi gravita intorno al cavaliere. E così avviene anche con l'ultimo articolo scritto per L'espresso in edicola da venerdì. Il pezzo s'intitola "Lo stalliere e altre fiabe", godibilissimo e da leggere tutto d'un fiato. Io ve lo ripropongo. Che lo stalliere Mangano sia stato un eroe, e non un pregiudicato mafioso come fin qui affermato dalla propaganda comunista, era già noto da tempo, ben prima che Marcello Dell'Utri ce lo ricordasse così autorevolmente. Per concimare la bordura di petunie, nella villa di Arcore, percorrendo ginocchioni cinque chilometri di vialetti di ghiaia, ci voleva infatti una tempra eroica. Uguale attitudine al sacrificio fu necessaria a Mangano per accompagnare a scuola ogni mattina i figli di Berlusconi, che lo costringevano a cantare tutte le canzoni di Cristina D'Avena e i jingle pubblicitari di Mediaset. Alcuni dei quali, secondo gli studiosi di otometria, possono far sanguinare le orecchie dopo pochi secondi. Ma molti altri luoghi comuni imposti dalla sinistra stanno per essere definitivamente smascherati. Vediamo i principali. MAFIA. La Mafia è un fenomeno di costume. Il suo stesso, diffuso radicamento popolare in vaste zone della nostra bella Italia, smentisce l'assurda ipotesi che si tratti di un'organizzazione segreta. Le intemperanze occasionali di alcuni suoi membri, lungi dall'avere quel significato eversivo loro attribuito dai pubblici ministeri comunisti, sono solo eccesso di zelo correzionale per ricondurre alla ragione quei membri della comunità che vogliono negare la Famiglia Tradizionale, l'autorità del padre e le profonde radici cristiane del nostro meridione. Le pile di santini ritrovate, insieme alle provole e a innocue collezioni di armi da fuoco, nei rifugi dei padrini, sono la testimonianza della retta attitudine e della formazione religiosa di questi italiani perseguitati dal pregiudizio laicista. Non ultima prova a discarico della cosiddetta Mafia è l'attaccamento al lavoro e ai superiori di tutti i suoi impiegati. lo conferma il bassissimo numero di iscritti al sindacato: la Cgil-Killer conta un solo iscritto, per giunta deceduto pochi istanti dopo il suo tesseramento. RESISTENZA. Nei felici anni Quaranta, con il pretestuoso alibi dell'occupazione nazista e della Seconda guerra mondiale in corso, alcune bande di sfaccendati abbandonarono senza permesso il posto di lavoro e risalirono le montagne, nel tentativo di rubare le casse di viveri paracadutate dagli anglo-americani per le loro truppe. I novantamila caduti partigiani sono tutti periti nel corso delle sanguinose risse per accaparrarsi cioccolata e sigarette. Il cosiddetto 25 aprile, spacciato dai comunisti come Festa della Liberazione, fu in realtà un giorno come tanti altri: fucilazioni, bombardamenti, deportazioni di ebrei, canzoni di Rabagliati alla radio, donne che stendevano i panni sulle terrazze dopo avere rammendato in gruppo i buchi della mitraglia, insomma la serena routine dell'Italia popolare. Quell'Italia semplice e schietta i cui sentimenti già allora erano sconosciuti alla sinistra, chiusa nei salotti snob a diffamare il Cavaliere, quello di allora. COSTITUZIONE. Si tratta di alcuni fogli sparsi, malamente rilegati con un elastico, rinvenuti a Roma al termine di una inconcludente riunione politica di antifascisti, divisi su tutto tranne che sul gettone di presenza. Farne la carta fondamentale dello Stato è un arbitrio inaccettabile, quella gente era così fuori dal mondo che la sedicente Costituzione non fa neanche menzione delle tre "i": Inglese, Internet e Imponibile zero. Lo sanno tutti che la vera Costituzione venne dettata dalla Vergine Maria a una contadinella, emana un intenso profumo di rose e consta di un solo articolo, che incarica il papa di formare un governo di salvezza nazionale. REPUBBLICA. E' del tutto inaccettabile che il nostro sistema politico possa chiamarsi come il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Forse che in Francia vige un sistema chiamato "Le Monde", o la regina d'Inghilterra regna su uno Stato chiamato "Economist"? L'assurdità di questa situazione è evidente. La Repubblica italiana ha urgente bisogno di cambiare nome mediante concorso pubblico, e televoto finale. Per scongiurare i soliti brogli, il voto popolare sarà affiancato da una giuria di qualità formata da un manager, un pubblicitario, un vescovo e una donna di Forza Italia, che cucina per loro.